Giurisprudenza – CORTE DI APPELLO DI NAPOLI – Ordinanza 18 settembre 2019

Lavoro e occupazione, Disciplina del contratto di lavoro a
tempo indeterminato a tutele crescenti, Licenziamento collettivo (nel caso di
specie, per riduzione di personale), Violazione delle procedure o dei criteri
di scelta, Applicazione del regime previsto dall’art. 3, co. 1, del D.Lgs. n. 23/ 2015
(tutela indennitaria), L. 10 dicembre 2014, n.
183, art. 1, comma 7; decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di
lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), artt. 1, comma 2, e 10, anche in combinato disposto
con l’art. 3 del medesimo
decreto legislativo

 

Svolgimento del processo

 

1. Premesso di essere stata licenziata a seguito di
una procedura di licenziamento collettivo la Sig.ra R…., con ricorso
depositato presso questa Corte in data 8 ottobre 2018, interponeva gravame
avverso la sentenza n. 1110/2018 del Tribunale di Napoli con cui era stata
rigettata l’impugnativa del licenziamento intimatole in data 1° luglio 2016.

2. Avverso tale licenziamento la sig.ra R….
esponeva di essere stata dipendente della B. S.r.l. a seguito di passaggio di
cantiere ex art. 6 CCNL FISE
Igiene – a far data dal 1° maggio 2016, con contratto stipulato ex novo
senza riconoscimento della pregressa anzianità di servizio, svolta presso la
società cedente; che in data 15 maggio 2016 le veniva intimato – unicamente ad
altri otto colleghi – licenziamento ai sensi dell’art. 24, comma 1 della legge n.
223/91 con la motivazione «riduzione del personale»; che, in spregio ai
criteri di scelta ex articoli 4
e 5 legge n. 223/91, formalmente comunicati alle OO.SS., la ricorrente
veniva individuata, quale lavoratore del ruolo impiegatizio da licenziare,
esclusivamente in quanto rivestiva, prima della riassunzione, tale qualifica
nel cantiere oggetto del passaggio, posto che tale commessa non prevedeva più
tale mansione. Eccepiva la ricorrente la violazione dei criteri di scelta, con
particolare riferimento alla sua individuazione, visto che la causale del
licenziamento – come desumibile dalle comunicazioni era relativa a tutto il
personale dell’azienda e non al solo cantiere di Lacco Ameno e nell’organico
aziendale vi erano altre figure professionali identiche, mai state considerate
ai fini della comparazione.

3. La sig.ra R…., esponeva altresì che, adito il
Tribunale di Napoli in funzione di giudice del lavoro, e chiesta la
reintegrazione nel posto di lavoro precedentemente occupato e comunque il
risarcimento del danno, all’esito del giudizio, svoltosi nella resistenza della
convenuta, il giudice di prime cure aveva rigettato il ricorso, per genericità
ed infondatezza dei motivi, compensando le spese. Con i motivi di appello la
sig.ra R. ribadiva le tesi e le conclusioni già formulate in primo grado.

4. Opponeva, in particolare, la ricorrente
l’illegittimità del licenziamento intimatole, per violazione dei criteri di
scelta ai sensi dell’art. 5
della legge n. 223/91 e comunque per violazione della procedura.

5. Modulate le richieste istruttorie la Sig.ra
R…., concludeva per la riforma della sentenza che aveva rigettato il ricorso.

6. Avverso il gravame formulato si costituiva la B.
S.r.l. la quale chiedeva il rigetto dell’appello, ritenendo l’assunto infondato
e generico. Esponeva che, in ogni caso, posto che il contratto della R…., era
stato stipulato in data posteriore al 7 marzo 2015, la tutela esperibile
restava esclusivamente quella indennitaria nei limiti stabiliti dall’art. 10 del decreto legislativo 4
marzo 2015, n. 23.

Sulla rilevanza delle questioni di costituzionalità
sottoposte al vaglio della Corte.

7. Come sottolineato più volte dalla Corte costituzionale
(sentenza n. 185 del 1995 e n. 390 del 1996), ai fini della sussistenza della
rilevanza della questione da sottoporre al vaglio di costituzionalità è
sufficiente, a fronte di una motivazione non implausibile fornita dal giudice a
quo, che dall’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della
disposizione impugnata, derivi un cambiamento del quadro normativo assunto dal
giudice rimettente.

 8. Riassunta
come sopra la vicenda processuale e alla luce di quest’ultima, ritiene la Corte
che la decisione, in virtù della tempistica di costituzione del vincolo
contrattuale, implichi necessariamente il vaglio e l’applicazione, nelle
conseguenze sanzionatorie nel caso di accoglimento delle domande, della
normativa di cui agli articoli 1,
secondo comma e 10 del decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23;

9. Il licenziamento oggetto dì causa si riferisce,
infatti, ad un’ipotesi disciplinata dall’art. 24 della legge 23 luglio
1991, n. 223, attuativa della direttiva
dell’Unione 98/59/CE.

10. Tali licenziamenti sono sottoposti attualmente,
come noto, alla disciplina degli articoli
3 e 10 del decreto
legislativo n. 23/15, ad un regime sanzionatorio meramente indennitario.

11. Ai fini del presente giudizio, nella descritta
prospettiva della coesistenza di diversi regimi sanzionatori, con riferimento a
tale tipologia di licenziamento, assume rilevanza nel giudizio a quo, il vaglio
di conformità costituzionale del regime meramente indennitario, nella
formulazione antecedente alla novella di cui decreto-legge
n. 87/2018 convertito in legge n. 96/2018.

12. Ciò deve avvenire. a parere della Corte, sotto
vari profili, tra loro strettamente connessi. discendenti sia dal diritto
dell’Unione che, comunque, dalla stessa Carta Costituzionale, quali quelli
dell’adeguatezza ed effettività della tutela per il danno subito dalla perdita
del posto di lavoro, ragionevolezza della coesistenza di plurimi regimi
sanzionatori, anche rispetto ai principi di parità e non discriminazione dei
lavoratori, principi che a loro volta incidono sul giudizio di aderenza ai
parametri costituzionali ed eurounitari.

13. L’eventuale giudizio di non aderenza ai
parametri dell’Unione, ovvero ai parametri costituzionali del coesistente
doppio regime, determinerebbe una modifica della nuova disciplina che rende
pertanto – a giudizio della Corte e come meglio specificato in seguito –
rilevanti le questioni.

Sulla doppia pregiudizialità della questione
sottoposta al vaglio della Corte.

14. Ritiene inoltre questa Corte, in via
preliminare, che stante i duplici profili di contrarietà sia con il diritto
dell’Unione che con la Carta costituzionale, la questione dia luogo ad
un’ipotesi di cd. «doppia pregiudizialità», atteso che la violazione
prospettata di specifiche previsioni della Carta Costituzionale è integrata,
oltre ai motivi di seguito specificati, anche dal parametro di cui all’art. 117, primo comma Cost. con riferimento a
norme del Trattato dei Diritti Fondamentali dell’Unione la cui violazione,
pertanto, concorre con autonoma rilevanza ai fini della decisione del giudizio.

15. La riconducibilità del licenziamento collettivo
nell’ambito delle competenze normative dell’Unione impone, infatti, a questo
Collegio anche un esame circa la compatibilità delle norme di diritto interno,
suscettibili di applicazione, ed in particolare degli articoli 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo
2015, n. 23, con le previsioni contenute nella Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione (CDFUE) con le norme da esso derivate, sia che si
ritenga che introducano diritti di immediata applicazione, sia che stabiliscano
principi fondamentali. In entrambi i casi, infatti, l’interprete si trova di
fronte a regole di matrice eurounitaria, che incidono direttamente ai fini del
giudizio di compatibilità delle norme nazionali, che Giudice è tenuto a
disapplicare ovvero a richiedere di espungere dall’ordinamento.

16. La questione prospettata da questa Corte
implica, in effetti, la valutazione di conformità delle norme interne che
trovano applicazione nella fattispecie in esame con il principio di uguaglianza
(art. 20 CDFUE), di non
discriminazione (art. 21 CDFUE),
di tutela del posto di lavoro (art.
30 CDFUE), in uno con il diritto ad un ricorso effettivo (art. 47 CDFUE), in rapporto con la
direttiva 98/59/CE .

17. Le norme sopra richiamate di matrice
eurounitaria, arricchite dal richiamo ad altre fonti, implicano, a loro volta,
una parziale sovrapposizione dei diritti e dei principi fondamentali con
analoghe previsioni affermate dalla Carta costituzionale, anch’esse suscettibili
di incidere autonomamente sulla concreta applicabilità delle norme interne.

18. Non può invero negarsi che nell’ambito delle due
Carte fondamentali sussista, anche in forza delle comuni tradizioni giuridiche,
una oggettiva correlazione, tra gli artt.
20, 21, 30 e 47 CDFUE e gli articoli 3, 4, 35 e 111 Cost. in
un rapporto che, sebbene investa omogenei diritti fondamentali, tuttavia, non
necessariamente li rende del tutto sovrapponibili richiedendo, quindi, un’opera
interpretativa rimessa alle competenze delle rispettive Alte Corti.

19. In tale contesto multilivello questo Collegio
non ignora l’attuale «dialogo» tra Corti che coinvolge i meccanismi di tutela
dei diritti fondamentali avviato dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza
n. 269/2017 che, in tema di antinomie tra il diritto nazionale e l’ordinamento
eurounitario, afferma una competenza prioritaria del Giudice delle Leggi in
tema di diritti fondamentali.

20. La pregiudizialità costituzionale di diritti che
afferiscono a valori fondamentali, che trovano al contempo riscontro nella
Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione, che indubbiamente costituisce un
complesso normativa dotato «di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto
di impronta tipicamente costituzionale», non può, tuttavia, impedire – secondo
questa Corte – al giudice a quo di adire la Corte di Giustizia dell’Unione
europea. in qualsiasi stato e fase del giudizio.

21. Ritiene, infatti, il Collegio remittente che
qualsiasi prassi costituzionale interna. che impedisca di ritenere la
supremazia del diritto dell’Unione, ostacolando anche temporalmente la facoltà
del giudice nazionale di adire ex art.
267 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea la Corte di Giustizia
non sia compatibile con i vincoli assunti dall’Italia con l’adesione all’Unione
europea.

22. La giurisprudenza della Corte di giustizia UE
con la sentenza CGUE 11 settembre 2014 nella causa C-112/13, ha chiaramente
affermato che «il funzionamento del sistema di cooperazione tra la Corte di
giustizia e i giudici nazionali instaurato dall’art. 267 Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea e il principio del primato del diritto dell’Unione
necessitano che il giudice nazionale sia libero di adire, in ogni fase del
procedimento che reputi appropriata, e finanche al termine di un procedimento
incidentale di legittimità costituzionale, la Corte di Giustizia con qualsiasi
questione pregiudiziale ritenga necessaria».

23. Nello stesso senso si inseriscono altre pronunce
della Corte di giustizia, sia coeve, sia successive alla sentenza n. 269 del
2017 della Corte costituzionale. In particolare nella decisione del 20 dicembre
2017 causa C-322/16, si ribadisce come «un giudice nazionale investito di una
controversia concernente il diritto dell’Unione, il quale ritenga che una norma
nazionale sia non soltanto contraria a tale diritto, ma anche inficiata da vizi
di costituzionalità; non è privato della facoltà o dispensato dall’obbligo,
previsti dall’art. 267 Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea, di sottoporre alla Corte questioni
relative all’interpretazione o alla validità del diritto dell’Unione per il
fatto che la constatazione dell’incostituzionalità di una norma di diritto
nazionale è subordinata ad un ricorso obbligatorio dinanzi ad una Corte
costituzionale».

24. L’assenza di vincoli pregiudiziali che
impediscano al giudice del merito di adire la Corte di Giustizia dell’Unione
con rinvio ex art. 267 Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea, in presenza di coesistenti profili
afferenti a valori rilevanti ai fini del giudizio di costituzionalità viene,
infine, affermata anche dalla recente decisione del 24 ottobre 2018, nella
causa C-234/17 che inequivocabilmente afferma che «i giudici nazionali
incaricati di applicare, nell’ambito delle loro competenze, le norme del
diritto dell’Unione hanno l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali
norme (…) senza chiedere né attendere la previa soppressione di tale
disposizione nazionale per via legislativa o mediante qualsiasi altro
procedimento costituzionale».

25. Questa Corte, considera d’altra parte che
l’esigenza di assicurare una tutela sostanzialmente uniforme ed erga omnes
(cfr. Corte costituzionale 20/2019 e Corte
Cost. ordinanza 117/19) in tema di diritti fondamentali, comunque, non osti al
potere del Giudice del merito, in presenza di una doppia pregiudizialità, di
adire autonomamente la Corte di Giustizia, sottoponendo contemporaneamente la
questione interpretativa, rilevante ai fini del giudizio di costituzionalità,
come, peraltro, pare potersi ravvisare anche dalla giurisprudenza
costituzionale successiva alla decisione (C. Cost. n. 269/17).

26. L’assenza di un vincolo ostativo in capo al
giudice remittente a proporre autonomamente la questione interpretativa che la
Corte costituzionale è tenuta a vagliare in quanto strumentale ai fini del
giudizio che le è proprio, trova in effetti conferma nelle successive decisioni
e, da ultimo, nell’ordinanza n. 117/19.

27. La sintesi del complesso rapporto pare. quindi,
delinearsi nella espressa esclusione, affermata dalla Corte costituzionale
nella sentenza 20/19, di «ogni preclusione»
nell’ambito di un auspicato «concorso di rimedi giurisdizionali» in una
prospettiva di arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti
fondamentali.

28. Nella prospettiva delineata, questo Collegio
ritiene, quindi, di risolvere la segnalata doppia pregiudizialità prospettata
sulla base di un’interpretazione conforme con le norme dei Trattati dell’Unione
della prassi costituzionale che, al contempo, consenta di rimettere al Giudice
delle leggi la valutazione della persistenza giuridica con valore erga onmes,
di una norma interna contraria a principi fondamentali in una prospettiva anche
multilivello.

29. Una diversa interpretazione del «dialogo tra
Corti», che consentisse solo a valle del giudizio di costituzionalità la
facoltà del Giudice di attivare i meccanismi di rinvio pregiudiziale,
rischierebbe di esautorare – rectius emarginare – il ruolo del giudice del
merito dal meccanismo dinamico di arricchimento delle tutele tra diritto
nazionale e diritto eurounitario.

30. Ritiene, quindi, questa Corte di potere
contemporaneamente sollevare, con separate ordinanze, entrambe le questioni
prospettabili: la prima innanzi alla Corte costituzionale per la questione
basata su violazioni di norme primarie interne, come meglio specificate di
seguito, e al contempo in parte lesive di diritti fondamentali richiamati di
fonte sovranazionale, e la seconda innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione
europea per l’interpretazione della portata e della valenza delle stesse norme
eurounitarie, onde valutare la compatibilità di queste ultime con il diritto
interno.

Esplicitazione delle questioni di costituzionalità
sottoposte al vaglio della Corte.

31. Rilevanza e non manifesta infondatezza della
questione di costituzionalità dell’art.
1, settimo comma della legge n. 183/14 e degli articoli 1, secondo comma e dell’art. 10 del decreto legislativo 4
marzo 2015, n. 23, in sé e nel combinato disposto con l’art. 3 del medesimo decreto
legislativo, per contrasto con gli articoli 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 Cost., in
quanto in forma irragionevole, nell’ambito di una stessa procedura di
licenziamento collettivo, clic si svolga simultaneamente nei confronti di
lavoratori assunti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato dopo il 7 marzo
2015 e lavoratori assunti con analoghi contratti precedentemente a tale data,
le norme censurate introducono, in presenza di una identica violazione dell’art. 5 della legge n. 223/91
(e quindi per la violazione deì criteri di scelta afferente ai medesimi
licenziamenti), un ingiustificato differente regime sanzionatorio sotto un
duplice profilo;

32. dal punto di vista sostanziale, in quanto il
sistema sanzionatorio che questa Corte sarebbe tenuta ad applicare risulta,
rispetto al vincolo imposto dalla Costituzione di tutelare il rapporto di
lavoro, irragionevolmente inadeguato per efficacia deterrente e capacità di
ristorare il danno effettivo subito dal lavoratore a fronte della illegittima
risoluzione del contratto di lavoro, anche sotto il profilo previdenziale,
atteso che la normativa di cui al decreto
legislativo n. 23/15 non prevede, diversamente dal sistema sanzionatorio
applicabile alla medesima violazione perfezionatasi nella stessa procedura per
i coesistenti rapporti costituiti in data antecedente, la reintegra nel posto
di lavoro o altra misura economica di pari efficacia, sia sotto il profilo
della effettività che della capacità deterrente.

33. La coesistenza di regimi sanzionatori, del tutto
disomogenei per livelli di tutela, appare, infatti, – a giudizio della Corte
remittente – idonea a determinare una irragionevole disparità dì trattamento
fra identiche violazioni relative a fattispecie del tutto omogenee, intervenute
simultaneamente nella medesima procedura comparativa, basata su identici
criteri e presupposti di validità.

34. La sostanziale attenuazione della misura
sanzionatoria, concretamente priva di una capacità dissuasiva, per effetto
della disparità generata, sacrifica – a giudizio della Corte remittente – in
modo irragionevole solo per alcuni lavoratori il diritto al mantenimento del
posto di lavoro, tutelato costituzionalmente, ed appare quindi idonea a ledere,
per i soli lavoratori assunti post 7 marzo 2015, il diritto ad una selezione
comparativa oggettiva ed imparziale.

35. Dal punto di vista strettamente processuale
l’inadeguata tutela rispetto al danno effettivo subito si accompagna ad un
rimedio processuale meno efficace, perché privo di immediatezza, nel quale il
decorso del tempo penalizza il lavoratore privato ingiustamente del posto di
lavoro.

36. Le norme oggetto dell’ordinanza di rinvio al
contempo si pongono altresì – ad avviso di questo Collegio – in contrasto con
gli art. 3, 4, 10, 35, terzo
comma e 117, primo comma Cost. in quanto in
forma irragionevole nell’ambito di una stessa procedura di licenziamento
collettivo, introducono, in violazione degli obblighi derivanti dall’adesione
ai Trattati dell’Unione e della normativa interposta (in particolare della
Carta Sociale Europea), per i soli lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo
2015 nell’ambito di una stessa procedura di licenziamento collettivo, attuativa
della identica direttiva 98/59/CE, un sistema
sanzionatorio peggiorativo in quanto privo dei caratteri di efficacia ed
effettività della sanzione, che le fonti internazionali impongono quale
necessaria tutela di un diritto sociale fondamentale.

37. La violazione dell’art. 24 della Carta Sociale
Europea e al contempo dell’art. 30
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione riscontrabile dal
depotenziato sistema sanzionatorio, produce un arretramento di tutela che,
unito alla derivata disparità normativa che incide sulla applicazione di atti
derivati dell’Unione, pone l’assetto normativo censurato in conflitto anche con
gli articoli 20, 21 e 47 della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione, che assumono diretta rilevanza ai fini della
validità degli atti dell’ordinamento per il tramite degli «snodi»
costituzionali rappresentati degli art. 10 e 117, primo comma Cost.

38. Da ultimo questa Corte ritiene rilevante ai fini
del giudizio di legittimità delle norme richiamate nel paragrafo 31, anche
l’ulteriore parametro rappresentato dall’art. 3,
4 e 76 Cost. in
quanto, anche alla luce dei lavori parlamentari, non appare manifestamente
infondato il contrasto con la legge delega derivante dall’estensione da parte
del legislatore delegato del nuovo sistema sanzionatorio anche ai licenziamenti
collettivi. Sulla non manifesta infondatezza della violazione dell’art. 1, settimo comma della legge n.
183/2014, dell’art. 2,
secondo comma, dell’art. 10 del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, sia unitariarnente inteso che nel
combinato disposto con l’art. 3
del medesimo decreto legislativo, con riferimento agli articoli 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 Cost. nella parte in cui,
irragionevolmente, dispongono per una stessa violazione dei criteri di scelta,
avvenuta contestualmente in una medesima procedura di licenziamento collettivo
tra omogenei rapporti di lavoro, in modo difforme a seconda della data di
assunzione applicando, solo per i lavoratori, con rapporto di lavoro a tempo
indeterminato costituito successivamente al 7 marzo 2015, diversamente da
quelli assunti precedentemente, una sanzione inefficace rispetto al danno subito
a seguito della illegittima perdita del posto di lavoro, priva di efficacia
deterrente e inidonea ad assicurare un ristoro efficace del danno anche sotto
il profilo previdenziale.

39. Va preliminarmente evidenziato, ai fini della
ragionevolezza del modello sanzionatorio, censurato nella presente ordinanza,
che nell’arco di tre anni (2015- 2018) trovano applicazione tre distinte
sanzioni che possono essere riconosciute in ipotesi di licenziamento collettivo
per una identica violazione del criterio di scelta.

40. Il rapido susseguirsi di diverse sanzioni che
trovano applicazione nei confronti della medesima contestuale violazione
costituisce – ad avviso di questo Collegio – sintomo della consapevolezza da
parte del Legislatore della inadeguatezza della disciplina sanzionatoria
applicata alla fattispecie rimessa al vaglio della Corte remittente.
L’inadeguatezza della sanzione che questa Corte sarebbe tenuta ad applicare,
ha, infatti, imposto nel breve volgere di tre anni un intervento correttivo,
disposto, peraltro, con decretazione d’urgenza (d.l.
87/18), della sanzione che, pur non emendando la differenziazione
introdotta con il decreto legislativo n. 23/15,
ne ha incrementato la misura, rendendo vieppiù inadeguata la tutela che questa
Corte può accordare nel giudizio a quo, il cui licenziamento è intervenuto
prima di tale intervento.

41. L’accavallarsi degli interventi legislativi
determina, infatti, per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti
fino al 7 marzo 2015 l’applicazione dell’art. 18 stat. lav. nella sua
valenza attenuata, che assicura ai lavoratori, in caso di violazione dei
criteri di scelta, la tutela reale rappresentata dalla reintegra nel posto di
lavoro. Tale regime, oltre a ripristinare il rapporto di lavoro all’interno di
un modello processuale caratterizzato da efficace celerità, attribuisce al
lavoratore un indennizzo Fino a 12 mensilità, coerente con la tutela accelerata
assicurata dal rito speciale, oltre la facoltà di esercitare una opzione
alternativa al posto di lavoro per ulteriori 15 mensilità ed, infine, il
diritto alla ricostituzione integrale della posizione previdenziale. In caso di
violazione delle procedure, l’art.
18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 riconosce al lavoratore una sanzione
pararnetrata sulla retribuzione globale di fatto da ultimo percepita, variabile
da un minimo irriducibile di 12 ad un massimo di 24 mensilità.

42. Per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato
costituiti a decorrere dal 7 marzo 2015, viceversa, trova applicazione l’art. 10 della legge 4 marzo 2015, n.
23 che, nel richiamare l’art.
3, primo comma, esclude l’istituto della reintegra in attuazione dei
parametri stabiliti dall’art. 1,
settimo comma della legge delega n. 183/14. Tale sistema sanzionatorio
stabilisce un’unica sanzione, sia in caso di violazione delle procedure, sia
per l’ipotesi della violazione dei criteri di scelta, costituita, fino al 13
luglio 2018, da un’indennità onnicomprensiva di importo variabile, in misura
non inferiore a 4 e non superiore a ventiquattro mensilità. La sanzione è stata
incrementata con il richiamato intervento correttivo fino a 6 mensilità nella
misura minima e fino a 36 nell’ammontare massimo, solo ove il licenziamento sia
stato intimato successivamente al 13 luglio 2018. In entrambi i casi non è
prevista la ricostruzione della posizione previdenziale.

43. E’ di tutta evidenza, quindi, che in presenza di
una medesima violazione realizzatasi in un medesimo momento, afferente ai criteri
di scelta di una stessa procedura, lavoratori di una stessa azienda potranno
concretamente rivendicare forme di tutela profondamente difformi per misura di
indennizzo, per tipologia di provvedimento e per capacità dissuasiva.

44. Non ignora questo Collegio quanto già
evidenziato dalla Corte costituzionale nella decisione
n. 194/2018, ovvero che, a proposito della delimitazione della sfera di
applicazione, ratione temporis, di normative che si succedono nel tempo, «non
contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento
differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel
tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di
diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze
n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n.
170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008)» (sentenza
n. 254 del 2014, punto 3. del Considerato in diritto). Questa Corte ha al
riguardo argomentato che «spetta difatti alla discrezionalità del legislatore,
nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di
applicazione delle norme [..] (sentenze n. 273 del 2011, punto 4.2. del
Considerato in diritto, e n. 94 del 2009, punto 7.2. del Considerato in
diritto)» (sentenza n. 104 del 2018, punto
7.1. del Considerato in diritto).

La modulazione temporale dell’applicazione del decreto legislativo n. 23 del 2015, censurata dal
rimettente, non contrasta con il «canone dì ragionevolezza» e, quindi, con il
principio di eguaglianza, se a essa si guarda alla luce della ragione
giustificatrice – del tutto trascurata dal giudice rimettente – costituita
dallo «scopo», dichiaratamente perseguito dal legislatore, «di rafforzare le
opportunità dì ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in
cerca di occupazione» (alinea dell’art.
1, comma 7, della legge n. 183 del 2014)».

45. Deve tuttavia osservarsi che, a giudizio della
Corte remittente, la questione che oggi si sottopone all’attenzione della Corte
costituzionale si pone in termini parzialmente diversi, posto che il profilo di
irragionevolezza del diverso trattamento rispetto al regime di recesso dal
rapporto di lavoro, non coinvolge, in primo luogo, la ratio del decreto legislativo 23/2015, ovvero favorire
l’ingresso nel mondo del lavoro dei nuovi assunti attraverso una
flessibilizzazione dell’uscita (la ricorrente, infatti, è stata assunta in
forza di una clausola sociale).

46. In secondo luogo, non appare ragionevole, sia
sotto il profilo del bilanciamento degli interessi, che per le disparità
generate, prevedere sanzioni totalmente discauali per violazioni identiche
riscontrate nella fase risolutiva di rapporti congiuntamente valutati su comuni
parametri oggettivi, nell’ambito di una stessa procedura collettiva. attuativa
di una medesima direttiva, nella quale il «tempo» viene sostanzialmente
“congelato» in ragione della sincronieità della comparazione, afferente a
profili professionali omogenei, esistenti in un comune complesso aziendale
oggetto di simultaneo confronto.

47. Il fluire del tempo appare a questa Corte. in
siffatte violazioni, un elemento inidoneo a giustificare l’applicazione di
sanzioni adeguate e dissuasive per alcuni e non effettive per altri. Rispetto
alla conseguenza costituita dalla perdita della fonte di reddito, derivata
dall’illegittimo esercizio del potere di recesso per errata applicazione di
criteri di scelta, la decorrenza del rapporto non costituisce – a parere della
Corte – un parametro ragionevole per giustificare una diversa protezione in una
procedura di comparazione.

48. In una procedura comparativa unitaria di
posizioni omogenee appare, infatti. irragionevole e contrario ai principi di
parità di posizioni sostanzialmente omogenee ritenere che medesimi diritti
coinvolti nello stesso e simultaneo processo selettivo, finalizzato ad
assicurare una valutazione imparziale, siano assoggettati a sistemi di tutela sostanzialmente
difformi. La concorrenza di due sistemi, di cui uno inadeguato. appare
oggettivamente idonea a influenzare l’esercizio del potere di recesso del
datore di lavoro orientandone la scelta sulle posizioni meno tutelate e,
quindi, sulla base di una valutazione di -rischio”, che introduce
indirettamente, nel procedimento selettivo, un fattore esogeno, quale la
maggior -debolezza» del rapporto contrattuale, a discapito dei parametri
selettivi generali ed astratti imposti dal Legislatore.

49. La procedura comparativa, prevista da una fonte
sovrannazionale tesa a rafforzare le tutele (cfr. 2°«Considerando» della direttiva 98/59/CE) ed eliminare le differenze
normative (cfr. «Considerando») è incentrata, infatti, su un’applicazione di
criteri solidaristici al fine di assicurare una comparazione non discrezionale,
ma vincolata, che viene concretamente vanificata ove si introducano simultanei
regimi di tutela, completamente diversi tra loro.

50. La procedimentalizzazione della scelta viene
garantita dall’art. 5 della
legge 23 luglio 1991, n. 223 – come novellato dalla legge 92/12 – attraverso una tutela
ripristinatoria del rapporto di lavoro al fine di dissuadere il datore di
lavoro in una fase critica del rapporto, dall’esercitare in forma discrezionale
(o peggio arbitraria) il potere selettivo ed impedire che fattori, estranei ai
parametri normativi, possano trovare ingresso nella procedura valutativa
comparativa. In tale prospettiva il Legislatore ha quindi consapevolmente
introdotto per particolari categorie di soggetti una tutela rafforzata del
vincolo selettivo (cfr. art. 10
della legge 12 marzo 1999, n. 68 e art. 5, secondo comma legge n.
223/1991) che viene vanificata dalla riduzione generalizzata di tutela del
posto di lavoro.

51. La tutela reintegratoria, ancorché attenuata, riconosciuta
ad alcuni e negata ai lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015 per la
stessa violazione, produce, – a giudizio Corte remittente – uno sproporzionato
effetto disparitario rispetto al diritto ad ottenere mezzi di sostentamento,
sia nel corso della “vita lavorativa” che nel suo riflesso successivo
(id est nel periodo di vecchiaia).

52. La sanzione reintegratoria, anche nella sua
attuazione attenuata prevista in caso di violazione dei criteri di scelta,
assicura, infatti, la pienezza della posizione previdenziale, a prescindere
dalla durata del processo, per i lavoratori assunti precedentemente al 7 marzo
2015. Non può invero sfuggire che nell’attuale prolungata crisi occupazionale
“il tempo del processo”, lungi dall’essere neutro, determina per il
lavoratore licenziato, oltre alla perdita del posto di lavoro e all’assenza del
reddito, un concreto pregiudizio idoneo a riflettersi nel futuro con
riferimento alla posizione previdenziale privandolo di un diritto fondamentale.
Tale diritto, avente una dignità costituzionale (art.
38 Cost) viene tutelato nella sua pienezza fino al ripristino della
fisiologia del rapporto solo per alcuni lavoratori.

53. In tale prospettiva -ad avviso del Collegio
remittente – non rileva ai fini della ragionevolezza della diversità
sanzionatoria la giurisprudenza costituzionale sulla dinamica della
legislazione previdenziale, atteso il diverso piano sanzionatorio contrattuale
oggetto della presente ordinanza.

54. Il ristoro della perdita della posizione
contributiva, assicurato ai lavoratori assunti ante marzo 2015, non può,
infine, ritenersi garantito dal ricorso agli ammortizzatori sociali, derivanti
dal sistema di ed flesecurity, ed in particolare dall’istituto della Naspi. Tale
strumento di sostegno è, infatti, comunque garantito a tutti i lavoratori, a
prescindere dalla legittimità del recesso e, assopettato a stringenti limiti
temporali, di contribuzione e di copertura, peraltro non garantisce la pienezza
della contribuzione nel periodo di illegittima ed involontaria disoccupazione.

55. Il ripristino della posizione previdenziale
effettiva, riconosciuto dalla tutela stabilita dall’art. 5, terzo comma della legge n.
223/91 viceversa, assicura, responsabilizzando soggetto che colpevolmente
ha determinato lo stato di disoccupazione, la pienezza del diritto
fondamentale, negata dalla concorrente tutela indennitaria. Tale sistema
sanzionatorio assume, quindi, anche sotto tale profilo costituzionale una
oggettiva efficacia dissuasiva del tutto assente nel licenziamento «tutelato»
dall’art. 10 del decreto
legislativo n. 23/15 che si limita a porre a carico della collettività
costo previdenziale ed assistenziale dell’atto illegittimo, disincentivando il
datore di lavoro dal rispetto dei criteri.

56. La tutela reintegratoria prevista dall’art. 5 della legge 23 luglio 1991, n.
223 per i rapporti di lavoro antecedenti il 7 marzo 2015 risponde, quindi,
pienamente – ad avviso di questo Collegio – alla finalità di dissuadere il
datore di lavoro dall’esercizio, in occasione di una crisi aziendale, del
potere di recesso in forma arbitraria, ma non necessariamente discriminatoria,
assicurando una pienezza di tutela in ragione degli interessi costituzionali
che «entrano in gioco» nella procedura di licenziamento collettivo.

57. Tale adeguata tutela che pure può essere
assicurata anche per il tramite di altre idonee misure, aventi analoghi
requisiti di efficacia, effettività e adeguata capacità deterrente (cfr. art.
24 Carta Sociale Europea), tuttavia, non pare potersi ravvisare nel sistema
sanzionatorio previsto dal combinato disposto degli artt. 10 e 3 del decreto legislativo 23/15,
che introduce un meccanismo del tutto svincolato dal danno effettivo subito a
seguito della medesima violazione.

58. Anche sotto tale profilo si osserva che il
parametro di riferimento nel primo modello ripristinatorio del rapporto è
rappresentato dalla retribuzione globale di fatto, mentre, nel coesistente
modello indennitario, è costituito dalla retribuzione utile ai fini del TFR
che, ai sensi dell’art. 2120 del codice civile,
può essere paradossalmente azzerata, in quanto l’individuazione delle voci
computabili ai fini di tale istituto è rimessa alla contrattazione collettiva.
La tutela meramente indennitaria inoltre è ancorata alla retribuzione da ultimo
percepita dal lavoratore, assicurando in tal modo una tutela statica che non
considera “il fluire del tempo” nel processo, privo della tutela
accelerata, che può concretamente determinare – per la nota crisi della
giustizia del sistema italiano – lunghi tempi di definizione, posti totalmente
a carico del lavoratore.

59. Va evidenziato infine che la rado indicata nei
lavori preparatori del decreto legislativo n.
23/2015, ovvero implementare la dinamica occupazionale, (peraltro assente
nel caso in esame atteso che la lavoratrice risulta essere stata assunta in
forza di una clausola sociale prevista nel CCNL), attraverso una sostanziale
riduzione del livello di tutela di un contratto che riveste dignità
costituzionale, e sulla base di una delimitazione del cd «firing cost», frutto
di un esercizio illegittimo del potere di recesso del datore di lavoro,
rispetto al danno effettivo cagionato, sbilancia oltremodo, rendendo «tiranno»,
l’interesse del datore di lavoro ad una flessibilità in uscita rispetto al
diritto del prestatore alla conservazione dei posto di lavoro, che costituisce
la fonte del proprio sostentamento.

60. Questa Corte ritiene, infine, di richiamare, in
tenia di mantenimento dei «livelli» di tutela dei diritti sociali fondamentali,
l’esigenza – condivisa anche dalla Carta Sociale Europea – di valutare
attentamente in situazioni di crisi (quale quella attuale) l’introduzione di
deroghe ai vigenti modelli (cfr. in particolare la decisione del CEDS del 23
maggio 2012 sul merito del reclamo n. 66/2011, Federation generale des employes
des compagnies publiques d’electricitè et Confederation des syndicats des
fonctionnaires publics c. Grece).

61. La deroga dei parametri che operano sul piano
della tutela dei diritti, introdotta dall’art. 10 del decreto legislativo
23/15 con il richiamo all’art.
3 del decreto, incide inevitabilmente anche sui piano sostanziale della
selezione dei rapporti, resi non più omogenei rispetto al potere di recesso,
operando una significativa perdita di efficacia del modello di tutela.

 62.
L’irragionevole contrasto che scaturisce dalla coesistenza in una medesima
procedura selettiva di differenti modelli sanzionatori, profondamente diversi
per adeguatezza e capacità dissuasiva, stride, quindi – ad avviso di questa
Corte – con la finalità di rispetto dei valori della dignità umana e
dell’utilità sociale, che deve caratterizzare l’ iniziativa economica privata,
anche nella particolare espressione che connota il riconosciuto potere del
datare di lavoro di recedere (legittimamente) dal contratto di lavoro.

63. Sotto il profilo della efficacia e effettività
della tutela giurisdizionale per i rapporti assoggettati al regime del
contratto a tutele crescenti, come quello della Sig.ra R…., va da ultimo
evidenziata l’eliminazione dal punto di vista processuale del cd rito Fornero (art. 1, comma 47 e segg della legge
n. 92/2012) attuata dall’art. 11 del decreto legislativo n. 23/15 che ha
riportato le relative controversie nell’alveo del rito cd. ordinario lavoro.

64. Ai fini della complessiva valutazione
dell’idoneità del bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti, vi è
da premettere che, già a giudizio della Corte costituzionale (sentenza n. 78/2015) la strutturazione del rito
Fornero costituisce «un vantaggio del lavoratore, il quale, in virtù
dell’effetto anticipatorio (potenzialmente idoneo anche ad acquisire carattere
definitivo) dell’ordinanza che chiude la fase sommaria, può conseguire una
immediata, o comunque più celere, tutela dei propri diritti, mentre la
successiva, ed eventuale, fase a cognizione piena è volta a garantire alle
parli, che non restino soddisfatte dal contenuto dell’ordinanza opposta, una
pronuncia più pregnante e completa».

65. L’inapplicabilità delle disposizioni di cui all’art. 1, commi da 48 a 68 della legge
n. 92/12, ai licenziamenti intimati all’esito del contratto di lavoro a
tutele crescenti incide anche sotto il profilo dell’efficacia sul piano
attuativo della sanzione sulla ragionevolezza (del sistema, e, quindi, sulla
effettività della tutela limitata ad un indennizzo, neppure assistito da una
garanzia di celerità di tutela che “allontana” nel tempo il ristoro,
peraltro limitato, e non assistito dalla ricostruzione del presupposto
pensionistico.

66. Il tempo del processo viene, quindi, posto
sostanzialmente a carico del soggetto danneggiato, generando, in relazione alla
tutela non prettamente risarcitoria/ripristinatoria, un sistema ancor più
inefficace di protezione, senza che l’eventuale previsione di accessori sul
credito riconosciuto possa ritenersi in concreto compensativo in un contratto
che deve assicurare al lavoratore una quotidiana esistenza libera e dignitosa.

67. Deve, quindi, ritenersi rilevante e non
manifestamente infondata la violazione degli articoli 1, settimo comma della legge
n. 183/14 e dell’art. 10 del
decreto legislativo n. 23/15 in sé e nel combinato disposto con l’art. 3 del medesimo decreto, con
riferimento agli articoli 2, 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 111 Cost.
laddove in forma irragionevole ha dato luogo esclusivamente ad una riduzione
del livello di tutela di un diritto fondamentale costituzionalmente protetto
relativamente a procedure di licenziamento basata esclusivamente sulla data di
assunzione in assenza di adeguata proporzionalità rispetto alla minore tutela
accordata;

Sulla non manifesta infondatezza delta violazione
dell’art. 10 del decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23, sia unitariamente inteso che nel combinato
disposto con l’art. 3 del decreto
legislativo n. 23/15, con riferimento agli articoli
3, 10, 35,
secondo comma e 117, primo comma Cost., nella
parte in cui, irragionevolmente, introducono in violazione dei vincoli
derivanti dall’adesione all’Unione europea e ai trattati internazionali, un
concorrente regime sanzionatoria inefficace rispetto al danno subito con la
illegittima perdita del posto di lavoro e con attenuata efficacia deterrente
del licenziamento illegittimo, intimato per violazione dei criteri di scelta in
una stessa procedura attuativa della direttiva
98/59/CE – in contrasto con l’art. 24 della Carta Sociale Europea, con l’art. 30 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea con riferimento anche agii articoli 20 e 21 e 47 del medesimo trattato.

68. La riconducibilità della disciplina dei
licenziamenti collettivi nell’ambito dell’acquis communautaire rende – ad
avviso di questa Corte – l’esistenza del doppio regime sanzionatorio descritto
in precedenza, in contrasto con le norme fondamentali di tale ordinamento. Tali
norme assumono, a loro volta, diretta incidenza costituzionale per il tramite
del contenuto normativo degli articoli 10 e 117, primo comma, Cost.

69. La indubbia rilevanza dei diritti fondamentali
dell’Unione e del diritto derivato con riferimento alla fattispecie rimessa al
vaglio di costituzionalità ha determinato questa Corte a ritenere necessaria la
prospettazione di una doppia pregiudizialità come in precedenza dato conto.

70. Come rilevato nella ordinanza di remissione ex art. 267 Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea la materia la disciplina dei licenziamenti collettivi
deve ritenersi ormai «attratta» nelle competenze concretamente attuate
dall’Unione europea per effetto del concreto esercizio di atti di normazione
derivata ed in particolare della direttiva 98/59/CE.

71. La direttiva
98/59/CE stabilisce, specificamente «che occorre rafforzare la tutela dei
lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, tenendo conto della necessità
di uno sviluppo economico-sociale equilibrato nella Comunità».

72. La tutela avverso il licenziamento collettivo
illegittimo, nel suo profilo individuale di un fenomeno collettivo, rientra
pertanto, sensi dell’art. 51, par.
1, nella sfera della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione in quanto
tale licenziamento, per effetto della disciplina attuata per il tramite della
fonte derivata, deve, ormai, ritenersi ricompreso nell’ambito dell’acquis
communautaire con conseguente estensione delle disposizioni della Carta su tale
tipo di licenziamento, avente una specifica rilevanza sociale.

73. Ne consegue che il combinato disposto dell’art. 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo
2015, n. 23, introducendo una nuova e concorrente disciplina di tutela
avverso i licenziamenti collettivi ed intervenendo su una materia attratta
nelle competenze dell’Unione, deve risultare compatibile con i diritti
assicurati ai singoli dal Trattato e rispondere al contempo ai parametri di
legittimità e compatibilità dei principi fondamentali dell’Unione (cfr. art. 52, 5° par. della CDFUE).

74. La tutela avverso il licenziamento riconducibile
a tale tipologia di recesso, avente una particolare rilevanza sociale, e gli
altri diritti e principi della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione
europea nel significato e nella portata che questo Collegio ha ritenuto di
richiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione, debbono essere necessariamente
considerati ai fini del vaglio di costituzionalità delle norme oggetto della
presente ordinanza di remissione.

75. Appare quindi in primo luogo invocabile l’art. 30 della CDFUE che, nel
recitare «Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento
ingiustificato. conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e
prassi nazionali», impone una tutela, assunta a valore di diritto fondamentale,
il cui contenuto sanzionatorio rimesso, nel rispetto della comune cornice
normativa, alla legislazione e alla prassi dei singoli paesi membri.

76. L’art.
30 CDFUE, che costituisce fonte di diritto dell’Unione in conformità al
richiamo contenuto nell’art. 6, 1°
par. del Trattato dell’Unione (TUE), afferma, quindi, in termini assoluti,
che il lavoratore è titolare di un diritto alla tutela avverso il licenziamento
il cui contenuto effettivo è rirnesso alle norrnative e alle prassi applicative
dei singoli Stati «conformemente al diritto dell’Unione».

77. Il combinato disposto degli art. 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo
2015 n. 23 e degli articoli
5 Iegge 23 luglio 1991 n. 223 e art. 18 stat. lav.
costituiscono -come descritto – le due specifiche discipline concorrenti che,
integrando la disposizione dell’art.
30 CDFUE, sanciscono il contenuto effettivo della tutela assicurata ai
lavoratori dalla normativa nazionale attuativa del diritto dell’Unione.

78. Questa Corte è consapevole che il
“diritto”, nei termini sanciti dalla Carta, non consenta una diretta
rivendicazione nei singoli giudizi per la mancanza di un contenuto precettivo
sanzionatorio sufficientemente dettagliato. Ciò non di meno, tale “diritto
incompleto” non può ritenersi privo di una concreta valenza o incidenza
nella controversia rimessa al vaglio di questa Corte remittente.

79. Ritiene questa Corte che la previsione dell’art. 30 CDFUE non costituisca,
invero, una norma di indirizzo politico ovvero una disposizione meramente
programmatica priva di un proprio nucleo precettivo specifico attuabile nel
giudizio. La previsione impone, comunque, un obbligo di concretizzazione
rivolto ai singoli Stati che, ai sensi dell’art. 51, par. l della Carta deve
realizzarsi nel rispetto dei parametri dell’Unione che discendono dal carattere
fondamentale del diritto. Al contempo, la previsione consente ai Giudici
nazionali di utilizzare i principi che discendono dalla natura fondamentale del
diritto quali parametri di legittimità e leve interpretative, conformemente
all’art. 52, par. 5 della Carta
nella funzione, icasticamente definita «depuratrice di norme»;

80. Ritiene la Corte che, conseguentemente, l’art. 30 della CDFUE nell’affermare
la riconducibilità del diritto alla tutela avverso i licenziamenti nell’alveo
dei diritti fondamentali, imponendo una tutela «conformemente al diritto
dell’Unione», esprima un proprio contenuto precettivo, rilevante nel giudizio a
quo anche ai fini della validità costituzionale delle nonne attuative
nazionali. Sussiste, infatti, un substrato del diritto sancito dall’Unione che
prescinde dalla integrazione eteronoma degli interventi rimessi ai singoli
Stati. in quanto idoneo di per sé, quale limite esterno che condiziona la
potestà normativa, a ricondurre la stessa nell’ambito dì specifici parametri di
coerenza propri dell’ordinamento eurounitario che ne determinano il perimetro
di attuazione.

81. Tale «nucleo» precettivo costituisce il vincolo
di razionalità e compatibilità della norma nazionale che consente di valutare
la legittimità dell’intervento normativo rispetto ai parametri costituzionali
degli articoli 10 e 117,
comma 1 Cost. in una prospettiva di espunzione della norma dal sistema con
validità erga omnes in caso di contrasto non superabile con una interpretazione
conforme.

82. Militano in favore di tale interpretazione, –
come rilevato nella contestuale ordinanza di remissione ex art. 267 Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea – oltre all’art.
52, paragrafo 5, della Carta, sia la qualifica «diritto», contenuta nell’art. 30 della CDFUE, sia il suo
dichiarato carattere fondamentale, sia il richiamo al «diritto dell’Unione» che
infine e soprattutto le «Spiegazioni» allegate alla Carta che il Giudice è
tenuto a tenere «in debito conto» in sede di interpretazione (art. 6 TUE). Il richiamo all’art.
24 della Carta Sociale Europea, nell’ambito del quale la tutela prevista per i
licenziamenti trova una concreta declinazione, consente di enucleare gli
elementi qualificanti la tutela nella dimensione della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione.

83. Il diritto alla tutela avverso il licenziamento
nella dimensione eurounitaria, a prescindere alla sua riconducibilità nella
controversa categoria dei “diritti incompleti- ovvero dei -principi
generali-. indubbiamente assume, quindi, una portata precettiva in quanto pone
– ad avviso di questo Collegio – un vincolo nei confronti del Legislatore
nazionale. Tale facoltà di integrazione impone il rispetto – rectius la
trasposizione – dei parametri di effettività, efficacia, adeguatezza e
deterrenza che discendono dalla natura fondamentale del diritto nella sua
dimensione sovranazionale che questa Corte, con la separata ordinanza ha
richiesto di confermare.

84. Il vincolo esterno e i parametri di valutazione
di legittimità dell’intervento integrativo non sono, pertanto, privi di un
adeguato supporto normativo di riferimento atteso che la qualificazione del
«diritto» come fondamentale impone quel rispetto di specifiche caratteristiche
che connotano la tutela di tali diritti nell’ordinamento di cui sono
espressione, la cui assenza pone in insanabile contrasto le norme oggetto della
presente ordinanza con i parametri costituzionali richiamati.

85. I parametri ai quali deve attenersi la tutela
che il diritto fondamentale deve assicurare – che costituisce per l’appunto il
contenuto preceuivo dell’art. 30
CDFUE – discendono dai caratteri tipici delle sanzioni apprestate
dall’ordinamento eurounitario ampiamente riportate e sviluppate nell’ordinanza
di remissione ex art. 267 TFUE.
L’adeguatezza della tutela deve, in particolare, considerare, a valle, la
pienezza della tutela rispetto al danno subito e, a monte, la presenza per il
datore di lavoro «mezzi coercitivi di cui tenere seriamente conto» onde
«spinger(lo) ad osservare il principio» (CGUE, Von Colson 10 aprile 1984 C
14/83).

86. Tali parametri, costituiscono, pertanto – a
parere di questa Corte – il valore precettivo specifico a tutela dei diritti
fondamentali affermati dalla -Carta Costituzionale Europea” che trovano un
puntuale pendant nei criteri a loro volta ricavabili dalla ”fonte”
ispiratrice dell’art. 30,
rappresentata – come detto – dall’art. 24 della Carta Sociale rcv. la cui
portata precettiva, nel significato materiale ricavabile dalle decisioni del
Comitato Europeo dei Diritti Sociali, è oggetto della separata ordinanza di
remissione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La espressa
“costituzionalizzazione” della Carta Sociale per effetto del richiamo
nelle Spiegazioni della Carta, assume un indubbio specifico valore amplificato
nella dimensione eurounitaria tale da aver determinato questa Corte, nella
consapevolezza della valutazione e la effettuata dalla Corte costituzionale
nella sentenza 194/2018, a sottoporre uno
specifico chiarimento interpretativo alla Corte di Giustizia dell’Unione
europea in ordine alla valenza di tali decisioni nella dimensione propria della
Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea.

87. Ai sensi dell’art. 52, 5 par. della CDFUE i
principi costituiscono a loro volta una leva utilizzabile al fine di valutare
la legittimità degli atti normativi. Ai fini della individuazione del
significato normativo – rectius del significato – del «diritto alla tutela»
nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione assumono, a giudizio della Corte
remittente, una valenza essenziale anche le dichiarazioni condivise dai paesi
membri – le cd. «Spiegazioni» (2007/C 303/02) – allegate alla Carta dei diritti
Fondamentali dell’Unione in occasione della stipula, la cui finalità espressa è
quella di guidare l’interprete. Le Spiegazioni rappresentano, pertanto, una
chiave di lettura essenziale nella cornice costituzionale europea, che a loro
volta condizionano la validità e la compatibilità degli atti dell’Unione e
dell’attività normativa dei paesi aderenti nei settori rientranti nell’acquis
communautaire.

88. L’art.
52, settimo comma della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione impone,
infatti, ai giudici dell’Unione e degli Stati di tenere «nel debito conto» le
Spiegazioni elaborate, al fine di fornire orientamenti per l’interpretazione
della Carta stessa. Le Spiegazioni costituiscono, conseguentemente il parametro
di riferimento basilare per interpretare le norme di stampo eurounitario e per
applicarle al livello nazionale, nello sforzo esegetico di individuare il
contenuto effettivo del diritto riconosciuto dalla Carta fondamentale dei
Diritti dell’Unione.

89. «La Spiegazione» allegata all’art. 30 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione chiarisce che «Questo articolo sì ispira all’art.
24 della Carta Sociale riveduta».

90. Ne consegue che, a giudizio della Corte, il
contenuto della tutela del diritto fondamentale del lavoratore, nel caso dì
licenziamento illegittimo, come sancito dall’Unione, deve quindi ispirarsi – e,
quindi, non contraddire – al parametro del «congruo indennizzo», o di «altra misura
adeguata», sancito dall’art. 24 della Carta Sociale Europea e tali parametri
eteronomi costituiscono, quindi, elemento di riferimento in sede di
interpretazione del livello di tutela avverso i licenziamenti ingiustificati
intervenuti a conclusione della procedura di licenziamento collettivo.

91. E’ evidente, ad avviso di questo Collegio, la
stretta correlazione tra l’art. 30
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e l’art. 23 della Carta
Sociale Europea che arricchisce, nell’ambito del diritto eurounitario, la
tutela approntata avverso il licenziamento dei principi di effettività,
adeguatezza e dissuasività, peraltro insiti nella tutela assicurata a tutti i
diritti fondamentali che non sembrano potersi riscontrare nella tutela
meramente indennitaria concorrente.

92. L’art.
30 CDFUE produce, pertanto, un effetto normativo, ancorché riflesso, nel
giudizio rimesso al vaglio di questa Corte.

93. Questa Corte è anche consapevole che ai sensi
dell’art. 52, 5° par. CDFUE i
caratteri che si ritiene connotino la tutela dell’art. 30 CDFUE non consentono di
invocare direttamente nel giudizio l’applicazione di una predefinita sanzione,
ripristinatoria o risarcitoria, di matrice eurounitaria in una funzione
«costruttiva». I parametri della tutela propri dei diritti fondamentali
eurounitari, tuttavia, – non sono – come osservato -privi di rilevanza nel
giudizio a quo, anche ai fini di una funzione espulsiva della norma. in quanto
costituiscono il limite esterno di coerenza, rilevante ex artt. 10 e 117 Cost.,
degli atti espressi dalla potestà normativa integrativa della legislazione
nazionale che il Collegio deve «tenere in considerazione» in sede di
valutazione della loro conformità ai valori fondamentali dell’Unione,
nell’ambito della collaborazione demandata al Giudice nazionale alla concreta
creazione di una comune Costituzione europea.

94. La necessità di comprendere il significato del
contenuto della Carta dei Diritti Fondamentali ha, quindi, determinato il
rinvio pregiudiziale ex art. 267
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea il cui esito indubbiamente
assume una diretta rilevanza nel giudizio di costituzionalità.

95. La ricondubilità del licenziamento collettivo
nell’ambito delle competenze dell’Unione impone di ritenere rilevanti, anche ai
fini del parametro di validità della norma attuativa con il principio di parità
di trattamento, un sistema sanzionatorio che genera per violazioni del tutto
equiparabili una sostanziale difformità di disciplina rispetto alla misura
applicabile in capo al soggetto responsabile dell’illecito.

96. Il principio di uguaglianza sancito per gli atti
normativi di fonte eurounitaria costituisce, infatti, un parametro
interpretativo primario per tutti gli atti legislativi dell’ordinamento, ivi
comprese le direttive che costituiscono una species dell’articolato complesso
di norme che concorrono a determinare l’ordinamento dell’Unione.

97. La difforme sanzione applicata in presenza di
una identica violazione si pone in contrasto – ad avviso di questo Collegio –
con il principio di non discriminazione stabilito dall’art. 21 CDFUE, in quanto finisce
per imporre discipline difformi a fattispecie omogenee concentrate nel tempo,
penalizzando con il permanere del doppio regime i lavoratori più giovani.

98. L’esigenza di assicurare un rimedio efficace,
effettivo e con capacità di inibire la violazione di un diritto fondamentale
rende il descritto modello sanzionatorio non compatibile anche sotto il profilo
del diritto a rimedi adeguati sancito dall’art. 47 CDFUE.

99. La normativa sottoposta al vaglio si pone
quindi, a giudizio, della Corte in contrasto con i principi e i diritti
fondamentali dell’Unione, laddove in violazione al diritto di uguaglianza (art. 20 CDFUE) e non
discriminazione (art. 21 CDFUE)
e al diritto ad una effettiva tutela avverso i licenziamenti ingiustificati (art. 30 in uno con l’art. 47 CDFUE), e introduce
nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo regolato dalla direttiva 98/59/CE un doppio sistema di tutela.

 Sulla non
manifesta infondatezza della violazione dell’art. 10 del decreto legislativo 4
marzo 2015, n. 23, sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con
l’art. 3 del decreto legislativo
23/15, con riferimento agli articoli 3, 4, 35, 76, 117, primo comma
Cost., nella parte in cui ha introdotto in assenza di una specifica
attribuzione normativa e comunque in violazione dei principi e dei criteri
direttivi della legge delega, una disciplina sanzionatoria per i licenziamenti
collettivi, statuendo un modello sanzionatorio in contrasto con i principi e i
diritti fondamentali dell’Unione e con le Convenzioni internazionali.

100. Questa Corte ritiene, anche alla luce del
particolare procedimento previsto per la modifica delle disposizioni attuative
di atti normativi dell’Unione Europea e dei lavori parlamentari che hanno
caratterizzato l’iter del decreto legislativo 4
marzo 2015 n. 23, attuativo della legge delega
183/14, che l’estensione effettuata dal Legislatore delegato anche ai
licenziamenti collettivi del nuovo sistema sanzionatorio, previsto per i
“licenziamenti economici”, confligga con l’oggetto, i principi e i
criteri direttivi della legge che ha conferito al Governo il temporaneo potere
di legiferare.

101. L’art.
1, settimo comma della legge n. 183/2014 ha, infatti, demandato al Governo
di adottare una disciplina che preveda tutele crescenti con l’anzianità che
escluda «per i licenziamenti economici la possibilità della reinterazione del
lavoratore».

102. Orbene ritiene questo Collegio che il
licenziamento collettivo sia escluso dalla delega legislativa, dovendosi a tal
fine richiamare i lavori parlamentari, che concorrono come fonte «autentica» di
interpretazione dell’oggetto della delega legislativa, a determinare
l’effettiva portata del temporaneo conferimento della potestà normativa
esercitala.

103. La Commissione Lavoro della Camera dei
deputati, in occasione della trasmissione della bozza del decreto legislativo
ad opera del Governo, ha in effetti rilevato che la “esclusione” per
i lavoratori assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti,
dall’applicazione dell’istituto della reintegra doveva intendersi riferita alle
sole fattispecie relative a licenziamenti individuali, non essendo in
discussione la disciplina dei licenziamenti collettivi di cui alla legge 23 luglio 1991 n. 223″ (cfr sessione
della Commissione Lavoro della Camera dei deputati del 17 febbraio 2015).

104. Analoghe osservazioni sono state formulate
dalla Commissione Lavoro del Senato della Repubblica, in occasione della
disamina della bozza del decreto legislativo sottoposta dal Governo (cfr
sessione dell’ 11 febbraio 2015 della Commissione Lavoro Previdenza Sociale
Senato della Repubblica). L’esclusione della materia dei licenziamenti
collettivi dalla delega e comunque l’inapplicabilità della sanzione
indennitaria a tali licenziamenti viene, quindi, più volte affermata
dall’organo titolare del potere delegante, che ha formulato sul punto nei
diversi passaggi del decreto legislativo puntuali rilievi(rimasti inattuati) in
sede di disamina dello schema legislativo.

105. A conferma della limitata portata della delega
concorrono anche ulteriori rilievi di ordine sistematico ed ermeneutico.

106. Ritiene questa Corte rilevante ai fini del
giudizio di non manifesta infondatezza la circostanza che la giurisprudenza di
legittimità abbia riservato il termine «licenziamento economico» al fine di
qualificare le ipotesi di recesso individuale per motivo oggettivo (Cassazione,
19 dicembre 2013, n. 28245), non utilizzando tale qualificazione con
riferimento al licenziamento collettivo; sotto altro profilo appare non
irragionevole ritenere che, in conformità ad una corretta ermeneutica, una
delega che incida profondamente su materie di rilevanza dell’Unione, imponga
una chiara ed esplicita enunciazione.

107. Su tale ultimo aspetto si rileva che il
raccordo tra l’ordinamento italiano e i processi normativi dell’UE si
struttura, infatti, su una specifica normativa, la legge
n. 234 del 2012, che prevede all’art. 30 l’approvazione della
legge di delegazione europea, preceduta da una articolata procedura di
elaborazione. Sebbene tale normativa ovviamente non possa costituzionalizzare
una procedura esclusiva per la modifica/attuazione di normative dell’Unione,
ciò non di meno appare – ad avviso di questa Corte – che la sostanziale
modifica apportata ad una normativa centrale sui licenziamenti collettivi
debba, anche ai sensi dell’art.
34 della legge n. 234/12, richiedere proprio in presenza di uno specifico
strumento correttivo/applicativo di direttive dell’Unione una chiara ed univoca
delega, non potendosi ritenere attribuita implicitamente una siffatta potestà
normativa.

108. Da ultimo il richiamo nell’art. 1, settimo comma della legge n.
183/14 al diritto dell’Unione e alle Convenzioni internazionali impone il
puntuale rispetto dei principi e dei diritti sanciti da tali Carte
sovraordinate o interposte, che l’adozione del descritto modello inadeguato di
tutela pare – ad avviso di questo Collegio – del tutto disatteso.

109. Deve quindi da ultimo ritenersi la rilevanza e
la non manifesta infondatezza della violazione dell’art. 1, settimo comma della legge
183/14 e dell’art. 1,
secondo comma 3 e 10 decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 per contrasto con gli articoli 3, 4, 35, 76 e 117, 1 e 2 Cost.

 

P.Q.M.

 

Così provvede;

Dispone la sospensione del giudizio;

Dispone ai sensi dell’art.
23, comma 2 della legge 11 marzo 1953, n. 87 la trasmissione degli atti di
causa alla cancelleria della Corte costituzionale.

Dispone con separata ordinanza, per i motivi ivi
indicati, la trasmissione degli atti alla cancelleria della Corte di Giustizia
dell’Unione europea ai sensi dell’art.
267 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale
del 13 maggio 2020, n. 20

Giurisprudenza – CORTE DI APPELLO DI NAPOLI – Ordinanza 18 settembre 2019
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