Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 maggio 2020, n. 8956

Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito del personale
dipendente delle aziende di credito, Contribuzione correlata alla retribuzione
mensile utile per la determinazione dell’assegno ordinario di accompagnamento,
Retribuzione omnicomprensiva, Litisconsorzio con l’ente previdenziale

 

Fatti di causa

 

Con sentenza depositata il 25.3.2014, la Corte
d’appello di Potenza, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accolto la
domanda di L.N. volta a condannare U. s.p.a. a versare all’INPS, quale gestore
del Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito del personale dipendente
delle aziende di credito, di cui al d.m. n.
158/2000, la somma di € 42.952,65 a titolo di contribuzione correlata alla
retribuzione mensile utile per la determinazione dell’assegno ordinario di
accompagnamento. La Corte, in particolare, ha ritenuto che erroneamente
l’istituto di credito avesse circoscritto la base di calcolo del contributo
alle sole voci fisse, dovendo invece la contribuzione correlata essere
calcolata su tutto quanto percepito quale controprestazione mensile lavorativa
dell’ultimo anno, giusta la previsione dei contratti collettivi. Avverso tali
statuizioni ha proposto ricorso per cassazione U. s.p.a., deducendo quattro
motivi di censura.

L.N. ha resistito con controricorso, contenente
ricorso incidentale fondato su un motivo. Entrambe le parti hanno depositato
memoria.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo del ricorso principale, la
ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 132, 156 e 161 c.p.c. e
nullità della sentenza per contrasto tra dispositivo e motivazione, per avere
la Corte di merito pronunciato nel dispositivo condanna al pagamento della
somma di € 42.952,65 a titolo di contribuzione correlata, laddove nella parte
motiva della sentenza la stessa somma è indicata come base retributiva per il
calcolo della contribuzione correlata.

Con il secondo motivo del ricorso principale, si
lamenta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, per avere la
Corte territoriale ritenuto che il rapporto di lavoro dell’odierna parte
controricorrente fosse rimasto sospeso, laddove invece si era interrotto per
dimissioni volontarie il giorno precedente all’ammissione al trattamento del
Fondo.

Con il terzo motivo del ricorso principale, ci si
duole di violazione degli artt.
10, comma 7, e 12, d.m. n.
158/2000, e dell’art. 68 CCNL di
settore dell’11.7.1999, per avere la Corte territoriale, sulla scorta dell’erronea
affermazione censurata al secondo motivo, individuato nell’art. 12, I. n. 153/1969, la
fonte normativa utile a disciplinare la nozione di retribuzione imponibile
utile ai fini del calcolo della contribuzione correlata.

Con il quarto motivo del ricorso principale, si
deduce nullità della sentenza ex artt. 112 e 132 n. 4 c.p.c. e violazione e falsa applicazione
degli artt. 10, comma 13, d.m.
n. 158/2000, e 2964 c.c., per avere la
Corte territoriale pronunciato condanna al pagamento della contribuzione
correlata senza tener conto dell’intervenuta decadenza dal versamento dei
contributi medesimi.

Con l’unico motivo del ricorso incidentale
condizionato, infine, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 28, I. n. 662/1996,
degli artt. 1 ss., d.m n.
158/2000, e del d.lgs. n. 184/1997, per non
avere la Corte di merito statuito sulla necessità di procedere alla
rivalutazione periodica della contribuzione correlata, data la sua natura di
contribuzione volontaria.

Preliminarmente all’esame dei motivi, va rilevata la
nullità del giudizio per difetto di integrità del contraddittorio.

Come s’è detto supra, in narrativa, la sentenza
impugnata, accogliendo la domanda introduttiva del giudizio proposta
dall’odierno controricorrente, ha condannato U. s.p.a. a versare all’INPS somme
dovute a titolo di contribuzione correlata.

Non risulta, però, che l’INPS sia mai stato chiamato
in giudizio. E sebbene in vicenda affatto analoga alla presente questa Corte
abbia avuto modo di affermare che, essendo la posizione dell’INPS «solo quella
di soggetto destinatario del predetto versamento», non sarebbe nei suoi
confronti «configurabile un’ipotesi di litisconsorzio necessario» (così Cass. n. 17162 del 2016, in motivazione), reputa
il Collegio che a tale affermazione non possa essere data continuità, ostandovi
argomenti logici e sistematici desumibili sia dalla natura della c.d.
contribuzione correlata di cui al d.m. n. 158/2000
che, più in generale, dalle ricadute di ordine processuale della struttura del
rapporto dedotto in giudizio. Circa la natura della contribuzione correlata per
i periodi di erogazione dell’assegno straordinario per il sostegno al reddito,
da calcolarsi com’è noto sulla base della retribuzione di cui all’art. 10, comma 7, d.m. n. 158/2000,
questa Corte ha chiarito che si tratta di contribuzione di carattere
obbligatorio: l’obbligo del Fondo di provvedere ad accreditare la contribuzione
presso la gestione previdenziale di iscrizione del lavoratore costituisce
infatti oggetto di una autonoma obbligazione di diritto pubblico, che deriva
dalle espresse disposizioni del d.m. n. 158/2000
che regolano compiutamente tanto il meccanismo di accreditamento quanto la
finalità della contribuzione stessa, significativamente definita
“correlata” siccome obbligatoriamente rapportata alla prestazione
erogata e, dunque, non subordinata, quanto al suo verificarsi, né ad alcuna
preventiva autorizzazione dell’ente previdenziale né tampoco ad alcuna
valutazione del singolo assicurato circa l’utilità che gliene possa derivare ai
fini pensionistici, come invece tipicamente accade nelle ipotesi di c.d.
contribuzione volontaria (Cass. n. 4433 del 2019).

Ciò chiarito, è evidente che la soluzione della
questione relativa alla necessità o meno di un litisconsorzio con l’ente
previdenziale nella controversia con cui si lamenti, da parte del lavoratore,
il mancato versamento della contribuzione correlata da parte del datore di
lavoro, deve risultare coerente con gli approdi ermeneutici cui questa Corte è
progressivamente pervenuta per ciò che concerne la più generale questione delle
parti necessarie del giudizio in cui un lavoratore chieda la condanna del
proprio datore di lavoro al pagamento all’ente previdenziale dei contributi
dovuti sulla propria prestazione lavorativa: e ciò indipendentemente dal fatto
che, nella specie, la normativa di settore ponga formalmente a carico del Fondo
il versamento all’INPS della contribuzione correlata, trattandosi di onere che
grava in ultima analisi sull’istituto di credito alle cui dipendenze ha
prestato servizio il lavoratore prima dell’accesso al Fondo medesimo.

Al riguardo, è dato rilevare che, nella
giurisprudenza di questa Corte di legittimità, sono coesistiti per lungo tempo
due distinti orientamenti.

Secondo il primo di essi, la domanda con la quale il
lavoratore subordinato chieda la condanna del datore di lavoro al versamento
all’INPS di contributi evasi, al fine della tutela della sua posizione
assicurativa, richiede la presenza in causa dell’ente previdenziale, quale
diretto interessato all’accertamento giudiziale sull’esistenza e durata del
rapporto di lavoro e sulla misura della retribuzione, nonché quale destinatario
del pagamento (così, tra le numerose, Cass. nn. 2452 del 1975, 2638 del 1976,
379 del 1989, 12946 del 1999).

Tale orientamento ha ricevuto sistemazione
definitiva ad opera di Cass. S.U. n. 3678 del 2009,
la quale, pronunciandosi in materia di azione promossa dal lavoratore per
ottenere la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13, comma 5°, I. n.
1338/1962, per essersi il datore di lavoro sottratto al versamento all’INPS
della relativa riserva matematica e per il cui versamento lo stesso datore
resta obbligato, ha affermato la sussistenza di un litisconsorzio necessario
nei confronti dell’anzidetto datore di lavoro e dell’INPS, ravvisandone la
giustificazione in considerazione del riflesso, sotto il profilo processuale,
che assumono gli aspetti sostanziali rappresentati, rispettivamente,
dall’interesse del lavoratore alla realizzazione dei presupposti della tutela
assicurativa (con la condanna dell’INPS alla costituzione della rendita
vitalizia e del datore di lavoro inadempiente al versamento della riserva matematica),
dall’interesse dell’INPS a limitare il riconoscimento della rendita vitalizia
ai casi di esistenza certa e non fittizia di rapporti di lavoro e
dall’interesse del datore di lavoro a non trovarsi esposto, ove il giudizio si
svolga in sua assenza, agli effetti pregiudizievoli di un giudicato ai suoi
danni a causa del riconoscimento di un inesistente rapporto lavorativo, lontano
nel tempo. E, seppure senza alcun esplicito riferimento a Cass. S.U. n. 3678 del 2009, cit., analogo
principio di diritto è stato affermato da Cass. n. 19398 del 2014, che, nel
riconoscere la sussistenza di un interesse del lavoratore al versamento dei
contributi previdenziali di cui sia stato omesso il versamento, ha bensì
ammesso la possibilità che egli chieda in giudizio l’accertamento dell’obbligo
contributivo del datore di lavoro, al fine di sentirlo condannare al versamento
dei contributi che sia ancora possibile giuridicamente versare nei confronti
dell’ente previdenziale, a condizione però che entrambi siano stati convenuti
in giudizio, a pena d’inammissibilità della domanda (nello stesso senso, da
ult., Cass. n. 14853 del 2019).

Parallelamente a tale indirizzo, tuttavia, ne è
coesistito per lungo tempo un altro (la cui ultima eco si può scorgere proprio
in Cass. n. 17162 del 2016, dianzi cit.), che, argomentando dal rilievo secondo
cui l’esigenza dell’estensione del contraddittorio a tutti i soggetti del
rapporto previdenziale non sussisterebbe qualora venga in contestazione
soltanto il rapporto di lavoro o qualche elemento del medesimo o ancora quando,
instaurati validamente fra i soggetti interessati il rapporto di lavoro ed il
rapporto previdenziale, la contestazione sia limitata al conseguimento di
prestazioni derivanti dall’uno o dall’altro, ha escluso la necessità di
integrare il contraddittorio nei confronti dell’ente di previdenza nel giudizio
promosso dal lavoratore contro il datore di lavoro per la regolarizzazione
della posizione assicurativa (così, tra le tante, Cass. nn. 2684 del 1973, 66
del 1984, 442 del 1986, 72 del 1998, 10377 del 2000, 3941 del 2004): e ciò sul
presupposto per cui, in controversie del genere, l’esistenza e/o l’atteggiarsi
del rapporto di lavoro subordinato, che rappresenta l’imprescindibile
presupposto del rapporto contributivo, costituirebbe un punto pregiudiziale,
risolvibile inadenter tantum dal giudice e senza efficacia di giudicato al di
fuori della causa in cui l’accertamento avviene.

Reputa il Collegio che il primo dei due orientamenti
debba essere qui ribadito, ancorché con i chiarimenti e le precisazioni che
seguono.

Nell’esaminare la natura giuridica dei contributi
previdenziali obbligatori, questa Corte ha da tempo riconosciuto che essi
partecipano della natura delle obbligazioni pubbliche, equiparabili a quelle
tributarie a causa dell’origine legale e della loro destinazione a beneficio di
enti pubblici per l’espletamento delle loro funzioni sociali (così Cass. S.U.
n. 10232 del 2003 e, più recentemente, Cass. n.
2130 del 2018), e ha correlativamente escluso, in coerenza con l’autonomia
del rapporto contributivo rispetto a quello previdenziale, che il lavoratore
possa agire in giudizio per costringere gli enti previdenziali all’azione di
recupero dei contributi omessi (Cass. nn. 2001 del 1972, 6911 del 2000): è
infatti evidente che, ammettendo un’azione del genere, si verrebbe a confondere
l’indubbio interesse di fatto che il lavoratore possiede rispetto al regolare
svolgimento del rapporto contributivo con una situazione soggettiva di diritto
avente ad oggetto i contributi obbligatori, rispetto ai quali, viceversa,
nessuna contitolarità egli può vantare (Cass. n. 7104 del 1992); o comunque, e
a dispetto della logica pubblicistica che governa il rapporto contributivo, gli
si consentirebbe di sostituirsi all’ente previdenziale per ottenere una
condanna del datore di lavoro a pagare i contributi medesimi, in violazione del
principio per cui, fuori dai casi espressamente previsti dalla legge, non è
consentito a nessuno di far valere processualmente in nome proprio un diritto
altrui (art. 81 c.p.c.).

D’altra parte, se ciò è vero, deve riconoscersi che
ciò che viene impropriamente denominata come “azione per la
regolarizzazione del rapporto contributivo”, e che la costante
giurisprudenza di questa Corte ha da tempo ammesso pur in costanza di rapporto
di lavoro e perfino anteriormente alla prescrizione dei contributi (cfr. già
Cass. n. 3747 del 1974 e, tra le più recenti, Cass.
n. 1179 del 2015, sulla scorta di Cass. n. 26990 del 2005), altro non può
essere che una species dell’azione risarcitoria che al lavoratore spetta ex art. 2116, comma 2°, c.c. per il caso in cui il
datore di lavoro abbia omesso il pagamento dei contributi previdenziali e
dall’omissione gli sia derivato un danno, contraddistinta dalla peculiarità
che, invece di una domanda risarcitoria a proprio favore, il lavoratore formula
una domanda di condanna al pagamento dei contributi a beneficio dell’ente
previdenziale, quale misura finalizzata alla rimozione del danno: prova ne sia
che la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che, in caso di accoglimento
della domanda, la condanna deve essere limitata al pagamento dei contributi per
i quali non sia intervenuta la prescrizione, ancorché quest’ultima non sia
stata eccepita in giudizio, stante il divieto di ordine pubblico di effettuare
versamenti a regolarizzazione di contributi prescritti (Cass. n. 1703 del 1991),
e che a tale condanna è estranea la previsione dell’art.
429 c.p.c., trattandosi di somme di cui è creditore non il lavoratore, ma
l’ente previdenziale (Cass. S.U. n. 15278 del 2001).

Ciò chiarito, però, diventa palese che le medesime
ragioni di ordine logico e sistematico esaminate da Cass.
S.U. n. 3678 del 2009, cit., a sostegno della necessità del litisconsorzio
necessario con l’ente previdenziale allorché l’azione risarcitoria abbia ad
oggetto la costituzione della rendita vitalizia, debbono valere anche nel caso
in cui oggetto della domanda del lavoratore sia direttamente la condanna del
datore di lavoro al pagamento in favore dell’ente previdenziale dei contributi
omessi: fermo restando che esula dalle presenti considerazioni ogni indagine
circa la configurabilità di una legittimazione straordinaria del lavoratore a
sostituirsi all’ente previdenziale e di un suo interesse in concreto a farlo,
si deve piuttosto aggiungere, a suffragio della necessità del litisconsorzio
con l’ente previdenziale, che l’obbligo datoriale di pagare integralmente i
contributi dovuti si configura, nell’ambito del rapporto di lavoro, come
obbligo di facere, non già come un diritto di credito ai contributi da parte
del lavoratore, e che la sentenza di condanna ad un facere siffatto, oltre a
non essere in alcun modo direttamente utile per il lavoratore, non avrebbe
effetto alcuno verso l’ente previdenziale, stante l’indisponibilità delle
obbligazioni contributive e l’indiscutibile terzietà dell’ente previdenziale
medesimo rispetto al rapporto di lavoro, che gli renderebbe inopponibile
qualsiasi giudicato (Cass. n. 4821 del 1999) e, prima ancora, qualsiasi
interruzione della prescrizione dei contributi (Cass. n. 7104 del 1992, cit.);
ed è appena il caso di ricordare che, giusta la ricostruzione di Cass. S.U. n. 3678 del 2009, cit., l’esigenza
della partecipazione al processo di tutti i soggetti della situazione
sostanziale dedotta in giudizio si giustifica in funzione dell’obiettivo di non
privare la decisione (indipendentemente dalla sua natura di condanna, di
accertamento o costitutiva) dell’unitarietà connessa con l’esperimento
dell’azione proposta, ossia quando, in assenza anche di uno soltanto dei
soggetti coinvolti, la sentenza risulti inidonea a produrre un qualsiasi
effetto giuridico anche nei confronti degli altri: che è proprio ciò che, in
assenza dell’ente previdenziale, sarebbe nella specie inevitabile.

Le superiori considerazioni, peraltro, evidenziano
la necessità di una revisione delle implicazioni di ordine processuale che Cass. nn. 19398 del 2014 e 14853 del 2019 hanno ritenuto di trarre dalla
mancata partecipazione al processo dell’ente previdenziale.

Fermo, infatti, il condivisibile rilievo che la
condanna a favore di terzo è istituto di carattere eccezionale, che può trovare
giustificazione solo in presenza di un’espressa previsione legislativa (quali
ad es. l’art. 18, commi 2° e
4°, St. lav., e gli artt. 2,
comma 2, e 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015), deve per converso rilevarsi che,
per principio generale dell’ordinamento processuale, il caso in cui la parte
chieda in giudizio un bene della vita la cui attribuzione non può aver luogo
senza che al giudizio partecipi un terzo non dà luogo ad un’ipotesi di
inammissibilità della domanda,

come appunto ritenuto da Cass. nn. 19398 del 2014 e
14853 del 2019, ma integra viceversa un’ipotesi di litisconsorzio necessario ex
art. 102 c.p.c.: e ciò, ripetesi, a prescindere
da ogni considerazione riguardante le condizioni dell’azione o la fondatezza
nel merito della domanda, che sono questioni che possono essere delibate
soltanto nel contraddittorio fra tutti gli interessati.

Pertanto, considerato che la nullità del giudizio
per difetto di integrità del contraddittorio è rilevabile in ogni stato e grado
del processo e dunque anche in questa sede di legittimità, con il solo limite
del giudicato (cfr. tra le più recenti Cass. nn. 26388 del 2008, 9394 del 2017), derivandone ex art. 354 c.p.c. la necessità di rimettere le parti
avanti al primo giudice affinché provveda alla sua instaurazione ex novo,
previa integrazione del contraddittorio (giurisprudenza costante fin da Cass.
n. 2786 del 1963), la sentenza impugnata va cassata e le parti rimesse avanti
al primo giudice, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

 

P.Q.M.

 

Provvedendo sul ricorso, cassa la sentenza impugnata
e rimette le parti avanti al primo giudice, che provvederà anche sulle spese del
giudizio di cassazione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 maggio 2020, n. 8956
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