Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 maggio 2020, n. 9093

Pagamento della retribuzione, Esistenza di una conciliazione
– Inefficacia della cessione di ramo d’azienda, Richiesta di compensatio lucri
cum damno, Non sussiste, Non possibile ripristinare il rapporto con il datore
cedente, per fatto a lui imputabile, Obbligo di corrispondere le retribuzioni
al lavoratore a partire dalla messa in mora, decorrente dal momento
dell’offerta della prestazione lavorativa

 

Rilevato che

 

1. La Corte di appello di Napoli ha confermato la
sentenza del Tribunale della stessa città che aveva, a sua volta, rigettato
l’opposizione proposta da T.I. s.p.a. avverso il decreto con il quale A.M.
aveva ingiunto il pagamento della somma di € 1.835,15 a titolo di retribuzione
per il mese di aprile 2014.

2. La Corte territoriale, ritenuto sufficientemente
specifico il gravame e inammissibile perché nuova la doglianza con la quale si
è eccepita l’esistenza di una conciliazione dell’11.2.2014, ha accertato che a
base del decreto ingiuntivo vi era l’accertata inefficacia della cessione di
ramo d’azienda con sentenza del Tribunale che era stata confermata sia in
appello che in Cassazione.

3. Ha rammentato che il credito dell’appellata aveva
natura retributiva e che gravava sulla T.I. s.p.a. la cui cessione di ramo di
azienda era stata annullata con ordine di ripristino del rapporto di lavoro con
la società cedente e conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del
danno quantificabile in termini di lucro cessante in misura pari alle
retribuzioni non percepite (nello specifico quella del mese di aprile 2014).

4. Ha respinto la richiesta di compensatio lucri cum
damno osservando che le somme erogate alla lavoratrice dalla cessionaria, una
volta dichiarata inefficace la cessione, potevano essere oggetto di una
richiesta di restituzione da parte di quest’ultima e, perciò, non potevano
essere poste in compensazione all’atto della quantificazione del danno subito.

5. Ha rilevato infine che il diritto al risarcimento
matura dalla data in cui la lavoratrice ha messo a disposizione le sue energie
lavorative, costituendo in mora la datrice di lavoro, e perdura fino
all’effettivo ripristino del rapporto.

6. Per la cassazione della sentenza propone ricorso
T.I. s.p.a. che articola tre motivi ai quali resiste A.M. con controricorso
ulteriormente illustrato da memoria ai sensi dell’art.
380 bis 1 cod. proc. civ.

7. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la
violazione dell’art. 437 cod. proc. civ. in
relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc.
civ.. Deduce la ricorrente che erroneamente la sentenza ha ritenuto che
l’eccezione – con la quale la società ha denunciato in appello I’ improponibilità
della domanda per avere la lavoratrice accettato, in sede di conciliazione con
la cessionaria, il collocamento in mobilità con erogazione di un incentivo
all’esodo – era tardiva e perciò inammissibile. Sostiene infatti la società che
tale affermazione muove dall’errato presupposto che la T. potesse essere a
conoscenza dell’esistenza di quel verbale di conciliazione già prima della data
di sua produzione. Al contrario rileva la società che si trattava di
conciliazione di un giudizio di cui T. non era stata parte e, nessuna delle
parti costituite nel giudizio di opposizione ed in quello di impugnazione della
cessione del ramo di azienda, ne aveva fatto menzione, né tanto meno la
lavoratrice aveva allegato che T. ne fosse a conoscenza.

8. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la
violazione e falsa applicazione dell’art. 1406 cod.
civ. per avere la Corte territoriale ritenuto che gli atti estintivi del
rapporto posti in essere tra la M. e la cessionaria fossero irrilevanti nei
confronti della cedente. Sostiene la ricorrente che una volta accertata
l’inefficacia della cessione del ramo di azienda il rapporto tra il lavoratore
ed il cessionario si configura come cessione del contratto ai sensi dell’art. 1406 cod. civ. che, essendo priva
dell’assenso del contraente ceduto, è inefficace ma nel periodo in cui vi è
stata data esecuzione è di fatto proseguito con il cessionario. Deduce che la
condotta della lavoratrice, la quale successivamente alla reintegrazione presso
il cessionario per effetto di una sentenza ha conciliato la lite accettando un
incentivo all’esodo, è comportamento che non è in maniera passiva orientato a
conservare il posto di lavoro in attesa del giudicato sulla sentenza ma
piuttosto un comportamento positivo avente contenuto dismissivo di quel
rapporto.

9. Con il terzo motivo di ricorso infine è
denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt.
1206, 1207, 1217,
1223, 1256, 1453 e 1463 cod. civ..
Deduce la ricorrente che dalle somme chieste si sarebbero dovute detrarre
quelle dovute alla lavoratrice per effetto dell’ordinanza che l’ha reintegrata
alle dipendenze della cessionaria con decorrenza dal licenziamento e fino alla
effettiva reintegrazione.

10. Il ricorso non può essere accolto.

11. Va ricordato che le sezioni Unite di questa
Corte sono di recente intervenute in un caso di declaratoria di nullità
dell’interposizione di manodopera per violazione di norme imperative con
conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e – con
un’ interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 29 del d.lgs n. 276 del 2003,
che non contiene alcuna previsione in ordine alle conseguenze del mancato
ripristino del rapporto di lavoro per rifiuto illegittimo del datore di lavoro
e della regola sinallagmatica della corrispettività, in relazione agli artt. 3, 36 e 41 Cost. – hanno affermato che nell’ipotesi in
cui, per fatto imputabile al datore di lavoro, non sia possibile ripristinare
il predetto rapporto, è obbligo per quest’ultimo di corrispondere le
retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora, decorrente dal momento
dell’offerta della prestazione lavorativa (cfr. Cass. Sez. Un. 07/02/2018 n.
2990).

Successivamente a tale pronuncia questa Corte, con
specifico riferimento alla fattispecie di cessione di ramo di azienda
dichiarata inefficace, ha poi affermato che, ove su domanda del lavoratore
ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui
all’art. 2112 cod.civ., il pagamento delle
retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del
lavoratore successivamente a detto accertamento ed alla messa a disposizione
delle energie lavorative in favore dell’alienante da parte del lavoratore, non
produce effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva
gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione
lavorativa (cfr. Cass. 03/07/2019 n. 17784, 07/08/2019 n. 21158 e 07/08/2019 n. 21160).
L’invalidità della cessione, infatti, determina l’istaurazione di un diverso ed
autonomo rapporto di lavoro, in via di mero fatto, con il cessionario.

12. Tanto premesso ritiene il Collegio che non vi
siano ragioni per discostarsi da tali principi e, conseguentemente, il secondo
ed il terzo motivo di ricorso sono infondati e devono essere rigettati.

13. Quanto al motivo di ricorso ritiene il Collegio
che il suo esame primo resti assorbito dalla ritenuta irrilevanza dell’avvenuto
pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario.

14. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
Quanto alle spese l’esistenza, all’epoca della proposizione del ricorso, di
orientamenti giurisprudenziali non uniformi ed il solo recente consolidamento
della giurisprudenza nel senso qui condiviso giustificano la compensazione tra
le parti delle spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R.,
se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese
del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R.,
se dovuto.

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