Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 maggio 2020, n. 9089

Diritto all’inquadramento nel profilo professionale, Criterio
di riferimento, Mobilità del personale, Competenza dell’ente di destinazione
per l’esatto inquadramento

 

Ritenuto

 

1. Che la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza
n. 9966 del 2013, accoglieva la impugnazione proposta dal Ministero
dell’economia e delle finanze nei confronti di M.D. avverso la sentenza emessa
tra le parti dal Tribunale di Roma, e per l’effetto rigettava la domanda
proposta dal lavoratore.

2. Il Tribunale aveva riconosciuto al lavoratore il
diritto all’inquadramento nel profilo di operatore amministrativo-tributario,
II area, posizione economica F2, del CCNL Ministeri
(ex V qualifica funzionale), equivalente al profilo di provenienza da altra
amministrazione, condannando il convenuto Ministero alla ricostruzione della
carriera.

3. La Corte d’Appello ha premesso che il lavoratore
era stato assunto nel 1983 dall’Amministrazione delle Poste, con la qualifica
di operatore di esercizio, ed era stato prima comandato e poi trasferito, a
decorrere dal 1° marzo 2000, presso il Ministero dell’economia e delle finanze,
venendo inquadrato nel profilo coadiutore, IV qualifica funzionale, poi area B,
posizione economica B1, del CCNL Ministeri.

Ha, quindi, affermato che non era applicabile alla
fattispecie il decreto 10 luglio 1997 del Ministro delle poste e
telecomunicazioni, invocato dal lavoratore.

4. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre il lavoratore, prospettando tre motivi di impugnazione.

5. Resiste il Ministero dell’economia e delle
finanze con controricorso.

 

Considerato

 

1. Che con il primo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione di legge ex art.
360. n. 3. cod. proc. civ., in relazione agli artt. 2, 3 e 4, comma 7, del
Decreto 10 luglio 1997 del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni,
laddove la sentenza impugnata ha ritenuto tale decreto uno strumento specifico
relativo agli inquadramenti dallo stesso regolati, così escludendo
l’applicazione dello stesso al personale dell’Amministrazione postale
transitato non nel Ministero delle poste e telecomunicazioni, ma in altri
Ministeri, come nel caso del ricorrente.

Dopo aver richiamato gli atti normativi che hanno
preceduto il decreto e aver richiamato le premesse dello stesso, nonché l’art.
4, comma 7, e la tabella delle corrispondenze, il ricorrente evidenzia che
l’equiparazione differenziata riguardava l’ex Amministrazione postale, che
anche in precedenza era oggetto di un organizzazione peculiare rispetto al
Comparto Ministeri, e quindi il decreto doveva trovare applicazione anche con
riguardo alla propria posizione.

A sostegno della mancanza di carattere speciale del
decreto in questione, il lavoratore richiama pareri del Consiglio di Stato e
dell’Avvocatura dello Stato, nonché giurisprudenza di merito del giudice
ordinario e del giudice amministrativo.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione di legge, ex art.
360, n. 3, cod. proc. civ., in relazione all’art. 49, comma 2, del d.lgs. n. 29
del 1993, integralmente trasfuso nel comma 2 dell’art. 45 del d.lgs. n. 165 del
2001. Disparità di trattamento. Omessa motivazione.

Nel richiamare l’art. 45, comma 2, del d.lgs.
n. 165 del 2001, il ricorrente invoca il principio di parità di
trattamento, a parità di mansioni.

La sentenza impugnata dà luogo a disparità di
trattamento del ricorrente rispetto ad altre categorie di lavoratori che hanno
ottenuto il giusto inquadramento.

Aggiunge che altri lavoratori, inoltre, in via di
contenzioso o di normale riconoscimento, avevano avuto il corretto
inquadramento.

3. I suddetti motivi, che censurano la statuizione
della Corte d’Appello che ha escluso l’applicabilità, per l’inquadramento del
lavoratore, del DM 10 luglio 1997, devono essere trattati congiuntamente, in
ragione della loro connessione.

Gli stessi non sono fondati.

3.1. La Corte territoriale si è uniformata ai
principi già espressi da questa Corte con giurisprudenza consolidata (cfr.
Cass., n. 10933 del 2011, n. 12250 del 2015, n.
4088 del 2016, n. 3 del 2017), secondo cui, in fattispecie come quella in
esame, il criterio di riferimento per valutare l’esatto inquadramento non può
essere il D.M. 10 luglio 1997. A tali principi si intende dare continuità non
ravvisandosi nelle argomentazioni del ricorrente indicazioni per una diversa
soluzione interpretativa.

Il d.l.
n. 487 del 1993, art. 6, comma 2, conv. nella legge
n. 71 del 1994, nello stabilire che una parte del personale
dell’Amministrazione Postale sarebbe transitato nei ruoli del Ministero delle
Poste e Telecomunicazioni, rinviava ad una apposita decretazione ministeriale
il compito di stabilire un quadro di equiparazione fra qualifiche funzionali
dell’Amministrazione postale ed i profili professionali del dPR n. 1219 del
1984; venne così emanato il D.M. 10 luglio 1997.

Tuttavia, tale decreto ministeriale non trova applicazione
nella specie.

Deve affermarsi, infatti, (cfr. Cass. n. 10933 del
2011) che, in tema di mobilità del personale, con riferimento al trasferimento
del lavoratore dipendente dell’Ente Poste Italiane ad una Amministrazione
pubblica (nella specie, Ministero dei trasporti e poi Ministero dell’economia e
delle finanze, si v. pag. 9 del ricorso), compete all’ente di destinazione
l’esatto inquadramento e la concreta disciplina dei rapporto di lavoro dei
dipendenti trasferiti, dovendosi ritenere non estensibile la tabella di
equiparazione allegata al DM 10 luglio 1997, relativa ai dipendenti trasferiti
presso il Ministero delle Poste, la cui applicazione comporterebbe
l’espropriazione, in danno dell’ente, dello specifico potere di gestione del
rapporto nella fase dell’inquadramento professionale, in deroga al principio
generale che tale potere attribuisce al datare di lavoro pubblico nell’ambito
delle specifiche previsioni di legge e dei contratti collettivi.

3.2. Va, altresì, rilevato che, come la
giurisprudenza ha costantemente affermato, il principio espresso dall’art. 45 del d.lgs. 30 marzo
2001, n. 165, secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai
propri dipendenti parità di trattamento contrattuale, opera nell’ambito del
sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva e vieta
trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, ma non
costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede,
in quanto la disparità trova titolo non in scelte datoriali unilaterali lesive,
come tali, della dignità del lavoratore, ma in pattuizioni dell’autonomia
negoziale delle parti collettive, le quali operano su un piano tendenzialmente
paritario e sufficientemente istituzionalizzato, di regola sufficiente, salva
l’applicazione di divieti legali, a tutelare il lavoratore in relazione alle
specificità delle situazioni concrete (ex multis, CC. Lavoro, (.) n. 1037 del
2014 e CC, n. 19043 del 2017).

3.3. Si osserva, altresì che il profilo di censura
con cui ci si duole di favorevoli esiti per altri lavoratori, in via
giudiziaria o da parte del datore di lavoro, non osserva gli oneri di cui all’art. 366 cod. proc. civ., atteso che non è
riprodotto il contenuto dei documenti ai quali di intende fare riferimento,
indicati genericamente come all. 1, già documenti 9, 10, 11, 12, 13 e 14, del
fascicolo di primo grado.

I requisiti imposti dall’art.
366 cod. proc. civ. rispondono ad un’esigenza che non è di mero formalismo,
perché solo l’esposizione chiara e completa dei fatti di causa e la descrizione
del contenuto essenziale dei documenti probatori e degli atti processuali
rilevanti consentono al giudice di legittimità di acquisire il quadro degli
elementi fondamentali in cui si colloca la decisione impugnata, indispensabile
per comprendere il significato e la portata delle censure.

4. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art.
360, n. 3, cod. proc. civ., dell’art. 4, comma 8, della legge n. 312 del
1980. Omessa motivazione.

Il ricorrente si duole dell’inquadramento operato
dal Ministero dell’economia e delle finanze, atteso che non era stato fatto
oggetto neanche dell’equiparazione dei profili professionali tra vecchio e
nuovo ordinamento ministeriale.

4.1. Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente, limitandosi a prospettare la non
correttezza dell’inquadramento, non deduce nel motivo in esame, di avere già
ritualmente sottoposto al giudice del merito – riproducendo nel ricorso
l’eventuale domanda proposta in primo grado e l’eccezione in appello – di aver
contestato l’inquadramento effettuato secondo le previsioni del Comparto
Ministeri, e di tale questione non è menzione nella sentenza della Corte
d’Appello.

Pertanto, la censura in esame intende mutare i fatti
costitutivi del diritto ed esorbitano dai limiti di una consentita “emendatio
libelli, dando luogo ad un mutamento della “causa pretendi” che consiste in una
vera e propria modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in
giudizio, tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione
nuovo, e pertanto inammissibile (Cass., n. 32146 del 2018).

4.2. Anche a voler considerare la doglianza di
omesso esame quale denuncia di error in procedendo, la suddetta carenza del
motivo preclude a questa Corte l’esame del fatto processuale, atteso che le
Sezioni Unite, con la sentenza n. 8077 del 2012, hanno precisato che, in ogni
caso, la proposizione del motivo di censura resta assoggettata alle regole di
ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, nel senso che la
parte ha l’onere di rispettare il principio di specificità del ricorso e le condizioni
di procedibilità di esso (in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366, co. 1, n. 6 e 369,
comma 2, n. 4, cod. proc. civ.), “sicché l’esame diretto degli atti che la
Corte è chiamato a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei
documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato”.

La parte ricorrente è tenuta ad indicare gli
elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede
il riesame, affinché il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per
il principio di specificità del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti
necessari a individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 6225
del 2005; Cass. n. 9734 del 2004).

5. Il ricorso va rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

7. Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di
giudizio che liquida in euro 5.000,00, per compensi professionali, oltre spese
prenotate a debito.

Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

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