Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 maggio 2020, n. 9302

Differenze retributive, Rapporti di lavoro, susseguitisi
senza soluzione di continuità, Prescrizione dei crediti, Ricorso per
cassazione, Questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, Onere
della parte ricorrente di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice
di merito

 

Rilevato che

 

1. Y.B. adiva il Tribunale di Viterbo, deducendo di
avere prestato lavoro subordinato quale collaboratrice domestica alle dipendenze
di L.A. e poi quale segretaria della S. s.n.c., di cui il L. era amministratore
unico, e di essere creditrice di differenze retributive maturate nei due
periodi del rapporto di lavoro, susseguitisi senza soluzione di continuità dal
16 gennaio 1996 al 18 maggio 2003. Il Giudice adito rigettava la domanda per
essere tutti i crediti prescritti.

1.1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n.
7614/2015, sull’impugnazione proposta dalla lavoratrice, premesso che il
rapporto di lavoro cessò nel maggio 2001, quando l’appellante rassegnò le
dimissioni, riteneva che non tutti i crediti fossero prescritti, ma solo quelli
anteriori al quinquennio precedente il 22.10.2003, data della notifica del
primo interruttivo.

1.2. Rilevava che i crediti non prescritti attenevano
interamente al rapporto di lavoro svolto dalla B. alle dipendenze della S. di
L.A. (25.5.1999 – 25.5.2001); che tale rapporto di lavoro era stato ammesso
dalla stessa parte appellata e comunque era risultato comprovato in giudizio,
come già ritenuto dal primo giudice, le cui argomentazioni svolte nella
sentenza impugnata erano da intendersi richiamate.

1.3. In ordine al quantum, osservava che la c.t.u.
contabile espletata in grado di appello non aveva formato oggetto di alcuna
specifica e puntuale contestazione e che pertanto la S. di L.A. s.n.c. doveva
essere condannata, per i titoli di cui alla relazione peritale, al pagamento
della somma di euro 43.506,85 oltre accessori e spese di lite del doppio grado.
Compensava le spese tra l’appellante e L.A. in proprio.

2. Per la cassazione di tale sentenza la S. s.n.c. e
A.L. in proprio hanno proposto ricorso affidato a tre motivi, i primi due
riferibili alla società e il terzo al L. in proprio. Il L., già socio unico e
amministratore della s.n.c., ha depositato memoria ex art. 380-bis.1. cod. proc. civ.

 

Considerato che

 

1. Preliminarmente, va respinta l’eccezione,
sollevata dalla resistente, di inammissibilità del ricorso per essere la
società ricorrente stata cancellata dal registro delle imprese sin da epoca
coeva al giudizio di appello.

1.1. E’ ben vero che la cancellazione dal registro
delle imprese comporta l’estinzione della società e la priva della capacità
processuale, sicché, qualora l’estinzione intervenga in pendenza di un giudizio
di cui la società è parte, si produce un evento interruttivo, disciplinato
dagli artt. 299 e ss. cod. proc. civ..
Tuttavia, qualora siffatto evento non sia stato fatto constare processualmente
nei modi di legge (come nel caso in esame), l’impugnazione della sentenza,
pronunciata nei riguardi della società, deve provenire dai soci (o essere
proposta nei confronti dei soci), in quanto la legittimazione processuale,
attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ex art.
110 cod. proc. civ., per effetto della vicenda estintiva, in capo agli
stessi (cfr. Cass. 23574 del 2014, conformi
Cass. sez. lav. 1958 del 2017 e 13183 del 2017; cfr. Cass. 23574 del 2017),
quali successori a titolo universale divenuti partecipi della comunione in
ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione
(cfr. Cass. n. 1958 del 2017).

1.2. Tali condizioni sono da ritenere sussistenti in
relazione al mandato alle liti conferito dal L. in proprio e quale socio unico
illimitatamente responsabile della estinta s.n.c.

2. Tanto premesso, con il primo motivo di ricorso si
denuncia violazione dell’art. 132 cod. proc.
civ. e contraddizione insanabile per avere la sentenza affermato che era
stato il giudice di primo grado a ritenere comprovato il rapporto di lavoro
della B. alle dipendenze della società in nome collettivo, mentre il primo
giudice aveva rigettato (e non accolto) la domanda. Si afferma inoltre che la
qualifica riconosciuta doveva essere diversa da quella ritenuta in sentenza.

3. Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc.
civ.. Esso verte sulla condanna della società in nome collettivo al
pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. Si chiede la compensazione
delle spese in ragione della reciproca soccombenza, poiché la lavoratrice aveva
perso in ordine alla impugnativa del licenziamento e sulla data di cessazione
del rapporto di lavoro.

4. Il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 91 e 92 cod.
proc. civ.. Esso verte sulla statuizione di compensazione delle spese tra
la lavoratrice e il L. in proprio, in merito al periodo di lavoro rispetto al
quale è stata confermata la statuizione di prescrizione del credito. Si chiede
la condanna della lavoratrice al pagamento le spese, in quanto totalmente
soccombente nei confronti del L. in proprio.

5. Il ricorso è infondato.

6. Quanto al primo motivo, va premesso che la
sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata per
relationem ove il giudice d’appello, facendo propria la ricostruzione in fatto
operata dal primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, attraverso la
parte motiva di entrambe le sentenze, un percorso argomentativo adeguato e
corretto, idoneo a sostenere la decisione assunta.

6.1. Ove la sentenza di appello sia motivata per
relationem alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., occorre che la
censura svolta dal ricorrente per cassazione identifichi il tenore della
motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello e
che vale ad integrare la motivazione della sentenza impugnata. In difetto di
tale allegazione non è possibile valutare la fondatezza o meno dell’assunto
secondo cui il giudice di appello avrebbe eluso i suoi doveri motivazionali
(sugli oneri di allegazione gravanti sul ricorrente per cassazione in caso di
sentenza di appello motivata per relationem alla sentenza di primo grado, cfr.
Cass. S.U. n. 7074 del 2017).

6.2. Nel caso in esame, la sentenza di appello ha
affermato che il rapporto di lavoro era “…integralmente comprovato, come
già sostanzialmente ritenuto dal primo giudice alle cui motivazioni sul punto
si fa espresso richiamo”. Ha così inteso recepire la ricostruzione in fatto
e le argomentazioni svolte primo giudice in merito al periodo non coperto da
prescrizione.

6.3. Spettava dunque al ricorrente per cassazione,
in primo luogo, trascrivere le parti della sentenza di primo grado recepite
dalla sentenza di appello e facenti parte della relativa motivazione e, a
seguito di tale adempimento, censurare in modo specifico tale complessiva
ricostruzione per sostenere l’assunto di infondatezza della domanda. Nessuno di
tali adempimento è stato assolto, di talché il motivo risulta privo di fondamento.

7. Quanto alla seconda questione oggetto del primo
motivo, risulta dalla sentenza impugnata che non erano state mosse censure alla
c.t.u. contabile elaborata in grado di appello. Deve quindi ritenersi non vi
fossero neppure contestazioni sulla qualifica assunta a base del calcolo delle
differenze retributive.

7.1. A ciò aggiungasi che la questione relativa alla
spettanza di un diverso inquadramento contrattuale non risulta trattata dalla
sentenza e quindi è da ritenere nuova, in difetto degli adempimenti di cui all’art. 366 cod. proc. civ.

In proposito, va ribadito che, qualora con il
ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno
nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne
una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di
allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in
ossequio al principio di cui all’art. 366 cod.
proc. civ. del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del
giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di
controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il
merito della suddetta questione (ex plurimis, Cass. n. 23675 del 2013, n. 324
del 2007, nn. 230 e 3664 del 2006).

8. Il secondo motivo è infondato. La mancata
compensazione delle spese di lite non è censurabile in cassazione, avendo la
Corte di appello applicato il principio della soccombenza ed infatti
l’accoglimento anche solo parziale della domanda originaria configura comunque
un’ipotesi di soccombenza del convenuto.

8.1. Secondo costante giurisprudenza di questa
Corte, solo la compensazione dev’essere sorretta da motivazione, e non già
l’applicazione della regola della soccombenza cui il giudice si sia uniformato
(cfr. Cass. n. 2730 del 2012). Né il giudice di appello ha l’obbligo di
compensare in tutto o in parte le spese in ragione del parziale rigetto della domanda,
in quanto il regolamento delle spese processuali, fuori della ipotesi di
violazione del principio di soccombenza per essere stata condannata la parte
totalmente vittoriosa, è rimesso, anche per quanto riguarda la loro
compensazione, al potere discrezionale del giudice di merito (Cass. 18173 del
2008).

9. Quanto al terzo motivo, la controversia venne
instaurata in primo grado nel 2006. Quindi va applicato il regime di cui alla
regime introdotto dall’art. 2, comma
1, lett. a), della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e anteriore a quello
modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69,
per cui il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese
“per giusti motivi” deve essere esplicitamente motivato.

9.1. Sul punto la sentenza è motivata in ordine alla
compensazione delle spese tra la B. e il L. in proprio, in quanto afferma che
vi è stata commissione di ruoli in capo al L.

Il ricorrente ribadisce di essere risultato
totalmente vittorioso quale convenuto in proprio, per cui doveva essere
applicata la regola della soccombenza. Tuttavia, la statuizione di
compensazione può essere censurata solo se non è conforme alle regole del
relativo regime processuale. Nel caso di specie, all’epoca era richiesto
unicamente che i giusti motivi fossero esplicitati in sentenza e ciò è
avvenuto, con motivazione adeguata e neppure specificamente censurata.

10. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di
parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità,
liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi
professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del
compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art.
2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

11. Va dato atto della sussistenza dei presupposti
processuali (nella specie, il rigetto del ricorso) per il versamento, da parte
del ricorrente, ai sensi dell’art.
13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto
dall’art. 1, comma 17, della
legge 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna L.A. al pagamento
delle spese, che liquida in euro 4.000,00 per compensi e in euro 200,00 per
esborsi oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 maggio 2020, n. 9302
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