Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 maggio 2020, n. 9491

Ricercatori o tecnologi già dipendenti, Stabilizzazione ex L. n. 296/2006, Anzianità maturata nei rapporti
di lavoro a termine, Discriminazione tra i lavoratori, Accordo Quadro sul
lavoro a tempo determinato allegato alla Direttiva
1999/70/CE

 

Rilevato che

 

1. la Corte di appello di Firenze, con ordinanza
resa ai sensi dell’art. 348 bis cod. proc. civ., dichiarava l’inammissibilità
dell’appello proposto dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) avverso la
sentenza del Tribunale di Pisa che aveva riconosciuto il diritto degli odierni
controricorrenti, ricercatori o tecnologi già dipendenti del medesimo Consiglio
come ‘precari’ e poi stabilizzati ex I. n. 296/2006, all’anzianità maturata nei
rapporti di lavoro a termine precedentemente intercorsi tra le parti anche a
fini economici con ricostruzione della relativa posizione stipendiale;

2. il primo giudice considerava applicabile il
principio di non discriminazione previsto dall’Accordo Quadro sul lavoro a
tempo determinato, attuato dalla direttiva 1999/70
CE, osservando che il dipendente che aveva lavorato per la stessa
Amministrazione in un arco temporale con contratti a tempo determinato non
poteva essere trattato in maniera deteriore, in carenza di ragioni oggettive
(tra l’altro, non provate né ancor prima allegate), rispetto all’altro
lavoratore che avesse lavorato nello stesso periodo in forza di un’assunzione a
tempo indeterminato;

3. la Corte territoriale riteneva che l’impugnazione
del CNR non avesse ragionevole probabilità di accoglimento e richiamava, al
riguardo, un proprio precedente costituito dalla sentenza n. 109/2014 il cui indirizzo
interpretativo era da confermare anche alla luce della decisione della Corte di
Giustizia europea n. C-393/11;

4. per la cassazione della sentenza del Tribunale
nonché dell’ordinanza resa ai sensi dell’art. 348
bis cod. proc. civ. il CNR ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo;

5. hanno resistito con controricorso i lavoratori;

6. non sono state depositate memorie;

 

Rilevato che

 

1. va preliminarmente rilevata l’inammissibilità per
difetto di interesse del ricorso proposto avverso l’ordinanza ex art. 348 ter cod. proc. civ., emessa in uno dei
casi in cui ne è consentita l’adozione e come nella specie contenente un
giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito del gravame;

ed infatti tale ordinanza, in quanto emanata
nell’ambito suo proprio, non è ricorribile per cassazione, non avendo carattere
definitivo, giacché il terzo comma del medesimo art.
348 ter consente di impugnare per cassazione il provvedimento di primo
grado (Cass., 27 marzo 2014, n. 7273; Cass. 12 ottobre 2015, n. 20470; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748; Cass., Sez. Un.,
2 febbraio 2016, n. 1914);

l’ordinanza in esame, peraltro, rispetta il dato
normativo, dal momento che la Corte ha ritenuto inammissibile l’appello per la
sua manifesta infondatezza, ovvero per ragioni di merito, ed ha così inteso
dare continuità ad un proprio orientamento richiamando le argomentazioni
riferite a casi analoghi decisi nel medesimo senso. Il riferimento a precedenti
decisioni è espressamente contemplato nell’art.
348 ter cod. proc. civ., che autorizza la motivazione ‘succinta’, ‘anche
mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa
e il riferimento a precedenti conformi’ (così Cass. 14 ottobre 2015, n. 20717);

2. tanto premesso il ricorrente, con l’unico
articolato motivo, denuncia violazione e falsa applicazione della direttiva n. 1999/70/CE e dell’Accordo Quadro del
lavoro a tempo determinato in allegato, dell’art. 4, comma 5, del c.c.n.I.
Comparto Ricerca 5/3/1998; dell’art. 20 del c.c.n.I. Comparto Ricerca 21/2/2002
relativo al quadriennio 1998-2001; dell’art. 4 del c.c.n.I. Comparto Ricerca
(quadrienni normativo 2006-2009 e 1° biennio economico) 24/2/2009; dell’art. 1, commi 519 e 520 della I.
296/2006; dell’art. 36 d.lgs. n. 368 del
2001, in relazione all’art. 360, n. 3, cod.
proc. civ.; censura la sentenza di primo grado per avere ritenuto
sussistente una discriminazione tra i lavoratori laddove il regime previsto
dalla contrattazione collettiva tra le due categorie di personale (ricercatore
a termine e ricercatore a tempo indeterminato) non disattende affatto la
normativa dell’Unione europea, essendo la diversità di trattamento ampiamente
giustificata da ragioni oggettive alla luce delle peculiarità riscontrabili nel
settore di riferimento, profili che escludono, in capo al lavoratore a tempo
determinato, il diritto ad una progressione economica nei sensi statuiti dai
giudici territoriali;

sostiene che nella specie è da escludere che il
ricercatore a termine e quello a tempo indeterminato si trovino in ‘situazioni
comparabili’ e che quindi l’anzianità maturata possa considerarsi ‘equivalente’
a quella svolta nell’ambito del rapporto a tempo indeterminato e ciò con
particolare riferimento alle seguenti circostanze: a) l’instaurazione del
rapporto di lavoro dei ricercatori a tempo indeterminato del CNR è sempre
preceduta da un periodo, almeno triennale, di esperienza maturata con rapporti
di lavoro a termine di vario genere e tali attività di ricerca post-laurea sono
ontologicamente diverse, per loro natura, dalle attività svolte nel periodo di
ruolo, in quanto tendono ad una fase formativa del ricercatore che, attraverso
l’esperienza maturata con l’attività di ricerca svolta nel triennio di
dottorato e/o attraverso altre forme di lavoro specificamente previste e
puntualmente disciplinate dall’ordinamento, crea i presupposti per potere
accedere ai ruoli; b) sono differenti le professionalità presupposte, le
modalità di selezione e l’utilizzo del ricercatore all’interno della struttura
organizzativa dell’ente; infatti, il lavoro svolto da un ricercatore in virtù
di un contratto a termine è ancorato allo sviluppo di un determinato progetto
scientifico e non può ritenersi identico e nemmeno simile a quello svolto
ricercatore nell’ambito del rapporto a tempo indeterminato, in ragione delle
diverse qualifiche e competenze richieste nei due casi dalla legge per poter
accedere alle due diverse posizioni; c) sussistono concrete e precise ragioni
oggettive, che sono rinvenibili nella natura stessa delle attività di ricerca
per singoli programmi e con specifici requisiti professionali, come rinvenibili
nell’assunzione ai sensi dell’art.
5, comma 2, I. n. 266 del 1997;

evidenzia che la soluzione fatta propria dalla Corte
territoriale condurrebbe al paradosso che il contrattista a termine, una volta
stabilizzato, avrebbe diritto ad un trattamento retributivo superiore rispetto
ad un dipendente a tempo indeterminato, in violazione dei principi comunitari
di non discriminazione;

3. il motivo è infondato;

3.1. vanno, infatti, richiamati i principi già
espressi da questa Corte nelle numerose pronunce in materia di contratti a
tempo determinato nel settore scolastico (ex plurimis, Cass. n. 22558/2016) oltre che di contratti a
tempo determinato stipulati con gli Enti di Ricerca Cass. 27950/2017; Cass. n.
7112/2018, Cass. n. 3473/2019; Cass. n. 6146/2019);

3.2. con le indicate pronunce si è premesso che la
clausola 4 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla Direttiva 1999/70/CE, nella parte in cui
stabilisce che «per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a
tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei
lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un
contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano
condizioni oggettive», è stata più volte interpretata dalla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, la quale ha evidenziato che: a) la clausola 4 dell’Accordo
esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di
trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a
tempo determinato, sicché la stessa ha carattere incondizionato e può essere
fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di
applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo
attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del
diritto interno (Corte Giustizia 15.4.2008, causa C-268/06,
Impact; 13.9.2007, causa C-307/05, Del Cerro
Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado
Santana); b) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in
modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137 n. 5 del Trattato (oggi 153 n. 5), “non può
impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto
di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli
lavoratori a tempo indeterminato, allorché proprio l’applicazione di tale
principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del
Cerro Alonso, cit., punto 42); c) le maggiorazioni retributive che derivano
dall’anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego
ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere
legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una
giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C-177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza
ivi richiamata); d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di
trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto,
né rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra
impiego di ruolo e non di ruolo, perché la diversità di trattamento può essere
giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che
contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle
caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55 e con
riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di
Giustizia 18.10.2012, cause C-302/11 e
C-305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C-393/11, Bertazzi);

3.3. la stessa Corte di Giustizia, chiamata a
pronunciare in fattispecie nelle quali veniva in rilievo il mancato
riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata in epoca antecedente alla
procedura di stabilizzazione prevista dalla legge
n. 296/2006, ha evidenziato che la clausola 4 «osta ad una normativa
nazionale, quale quella controversa nei procedimenti principali, la quale
escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo
determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in
considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento
della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima
autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di
stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, a meno che la citata esclusione sia
giustificata da ragioni oggettive ai sensi dei punti 1 e/o 4 della clausola di
cui sopra. Il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia
compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto di un
rapporto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di
tal genere» (Corte di Giustizia 18.10.2012 in cause riunite da C- 302/11 a C-305/11, Valenza e negli stessi
termini Corte di Giustizia 4.9.2014 in causa C –
152/14 Bertazzi);

3.4. i richiamati principi sono stati ribaditi dalla
Corte di Giustizia nella recente sentenza 20 settembre 2018 in causa C-466/17, Motter, con la quale si è, in sintesi,
osservato che al fine di «raggiungere un equilibrio tra i legittimi interessi
dei lavoratori a tempo determinato e quelli dei lavoratori a tempo
indeterminato» e di evitare «discriminazioni alla rovescia» è consentito, nel
rispetto del principio del prò rata temporis, tener conto dei periodi di
servizio prestati in misura non integrale, fermo però restando che al momento
dell’assunzione come dipendente pubblico di ruolo deve essere valorizzata ai
fini dell’anzianità anche la carriera pregressa del lavoratore a tempo
determinato; in tale pronuncia, peraltro, il ricorso al principio del prò rata
temporis trova giustificazione nella ritenuta necessità di «[..] rispecchiare
le differenze tra l’esperienza acquisita dai docenti assunti mediante concorso
e quella acquisita dai docenti assunti in base ai titoli, a motivo della
diversità delle materie, delle condizioni e degli orari in cui questi ultimi
devono intervenire, in particolare nell’ambito di incarichi di sostituzione di
altri docenti» (così, Corte di Giustizia, 20/09/2018, causa C-466/17, Motter);

3.5. l’interpretazione delle norme eurounitarie è
riservata alla Corte di Giustizia, le cui pronunce hanno carattere vincolante
per il giudice nazionale perché a tali sentenze, siano esse pregiudiziali o
emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il
valore di ulteriore fonte del diritto della Unione Europea, non nel senso che
esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il
significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito
dell’Unione (cfr. Cass. n. 22558/2016);

4. ai principi sopra richiamati si è correttamente
attenuta la Corte territoriale la quale, come evidenziato nello storico di
lite, ha accertato che nel passaggio dal precariato alla stabilizzazione la lavoratrice
(odierna controricorrente) aveva continuato a svolgere le medesime mansioni,
sicché l’unico elemento differenziazione era costituito dalla natura, a termine
e non a tempo indeterminato, del rapporto;

5. anche in questa sede l’Ente ricorrente, al netto
delle questioni nuove di cui sopra si è detto, si limita a fare leva
sull’autonomia dei singoli contratti a termine e sulla necessità di evitare
discriminazioni in danno degli assunti a tempo indeterminato (peraltro sulla
base di affermazioni generiche e prive di ogni riscontro fattuale), ossia su
circostanze che, alla luce della richiamata giurisprudenza della Corte di
Giustizia, non sono idonee a giustificare la totale esclusione dei periodi di
lavoro a tempo determinato ai fini del calcolo dell’anzianità;

6. il ricorso va, pertanto, rigettato con
conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate come da dispositivo;

7. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla I. n. 228/2012,
deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il
raddoppio del contributo unificato dovuto dalla ricorrente.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di
legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 6.000,00 per
compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in
misura del 15%.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 maggio 2020, n. 9491
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