Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 maggio 2020, n. 8793

Diniego del datore di lavoro ai permessi per l’assistenza a
familiare in condizione di handicap grave, Risarcimento dei danni non
patrimoniali per l’illiceità del diniego, Sopravvenuta carenza di attestazione
della situazione di gravità, a seguito della visita di revisione programmata,
Accertamento effettuato dalle Commissioni mediche ex art. 4, L. 104/1992

 

Considerato

 

1. Che la Corte d’Appello di Ancona, con la sentenza
n. 494 del 2013, ha rigettato l’impugnazione proposta da F.P. nei confronti
dell’Azienda sanitaria unica delle Marche (A.S.U.R.), avverso la sentenza
emessa tra le parti dal Tribunale di Ascoli Piceno.

2. Il Tribunale di Ascoli Piceno, adito dal F. nel
2009 (come esposto dall’A.S.U.R. Marche nel controricorso e non contestato dal
ricorrente), aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore nei confronti
dell’A.S.U.R. Marche, di cui era dipendente in qualità di infermiere
professionale (zona territoriale n. 13 di Ascoli Piceno), per il risarcimento
dei danni non patrimoniali per l’illiceità del diniego del datore di lavoro dei
permessi (ex lege n. 104 del 1992) per
l’assistenza alla anziana madre, in condizione di handicap con carattere di
permanenza e gravità.

3. La Corte d’Appello ha confermato la statuizione
di primo grado affermando quanto segue.

Il comportamento della datrice di lavoro non
integrava gli estremi della responsabilità contrattuale per inadempimento,
regolata dall’art. 1218 cod. civ., poiché la
fruizione legittima dei permessi è strettamente connessa e condizionata alla
permanenza dell’accertamento della situazione di gravità dell’handicap.

Nella specie, i permessi retribuiti per assistere la
madre, regolarmente attribuiti da settembre 2004 a maggio 2005, erano stati
denegati in ragione della sopravvenuta carenza di attestazione della situazione
di gravità, a seguito della visita di revisione programmata.

Ed infatti, dall’interpretazione coordinata degli artt. 33 e 4, primo comma, della legge n. 104
del 1992, si può desumere che al datore di lavoro non sia consentito
sindacare la valutazione medico-legale che spetta in via esclusiva alla
Commissione medica di cui all’art.
1 della legge n. 295 del 1990, in forma integrata (già da un operatore
sociale e da un esperto); pertanto, se da un lato la datrice di lavoro non può
mettere in discussione la connotazione di gravità accertata dalla Commissione,
allo stesso modo, il dipendente non è abilitato a richiedere i permessi
retribuiti allorquando tale connotazione non sia più riscontrata in sede di
revisione.

Si tratta di accertamenti e di valutazioni
medico-legali connotati da discrezionalità tecnica, e non riferibili
all’Azienda sanitaria ma al Ministero dell’economia e delle finanze, per cui
non è esatto qualificare la Commissione medica quale soggetto ausiliario
dell’ASL, trattandosi di soggetto terzo, investito di una pubblica funzione di
accertamento dei requisiti sanitari, sicché non è applicabile alla fattispecie
l’art. 1228 cod. civ, sulla responsabilità per
fatti dolori o colposi degli ausiliari.

In tale contesto, l’Azienda sanitaria non può
rispondere per inadempimento contrattuale neppure nella eventualità che tali
accertamenti e valutazioni tecnico-legali risultino errati, in sede di
successiva verifica, sia amministrativa che giurisdizionale, integrando tale
situazione gli estremi della causa non imputabile prevista dall’art. 1218 cod. civ., considerato che il responso
di perdita della connotazione di gravità dell’handicap, dichiarato dalla
struttura pubblica, rivelatosi successivamente errato, configura nella
fattispecie in esame, l’ipotesi dell’errore, derivato da fattori oggettivi,
scusabile alla stregua del criterio della ordinaria diligenza di cui all’art. 1176 cod. civ.

3. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre il lavoratore, prospettando due motivi di impugnazione.

4. Resiste l’A.S.U.R. con controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria in
prossimità dell’adunanza camerale.

 

Ritenuto

 

1. Che il ricorrente premette di aver fruito di tre
giorni di permesso al mese, ai sensi dell’art. 33 della legge n. 104 del
1992, per l’assistenza ai genitori, in grave stato di handicap, dal
settembre 2004 al maggio 2005, in conformità alla valutazione della Commissione
medica presso la zona territoriale n. 13 di Ascoli Piceno.

Tali permessi gli erano stati revocati dal datore di
lavoro A.S.U.R., dal giugno 2005, in quanto la Commissione medica aveva
valutato la madre come soggetto in situazione di handicap con carattere di
permanenza, e non più in condizione di gravità temporanea.

Il Tribunale di Ascoli Piceno, con la sentenza n.
498/2006, aveva, invece, riconosciuto che il congiunto versava in condizioni di
handicap con carattere di gravità, ma l’intervenuto decesso non aveva
consentito al lavoratore di fruire i permessi per prestargli assistenza.

2. Quindi, il F. agiva in giudizio, instaurando la
controversia in esame, chiedendo che la datrice di lavoro A.S.U.R Marche fosse
condannata al risarcimento del danno biologico, morale e esistenziale,
derivatogli dall’ingiusto rifiuto dei permessi di cui all’art. 33 della legge n. 104 del
1992, a cui era seguita sindrome ansioso depressiva e patema d’animo (pag.
2. punto 7 del “In fatto” del ricorso per cassazione).

3. Tanto premesso, con il primo motivo di ricorso è
dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art.
112 cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello pronunciato su una
eccezione prospettabile solo dalla parte.

Assume il lavoratore che la A.S.U.R. Marche non
aveva mai sollevato eccezione in merito alla propria irresponsabilità per
eventuali errori della Commissione medica presso di essa costituita, produttivi
di danno non patrimoniale, ma aveva difeso il proprio operato e giudizio in
tema di gravità o meno dell’handicap, e contestato il nesso eziologico invocato
dal ricorrente F. tra diniego di permessi e insorgenza di danno biologico.

La Corte d’Appello, decidendo la causa in base ad
una eccezione non formulata dalla parte, aveva operato in contrasto con l’art. 112 cod. proc. civ.

4. Il motivo è inammissibile.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata
nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo,
rispetto al quale la Corte è giudice del «fatto processuale», l’esercizio del
potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle
regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in
nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del
giudice di legittimità ( Cass. S.U. n. 8077/2012).

La parte, quindi, non è dispensata dall’onere di
indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato
e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il
rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di
Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in
condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere
solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (Cass. n.
15367/2014; Cass. n. 21226/2010).

Dal principio di diritto discende che, qualora, come
nella fattispecie, il ricorrente denunci un vizio di ultrapetizione della
sentenza di appello rispetto alle eccezioni dell’appellata, la censura potrà
essere scrutinata a condizione che vengano riportati nel ricorso, nelle parti
essenziali, le eccezioni formulate dalla parte resistente in primo grado, la
motivazione della sentenza di primo grado, nonché le eccezioni formulate
nell’atto di costituzione della parte appellata.

Non è, invece, sufficiente che il ricorrente assolva
al distinto onere, peraltro non ottemperato, previsto, a pena di
improcedibilità, dall’art. 369 n. 4 cod. proc. civ.,
indicando la sede nella quale l’atto processuale è reperibile, perché l’art. 366 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 5 del d.lgs. n. 40 del 2006,
richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi
necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità
di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere
l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai
fini dell’accoglimento del ricorso (fra le più recenti, sulla non
sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28.9.2016 n. 19048).

I predetti oneri non sono stati assolti

5. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione degli artt. 33 e 4, primo comma, della legge n. 104
del 1992, e dell’art. 1 della
legge n. 295 del 1990, in ordine alla riferibilità alla A.S.U.R. Marche
degli errori eventualmente commessi dalla Commissione medica in sede di
valutazione della situazione di handicap.

Il lavoratore contesta la statuizione della Corte
d’Appello e

l’applicazione delle suddette disposizioni, atteso
che in tal modo sarebbe disconosciuto un diritto soggettivo senza possibilità
di reintegrazione della sua perdita.

La Commissione medica, in ragione di
un’interpretazione conforme a Costituzione, va considerata organo ausiliario
della ASL (A.S.U.R.) che, infine, emette l’eventuale provvedimento di revoca, e
che nella specie era il datore di lavoro.

La funzione pubblica svolta dalla Commissione
medica, di accertamento dei requisiti sanitari, nulla toglie al carattere
interno della stessa rispetto al procedimento di riconoscimento o revoca del
beneficio, così da risultare l’attività della stessa imputabile alla ASL
(A.S.U.R. Marche).

Infine, osserva il ricorrente che la controversia,
atteso, tra l’altro, la valutabilità in via equitativa del danno morale ed
esistenziale, potrebbe essere decisa nel merito, ex art.
384 cod. proc. civ.

6. Il motivo non è fondato.

7. Questa Corte ha affermato che (Cass., n. 8436 del 2003) le agevolazioni indicate
nell’art. 33 della legge n.
104 del 1992 costituiscono forme di intervento assistenziale riconosciute
ai soggetti affetti da handicap “sub specie” di agevolazioni concesse
a persone che di tali individui si occupano, e ha affermato il principio che
allorché presupposto per la concessione di una agevolazione diretta o indiretta
in favore dell’handicappato, è la sussistenza o meno di una situazione di
handicap, tale situazione deve essere accertata con lo strumento specifico
indicato dalla legge, cioè l’accertamento effettuato dalle Commissioni mediche
di cui all’art. 4 della legge
104 del 1992, ferma restando la possibilità di contestare nelle sedi
competenti la loro determinazione.

Ed infatti, la legge 5 febbraio 1992 n. 104,
all’art. 4, primo comma, ha previsto che gli accertamenti relativi alla
minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell’intervento assistenziale
permanente e alla capacità complessiva individuale residua, di cui all’art. 3, sono effettuati dalle
unità sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all’art. 1 della legge 15 ottobre 1990,
n. 295.

8. Tanto premesso si rileva che la disciplina
richiamata dal ricorrente va esaminata precisando il contenuto dell’art. 1 della legge n. 295 del 1990,
e coordinandola, in particolare, con ulteriori disposizioni normative.

8.1. L’art.
1, commi 1 e 2, della legge n. 295 del 1990, sancisce che gli accertamenti
sanitari sono effettuati dalle ASL (in precedenza USL), ove operano una o più
Commissioni mediche incaricate di effettuare gli stessi.

I commi 7 e 8, del citato art. 1, stabiliscono che i
verbali di visita delle Commissioni sono trasmessi dalle ASL alla competente
Commissione medica periferica per le pensioni di guerra e d’invalidità civile,
che se non li condivide può disporre ulteriori accertamenti o procedere a
visita diretta.

Tale Commissione è organismo collegiale
organicamente e funzionalmente dipendenti dal Ministero dell’economia e delle
finanze.

Contro gli accertamenti sanitari effettuati dalle
ASL, e contro gli eventuali accertamenti effettuati dalla commissione medica di
verifica, gli interessati possono presentare, entro sessanta giorni ricorso al
Ministro dell’economia e finanze (in precedenza Ministero del tesoro).

Avverso la decisione è ammessa la tutela
giurisdizionale dinanzi al giudice ordinario.

8.2. In proposito, si può ricordare che, ai sensi
dell’art. 147, comma 1, disp. att. cod. proc. civ.,
le cd. collegiali mediche sono prive di qualsiasi efficacia vincolante,
sostanziale e processuale, dovendosi ritenere, anche alla luce dell’art. 1 della legge n. 295 del 1990,
la natura non provvedimentale degli accertamenti sanitari, in quanto
strumentali e preordinati all’adozione del provvedimento di attribuzione della
prestazione, in corrispondenza di funzioni di certazione assegnate alle
indicate commissioni (Cass., 16569 del 2015, n. 7548 di 2006).

Questa Corte, a Sezioni Unite (Cass., S.U., n. 22550 del 2014), ha affermato
(pronunciando in materia di giurisdizione, devoluta al giudice ordinario), che
tali Commissioni non hanno poteri autoritativi e i loro giudizi esprimono
discrezionalità tecnica, non amministrativa. Le stesse pervengono alle relative
conclusioni assumendo a base le cognizioni della scienza medica e
specialistica.

8.3. Il D.M. 5 agosto 1991, n. 387 ha poi chiarito e
confermato, disciplinando il relativo procedimento, come il verbale delle
Commissioni mediche ASL dovesse essere sottoposto al vaglio della Commissione
medica periferica.

8.4. L’art.
10 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con
modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248,
ha quindi stabilito (art. 1,
commi 1 e 2), che l’I.N.P.S. subentrava nell’esercizio delle funzioni residuate
allo Stato in materia di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo,
handicap e disabilità.

Con successivi d.P.C.m. sarebbe stata stabilita la
data di effettivo esercizio da parte dell’I.N.P.S. delle funzioni trasferite,
individuando le risorse, umane, strumentali e finanziarie da trasferire.

A decorrere dalla data di effettivo esercizio da
parte dell’I.N.P.S. delle funzioni trasferite, gli atti introduttivi dei
procedimenti giurisdizionali in materia di invalidità civile, cecità civile,
sordomutismo, handicap e disabilità, nonché le sentenze ed ogni provvedimento
reso in detti giudizi avrebbero dovuto essere notificati [anche] (parola
soppressa dalla legge 102 del 2009) all’I.N.P.S.

8.5. Il D.M. 30 marzo
2007, di attuazione del suddetto art.
10, ha quindi stabilito (art.
1) che a decorrere dal 1° aprile 2007, l’I.N.P.S. subentrava nell’esercizio
delle suddette funzioni trasferite, e nei rapporti giuridici relativi alle
stesse.

L’art.
2 del suddetto D.M. 30 marzo 2007, a sua volta, ha sancito che veniva
trasferito all’I.N.P.S. il contingente di personale, appartenente al ruolo
unico del Ministero dell’economia e delle finanze ed in servizio presso le
Commissioni mediche di verifica.

L’art. 5 del D.M. 30
marzo 2007 ha poi previsto: al comma 1: “i verbali trasmessi dalle ASL
a decorrere dalla data del 1° aprile 2007 sono esaminati dall’I.N.P.S.”; e
al comma 2: “I verbali trasmessi anteriormente alla data di cui al comma
1, la cui trattazione non sia ancora definita alla data del 31 luglio 2007,
sono presi in carico dall’I.N.P.S.”. W

8.6. Può poi ricordarsi che la legge 3 agosto 2009, n. 102 che, all’art. 20, ha stabilito, tra
l’altro, che le Commissioni mediche delle ASL sono integrate da un medico
dell’I.N.P.S. quale componente effettivo.

9. Dal quadro normativo sopra delineato risulta che
il verbale di visita delle Commissioni mediche istituite presso le ASL diventa
definitivo, potendo peraltro costituire oggetto di impugnazione, solo in esito
alla valutazione condivisa da parte, in un primo tempo, delle Commissioni
mediche di verifica del Ministero dell’economia e finanze, e poi dell’I.N.P.S.,
potendo quest’ultimi, in caso di mancata condivisione, richiedere nuovi
accertamenti e procedere a visita diretta e alla redazione del verbale. Gli
stessi sono i soggetti ai quali, ratione temporis, va riferito l’accertamento
finale, contraddittori in sede di impugnazione giurisdizionale del verbale di
visita.

Dunque, le Commissioni mediche che operano nella ASL
ai sensi dell’art. 1 della legge
n. 295 del 1990, cui compete la visita di prima istanza, nell’esercizio di
tale funzione non sono organi ausiliari della ASL (A.S.U.R. Marche), atteso che
l’attività di accertamento sanitario che svolgono si inserisce in un più
articolato procedimento il cui esito va riferito al Ministero dell’economia e
finanze, e poi, in ragione dell’art.
10 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con
modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248,
all’I.N.P.S.

10. Nella specie, poiché il perdurare del
riconoscimento dei permessi ex lege 104 del 1992,
presupponeva, in sede di revisione, la favorevole certazione tecnica della
Commissione medica presso la ASL, non è ravvisabile inadempimento contrattuale
della A.S.U.R. datore di lavoro, che quanto al presupposto sanitario doveva
necessariamente, ex lege, avvalersi dell’accertamento sanitario della
Commissione medica stessa, come definitosi, ratione temporis, all’esito della
valutazione della Commissione medica di verifica del Ministero dell’economia e
finanze.

11. Quanto alla coincidenza in capo all’A.S.U.R.
Marche della figura di datore di lavoro e di ASL ove siede la Commissione
medica (cui fa cenno il ricorrente nel primo periodo di pag. 6 del ricorso),
oltre a rilevare che l’A.S.U.R. è stata convenuta in giudizio quale datore di
lavoro, per responsabilità contrattuale (si veda punto 7 a pag. 2 del ricorso
per cassazione), va richiamato quanto sopra si è illustrato con riguardo alla
riferibilità non alla ASL (A.S.U.R. Marche) ma al Ministero dell’economia e
finanze o all’I.N.P.S. dell’accertamento sanitario (nel caso in esame, come si
è affermato, al Ministero dell’economia e finanze, ratione temporis).

12. Né, nella specie, argomenti possono desumersi
dalla sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 498/2006 atteso che il
lavoratore non riproduce le parti del giudizio, né le motivazioni, né indica il
luogo di produzione della stessa nel giudizio.

13. Il ricorso deve essere rigettato.

14. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

15. Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 4.500,00 per compensi
professionali, oltre euro 200,00, per esborsi, spese generali in misura del 15%
e accessori di legge.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 maggio 2020, n. 8793
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