Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 maggio 2020, n. 8950

Cessione del rapporto di lavoro, Ripristino del rapporto in
capo alla cedente, Azione risarcitoria intentata dagli appellanti, Fatti
integranti il cd. aliunde perceptum e/o percipiendi idonei ad elidere o
diminuire il danno, Non sussiste, Rapporto con il destinatario della
cessione, instaurato in via di mero fatto, Vicende risolutive dello stesso non
sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere

 

Rilevato che

 

1. Il Tribunale di Bologna accoglieva i ricorsi in
opposizione proposti da T. Italia s.p.a. e, per l’effetto, revocava i decreti
ingiuntivi ottenuti da A.A.B., P.C. e D.T. per il pagamento, rispettivamente,
di € 17810,02, € 13720,63, € 15.187,21 sulla base di sentenza n. 129/2012 della
Corte d’appello di Bologna, passata in giudicato, che aveva dichiarato la
nullità della cessione del loro rapporto di lavoro ad HP DCS ed ordinato il
ripristino del rapporto di lavoro in capo alla cedente T. Italia s.p.a., cui i lavoratori
avevano, con lettera del 6.4.2012, inutilmente offerto la loro prestazione di
lavoro. Il Tribunale poneva a fondamento di detta revoca la circostanza,
incontestata, che i lavoratori avevano continuato a prestare attività
lavorativa alle dipendenze della società cessionaria, da cui erano stati
regolarmente retribuiti, e l’ulteriore considerazione che non era stato assolto
dai predetti l’onere probatorio relativo ad eventuali danni sofferti per avere
percepito somme inferiori rispetto alla retribuzione che sarebbe loro spettata
alle dipendenze della cedente;

2. la Corte d’appello di Bologna, con sentenza del
19.8.2016, accoglieva il gravame dei lavoratori, sul rilievo che gli stessi non
avevano continuato a prestare attività lavorativa alle dipendenze della società
cessionaria dalla quale non erano stati retribuiti con riferimento ai periodi
dedotti in causa, essendo cessati i relativi rapporti di lavoro per dimissioni,
collocamento in mobilità, risoluzione consensuale incentivata in epoca
addirittura antecedente alla emissione della sentenza 129/2012;

2.1 la Corte qualificava come risarcitoria l’azione
intentata dagli appellanti e riteneva che non fossero emersi fatti integranti
il cd. aliunde perceptum e/o percipiendi idonei ad elidere o diminuire il danno.
Per la B. e per il T., in particolare, non potevano essere portate in
detrazione le somme percepite a titolo di indennità previdenziali alla stregua
di consolidato orientamento di legittimità, né erano stati forniti elementi che
consentissero di trasmettere gli atti al competente Istituto previdenziale;

2.2. anche le modalità di risoluzione del rapporto
con la cessionaria dovevano, secondo la Corte, considerarsi irrilevanti ai fini
voluti, in quanto il rapporto con quest’ultima era di mero fatto, come tale
inidoneo ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere e rimasto in vita
con il solo cedente, sebbene quiescente di fatto per effetto della illegittima
cessione fino alla declaratoria giudiziale di nullità della stessa;

3. di tale decisione domanda la cassazione la s.p.a.
T. Italia, affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resistono, con
controricorso, i lavoratori che hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo, la società denunzia
violazione degli artt. 2112 e 2126 c.c. nella parte in cui la sentenza impugnata
ha ritenuto che la condotta dei lavoratori che avevano prestato il proprio consenso
alla risoluzione del rapporto di lavoro con la cessionaria fosse irrilevante
per l’odierno giudizio: richiama orientamento di legittimità in forza del quale
il diritto al risarcimento del danno in favore dei lavoratori non sussiste
qualora gli stessi abbiano accettato l’estinzione dell’unico rapporto di
lavoro, di fatto proseguito con l’impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a
quest’ultima un verbale di messa in mobilità, situazione equiparabile a quella
che aveva interessato la posizione dei tre lavoratori; sostiene che la
estinzione è il risultato di una manifestazione di volontà del medesimo
lavoratore, che non può pretendere il pagamento di una controprestazione
retributiva per un rapporto il cui sinallagma genetico sia stato consensualmente,
ovvero addirittura unilateralmente, risolto;

2. con il secondo motivo, la ricorrente deduce
nullità della sentenza, in relazione all’art. 360,
n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 112 c.p.c.,
nella parte in cui la Corte territoriale ha dichiarato il diritto dei
lavoratori al risarcimento del danno, quando i lavoratori avevano richiesto il
pagamento delle retribuzioni, sostenendo che la Corte d’appello non si è
limitata ad interpretare la domanda giudiziale, ma ne ha operato una totale
trasmutazione, poiché i lavoratori avevano espressamente qualificato la loro
azione in termini di adempimento per ottenere la controprestazione, non potendo
nutrirsi dubbi sul fatto che gli stessi avessero qualificato la loro azione
quale di adempimento della prestazione;

3. con il terzo motivo, ascrive alla decisione
impugnata violazione e/o falsa applicazione degli artt.
1206, 1207, 1217,
1223, 1256, 1453 e 1463 c.c.
nella parte in cui la stessa non ha rilevato l’assenza di danno differenziale
in ragione dell’incentivo all’esodo percepito dalla B. e dal T. ed ha ritenuto
che le indennità di mobilità, assistenziali e previdenziali non siano
deducibili a titolo di aliunde perceptum;

4. il ricorso è infondato;

5. in ordine al primo motivo, è sufficiente
osservare come il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in
via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee
ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente,
sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale
(così Cass. 29092/2019);

6. con riguardo alle censure formulate nel secondo
motivo, va considerato che i fatti posti a fondamento della domanda sono
rimasti gli stessi e peraltro vanno richiamati i pertinenti principi affermati
da Cass. 29092/2019, che ha evidenziato come
debba essere ritenuta la natura retributiva e non più risarcitoria dei crediti
che il lavoratore ha ingiunto in pagamento a T. Italia s.p.a. a titolo di
emolumenti allo stesso dovuti per effetto del mancato ripristino del rapporto
da parte della società predetta in seguito a declaratoria dell’illegittimità
della cessione di azienda, (come invece secondo un indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n. 19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018, n. 16694) sulla scorta
dell’insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte
(sent. 7 febbraio 2018, n. 2990). Quest’ultima pronuncia ha affermato il
seguente principio; “in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga
accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del
committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le
retribuzioni, …, a decorrere dalla messa In mora”; “a tale indirizzo
è stato riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto dalla Corte
costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019,
n. 29, anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo
d’azienda”;

6.1. ciò denota anche la mancanza di un interesse
alla censura, poiché, pure in caso di denuncia di un errore di diritto ex art. 360, n. 3, c.p.c., l’interesse ad impugnare
con il ricorso per cassazione discende dalla possibilità di ottenere,
attraverso il richiesto annullamento della sentenza impugnata, un risultato
pratico favorevole (Cass. 14878/2018, con
richiamo a Cass. n. 11731 del 27/05/2011, n. 14279 del 08/06/2017), nella
specie non conseguibile per le svolte considerazioni;

7. quanto al terzo motivo, che denota profili di
inammissibilità per non essere stata oggetto di censura una delle due rationes
decidendi (“genericità della deduzione con riguardo all’arco di tempo, non
lungo, interessato dal presente giudizio”), va richiamata ulteriormente Cass. 29092/2019 per una ricostruzione
sistematica della fattispecie: “Acclarato che dopo la sentenza che ha
dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda,
in uno alla messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa
(già) cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno, non vi è
norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione
pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento
della retribuzione da parte dell’impresa originaria destinataria della
cessione. 8.1. Invero la più approfondita disamina giuridica qui svolta induce
al superamento di un primo orientamento di ritenuta detraibilità, dal credito
retributivo spettante al lavoratore validamente offerente all’originario datore
la propria prestazione ingiustificatamente rifiutata, della retribuzione
percepita dal datore (già cessionario), sul presupposto dell’unicità di
prestazione lavorativa e di obbligazione, con la qualificazione del relativo
pagamento alla stregua di un adempimento del terzo, a norma dell’art. 1180 c.c. (Cass., sez. VI, 31 maggio 2018, n.
14019; Cass., sez. VI, 1 giugno 2018, n. 14136:
p.to 6 in motivazione).”…

“Sicché l’esistenza di un debito proprio,
generato dall’obbligo di retribuire le prestazioni del lavoratore ceduto di cui
ha concretamente fruito, esclude in radice la possibilità di configurare un
adempimento in qualità di terzo da parte del destinatario dell’originaria
cessione”.

7.1. pertanto, in caso di cessione di ramo
d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato
che non ricorrono i presupposti di cui all’art.
2112 cod. civ., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario
della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore
successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in
favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte,
dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza
giustificazione, la controprestazione lavorativa; non si pone, dunque, più un
problema di compensano lucri cum damno per ogni ipotesi di aliunde perceptum,
una volta escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo
risarcitorio, titolo su cui si fonda la detraibilità dell’aliunde perceptum dal
risarcimento (così Cass. 29092/2019 cit.);

7.2. a ciò va aggiunta la considerazione che altro è
il caso delle conseguenze risarcitone specificamente previste per il
licenziamento illegittimo, in cui, nella ricostruzione delle Sezioni unite
2990/2018, la disciplina che ascrive all’area del risarcimento del danno le
indennità dovute dal datore di lavoro si configura in termini derogatori e
peculiari;

8. il ricorso va, pertanto, respinto;

9. le spese del presente giudizio di legittimità
vanno compensate tra le parti, per la intervenuta rivisitazione dell’indirizzo
giurisprudenziale sulla questione in periodo contiguo al deposito del presente
ricorso;

10. ai sensi dell’art. 13 c. 1 quater del D.P.R. n. 115
del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, ove
dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese
del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma
1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1 bis, del citato
D.P.R., ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 maggio 2020, n. 8950
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