Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 maggio 2020, n. 9800

Verbale di transazione/conciliazione, Incerta quantificazione
con riguardo al lordo o al netto degli oneri fiscali, Misura del carico
fiscale, Ritenute fiscali non detraibili dal debito per differenze retributive
– Effettivamente percezione delle differenze retributive, Assoggettamento a
tassazione, secondo il criterio cd. di cassa

 

Rilevato che

 

1. Nella impugnata sentenza della Corte di appello
di Palermo, n. 447 del 2016, si legge che la L.A. spa aveva proposto
opposizione avverso l’atto di precetto di euro 38.485,51 intimatole da G.A. –
in forza del verbale di transazione/conciliazione, stipulato in data 4.2.2000,
che recava la promessa della società, a titolo di incentivo all’esodo, di
corrispondere al lavoratore l’importo forfettario ed una tantum di lire
120.000. 000 (del vecchio conio) – contestando la forza esecutiva del suddetto
verbale in relazione alla somma richiesta, di incerta quantificazione con
riguardo al lordo o al netto degli oneri fiscali, nonché con riferimento alla
consistenza della maggior misura del carico fiscale degli importi rispetto a
quelli che, in quanto assoggettati a tassazione separata, erano stati versati
quale sostituto di imposta, salva rivalsa nei confronti del lavoratore
sostituito.

2. In particolare, la conciliazione prevedeva che la
società corrispondesse la somma di lire 120.000.000 di cui, quanto a lire
30.000.000 al momento della sottoscrizione, e il restante importo di lire
90.000.000 alle scadenze precisate nell’atto dal 31.3.2000 al 30.11.2000.

3. Le questioni giudiziali sollevate con
l’opposizione riguardavano se l’importo di ire 120.000.000 dovesse considerarsi
al lordo o al netto degli oneri fiscali e se la ritenuta operata dalla società,
in relazione alle somme versate, di importo ridotto fosse errata per cui era
legittima la richiesta di differenza, indicata nell’atto di precetto
relativamente alla ritenuta di corretto ammontare effettivamente dovuta con
riguardo alla posizione del lavoratore.

4. Nel contraddittorio delle parti l’adito Tribunale
di Palermo accoglieva l’opposizione ritenendo che, dalla lettura della
scrittura conciliativa, le somme concordate dovevano reputarsi quantificate al
lordo degli oneri fiscali.

5. Proposto appello da G.A., la Corte di appello di
Palermo, con la sopra indicata sentenza, precisava che: a) dal significato da
attribuire alle dichiarazioni negoziali trasfuse nella scrittura doveva
considerarsi determinato come “netto” e non “al lordo” delle
imposte, soggette a ritenuta da parte dei datore di lavoro tenuto a versarle
all’erario quale sostituto di imposta; b) ciò tuttavia non spostava i termini
del problema né sotto il profilo della legittimità dell’intimato precetto,
trattandosi comunque di obbligazione pubblicistica esposta nei confronti
dell’erario e non direttamente azionabile da parte del privato, né sotto il
profilo della aliquota giuridicamente applicabile (media come richiesta dal
lavoratore, o minima come effettuato dalla società, rilevante unicamente per il
risvolto patrimoniale costituito dalla perdita economica ricaduta sul
contribuentelavoratore, destinatario di una cartella esattoriale nascente dalla
liquidazione definitiva dell’onere fiscale, chiamato a versare una differenza
di imposta dallo stesso non dovuta in conformità dei patti stipulati) perché
ciò che assumeva rilevanza era la circostanza che non era stata fornita la
prova del pregiudizio in concreto patito in quanto non era stato documentato
l’esborso sofferto a causa dell’inadempimento di controparte.

6. Concludeva, pertanto, la Corte di merito
affermando che, in parziale riforma della sentenza di prime cure, fosse
rigettata anche la domanda di condanna formulata dall’opposto nella memoria di
primo grado.

7. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto
ricorso per la cassazione G.A., affidato a tre motivi, successivamente
illustrati con memoria.

8. L’intimata società non ha svolto attività
difensiva.

9. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo parte ricorrente denuncia la
violazione dell’art. 474 cpc, in combinato
disposto con gli artt. 1362 e ss cod. civ. e 3, 16 (17) DPR n. 917 del 1986 nonché 23 e 64 DPR n. 600 del 1973, ai sensi
dell’art. 360 n. 3 cpc, perché la Corte
territoriale, pur avendo affermato la correttezza della tesi sostenuta in sede
di appello, limitatamente al fatto che l’importo di cui al verbale di
conciliazione dovesse essere inteso al netto degli oneri fiscali e che
l’aliquota da applicare alla società, quale sostituto di imposta, doveva essere
tale da garantire l’attribuzione di un importo netto a quello pattuito, aveva
tuttavia erroneamente escluso la legittimità del precetto intimato sia per la
ravvisata natura pubblicistica della obbligazione intercorrente tra sostituto
di imposta ed erario e non direttamente azionabile da parte del privato
creditore, sia sotto il profilo della liquidità della pretesa erariale non
avendo ritenuto provato l’esborso richiesto con la cartella esattoriale che
costituiva il pregiudizio economico patito. Si deduce, quindi, in sintesi, che
la sentenza impugnata aveva errato nel ritenere non compreso nel titolo
esecutivo il diritto di agire esecutivamente per conseguire l’importo netto
convenuto attraverso la corretta quantificazione dell’importo lordo
corrispondente e attraverso la sua acquisizione coattiva e assoggettamento a
commisurata imposizione fiscale, secondo l’assetto contrattualmente voluto.

2. Con il secondo motivo si censura la violazione
dell’art. 112 cpc, ai sensi dell’art. 360 n. 4 cpc, per non essersi la Corte di
merito pronunciata – in conseguenza della mancata considerazione o del
travisamento della istanza giudiziale avendo affermato che “il lavoratore
non aveva fornito la prova del pregiudizio in concreto in quanto non aveva
documentato l’esborso sofferto a causa dell’inadempimento di controparte”
– sulla domanda avanzata in via subordinata di condanna della società al
pagamento delle somme portate dal precetto per residuo TFR netto e residua
imposta corrispondente al TFR netto, non valutando che la condanna
all’adempimento era fondata sulla obbligazione nascente dall’accordo
conciliativo e non da un ipotetico diritto al ristoro o alla ripetizione per
esborso.

3. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 91 cpc perché “in considerazione del
rilievo che le spese avrebbero dovuto seguire la soccombenza, appare degno di
cassazione anche il capo relativo alla compensazione delle spese di
giudizio”.

4. Il ricorso non è meritevole di accoglimento come
già deciso da questa Corte (sentenza n. 23296 del 2018), in fattispecie
sovrapponibile a quella per cui si procede, con argomentazioni pienamente condivisibili.

5. I primi due motivi, da valutarsi congiuntamente
in quanto connessi, non sono fondati.

6. Deve premettersi che, come riconosciuto dalla
stessa parte ricorrente, la Corte di appello ha disatteso la motivazione
assunta dal Tribunale ritenendo che dal contenuto dell’accordo transattivo
dovesse desumersi che l’intento dei paciscenti fosse quello di assicurare al
lavoratore l’incasso della somma netta di lire 90 milioni che era stata
concordata.

7. Costituisce orientamento consolidato di questa Corte
nella materia in esame quello secondo il quale le ritenute fiscali non possono
essere detratte dal debito per differenze retributive, giacché la
determinazione di esse attiene non al rapporto civilistico tra datore e
lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed Erario, e dovranno
essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che questi abbia effettivamente
percepito delle differenze retributive dovutegli (Cass.
n. 19790 del 2011; Cass. n. 3525 del 2013;
Cass. n. 21010 del 2013; Cass. n. 18044 del 2015). Solo in tale momento,
infatti, il lavoratore le vedrà assoggettate a tassazione, secondo il criterio
cd. di cassa e non di competenza, facultato oltretutto a scegliere modalità di
applicazione più favorevoli in rapporto al carattere eccezionale della fonte di
reddito nel caso concreto (Cass. n. 21010 del 2013).

8. Ne consegue che corretta è la valutazione operata
dal giudice di merito, secondo la quale l’obbligazione tributaria non
intercorre tra lavoratore e datore di lavoro, ma tra questi e l’Erario: il
lavoratore può dunque agire nei confronti del datore di lavoro per l’adempimento
dell’obbligo che questi si sia eventualmente assunto di tenere indenne il
dipendente dai pesi fiscali (come la Corte di merito ha ritenuto nel caso in
essere stato pattuito), solo dopo che vi sia stata da parte dell’erario o nella
sede tributaria competente la precisa determinazione del dovuto.

9. Nel caso, la Corte riferisce che l’azione
erariale di recupero è stata gravata dai due gradi di ricorso tributario e che
il ricorrente non ha dimostrato avere pagato all’erario quanto da lui richiesto
al datore di lavoro con l’intimato precetto, e la correttezza di tali
affermazioni non è stata revocata in dubbio, sicché in definitiva l’asserito
creditore neppure ha allegato l’inadempimento o l’inesatto adempimento
(allegazione su di lui gravante cfr. Cass. n. 13533 del 2001) non risultando
che vi sia stata nella sede competente l’esatta determinazione di quanto dovuto
al fisco sull’importo convenuto in transazione, né che vi sia stata una
effettiva insufficienza degli importi già versati dal datore di lavoro a titolo
di sostituto di imposta, né tanto meno che vi sia stato per lui un danno.

10.  Il terzo
motivo è inammissibile perché con esso non viene denunciato uno dei vizi tipici
previsti dall’art. 360 cpc, bensì si chiede che
venga cassata la sentenza anche nella parte in cui era stata disposta la
compensazione delle spese di lite, dovendo le stesse seguire la soccombenza
accertata sulla base della fondatezza dei primi due motivi.

11. Trattasi, infatti, di valutazione eventualmente
da adottare dal giudice di rinvio quale conseguenza del riesame
dell’impugnazione e non di statuizione da affermare in sede di legittimità.

12. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve,
pertanto, essere rigettato.

13. Nulla va disposto in ordine alle spese del
presente giudizio, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

14. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, nel testo risultante dalla legge
24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti
processuali, sempre come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Nulla spese. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

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