Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 maggio 2020, n. 10224

Illegittimità del licenziamento, Contestazioni disciplinari,
Sostituzione della misura degli arresti domiciliari con quella dell’obbligo di
dimora, Possinilità per il procedimento disciplinare già sospeso, di essere
riattivato e concluso anche in pendenza del procedimento penale, Piena
autonomia tra la valutazione da compiersi in sede disciplinare e quella del
procedimento penale

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Venezia, con sentenza n.
420/2018, decidendo sul reclamo proposto da S.M.P. nei confronti dell’Agenzia
delle Entrate, confermava la pronuncia del Tribunale che aveva respinto la
domanda dell’opponente P. intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità
del licenziamento intimatogli dall’Agenzia.

2. Il licenziamento aveva fatto seguito a tre
contestazioni disciplinari. Di tali contestazioni il Tribunale aveva ritenuto
generica quella del 22/12/2014 (che aveva tratto spunto da notizie di fonte
giornalistica inerenti l’attività di acquisto e spaccio di sostanze
stupefacenti) ed invece idonee a sostenere la legittimità del licenziamento
quella del 26/3/2015 (che richiamava il contenuto dell’ordinanza del GIP di
Venezia con cui era stata sostituita al P. la misura degli arresti domiciliari
con quella dell’obbligo di dimora) e quella del 14/12/2015 (con cui si
addebitavano al P. specifici fatti di acquisto e cessione di sostanza
stupefacente, il possesso di un coltello a serramanico, oggetto di applicazione
della pena di sei mesi di reclusione ed euro 1.600,00 di multa con il beneficio
della sospensione condizionale ed altri comportamenti, tra cui dichiarazioni
non veritiere).

3. Escludeva la Corte territoriale la tardività
delle contestazioni di addebito e la conseguente decadenza dall’azione
disciplinare valorizzando non la data in cui il fascicolo penale era stato
posto a disposizione dell’Agenzia ma quella in cui era stata ultimata la
duplicazione di detto fascicolo.

Riteneva che il procedimento disciplinare già
sospeso potesse essere riattivato e concluso anche in pendenza del procedimento
penale stante il divieto di deroghe da parte della contrattazione collettiva a
quanto disposto dall’art.
55 del d.lgs. n. 165/2001 novellato restando la discrezionalità nel
procedere esclusa solo dall’ipotesi in cui fosse intervenuta sentenza penale,
discrezionalità affidata, nel suo concreto esercizio, al solo limite generale
della buona fede e correttezza che si esprime attraverso l’esercizio del potere
di riattivazione non in modo arbitrario.

Rilevava che la gravità dei fatti contestati non
avesse formato oggetto di specifico rilievo da parte del reclamante ed in ogni
caso evidenziava la sussistenza di una piena autonomia tra la valutazione da
compiersi in sede disciplinare e quella del procedimento penale (irrilevante
essendo lo sconto di pena premiale previsto dall’art.
444 cod. proc. pen. di cui il P. aveva beneficiato) trattandosi, nella
specie, di fatti gravi, da valutarsi unitariamente, espressivi di una
sostanziale inaffidabilità del dipendente.

4. Contro la sentenza S.M.P. ha proposto ricorso per
cassazione con tre motivi.

5. L’Agenzia delle Entrate ha depositato atto di
costituzione ai fini della partecipazione all’udienza di discussione.

6. Il ricorrente ha depositato memoria.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la
falsa applicazione dell’art. 55-ter,
comma 1, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 in relazione alla modificazione
introdotta dall’art. 14, comma 1,
lett. A), del d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 (art.
360, n. 5, cod. proc. civ.).

Sostiene che la Corte territoriale avrebbe
erroneamente ritenuto legittima la riattivazione del procedimento disciplinare
in pendenza di quello penale.

Evidenzia che il nuovo testo dell’art. 55-ter era entrato in vigore
dopo la riattivazione del procedimento disciplinare e persino dopo il
licenziamento mentre la precedente versione della norma, ratione temporis
applicabile, prevedeva che la sospensione del procedimento disciplinare, pur
inizialmente facoltativa, una volta adottata, dovesse necessariamente durare
‘fino al termine di quello penale’, non essendo consentita, prima, alcuna
riattivazione.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia
nullità sentenza sotto il profilo della omessa pronuncia sulla domanda di
annullamento del licenziamento per violazione dell’art. 67, comma 6, lett. B) c.c.n.I.
28.5.2004 del personale comparto agenzie fiscali (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).

Lamenta che la Corte territoriale avrebbe del tutto
ignorato il motivo di impugnazione secondo il quale, a termini della norma
pattizia, il licenziamento (con o senza preavviso), poteva essere irrogato solo
in presenza di una condanna passata in giudicato.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia
violazione dell’art. 67, comma
6, lett. B) c.c.n.I. 28.5.2004 del personale comparto agenzie fiscali (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).

Censura la sentenza impugnata per aver posto a
fondamento della decisione la disciplina di cui al d.lgs.
n. 165 del 2001 (art.
55, comma 1) ritenuta prevalente su quella pattizia laddove la salvezza
delle ipotesi previste dal contratto collettivo era stata fatta salva dallo
stesso art. 55- quater, comma 1
del medesimo d.lgs..

4. Il primo motivo è infondato.

4.1. Occorre in primo luogo considerare che l’art. 55 del d.lgs. n. 165 del
2001 (Responsabilità, infrazioni e sanzioni, procedure conciliative), già
nella versione previgente alle modifiche introdotte dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 e risultante a
seguito della sostituzione disposta dall’art. 68, comma 1, del d.lgs. 27
ottobre 2009, n. 150, prevedeva, al primo comma: «Le disposizioni del
presente articolo e di quelli seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono
norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli
1339 e 1419, secondo comma, del codice civile,
e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all’articolo 2, comma 2, alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2».

Vi era stata, dunque, da parte del legislatore della
riforma del 2009 la scelta di introdurre una disciplina normativa di rango
primario prevalente su eventuali diverse previsioni della contrattazione
collettiva.

4.2. Ciò precisato, e quanto al successivo art. 55-ter del medesimo d.lgs.,
regolante i rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale, è
necessario chiarire le caratteristiche dei poteri riconosciuti alla P.A. in
ordine alla sospensione del primo in pendenza del secondo.

4.3. Come è noto, la disciplina relativa alla
privatizzazione del rapporto di pubblico impiego e in particolare, per quanto
qui rileva, le integrazioni ad essa derivanti dal d.lgs.
n. 150 del 2009, si sono innestate su un regime, quello di cui al d.P.R. n.
5 del 1957, art. 112, che prevedeva la sospensione obbligatoria del
procedimento disciplinare in pendenza del giudizio penale, successivamente
eroso dalla possibilità per la contrattazione collettiva di disporre
diversamente (art. 74, co. 3,
d.lgs. n. 29 del 1993) ed infine soppiantato dalla disciplina legale
‘imperativa’ di cui al predetto d.lgs. n. 150 del
2009 (artt. 68-70).

4.4. L’art.
55-ter, comma 1, introdotto dal d.lgs. n. 150
cit., ed il principio di tendenziale autonomia del procedimento disciplinare da
quello penale che esso esprime, rispondono evidentemente all’esigenza di
evitare che la Pubblica Amministrazione sia costretta a lasciare impunite le
violazioni disciplinari, per un tempo anche lungo e ciò in una logica che
allontana la sanzione da uno spirito esclusivamente repressivo, ma ne manifesta
viceversa la natura di strumento di efficienza nel governo del personale.

4.5. Al contempo va, peraltro, considerato come, nel
pubblico impiego, sussista vincolo indissolubile, anche successivamente
all’adozione del provvedimento sanzionatorio (art. 55-ter, commi 1 e 2, art. 653 cod. proc. pen.), rispetto al giudicato
penale, sicché è naturale che a ciò si accompagni un sensibile grado di
discrezionalità nel valutare se condurre a termine il procedimento
disciplinare, pur a procedimento penale pendente, specialmente nei casi in cui,
avendo la sanzione (sospensione/licenziamento) effetti sulla prestazione
acquisibile medio tempore, maggiori siano anche i rischi di pregiudizio anche
patrimoniale per il datore di lavoro.

D’altra parte, il dipendente non subisce pregiudizi
dalla sospensione del procedimento disciplinare, in quanto egli si vede
assicurato ex ante un accertamento più accurato, potendo, altresì, continuare a
percepire medio tempore la retribuzione piena, fermo restando che egli ha
interesse giuridicamente tutelato a reagire rispetto ai vizi del provvedimento,
allorquando la sospensione sia disposta senza alcuna effettiva relazione
fattuale rispetto alle circostanze oggetto del procedimento penale, derivandone
in tal caso l’indebita violazione dei termini di conclusione del procedimento (art. 55-bis, comma 4, d.lgs. n. 165 del
2001).

4.6. Il quadro giuridico complessivo si definisce,
dunque, nel senso che la possibilità di sospendere il procedimento disciplinare
in presenza di fatti di maggiore gravità e nella ricorrenza di situazioni più
complesse si denota come una facoltà della Pubblica Amministrazione,
nell’interesse del buon andamento di essa ed in attuazione di un canone di
prudenza, che di tale principio è espressione e che è insito nei parametri di
complessità di accertamento o insufficienza degli elementi disponibili cui fa
riferimento la norma.

4.7. Se la sospensione è una facoltà dell’operare
della P.A., ne deriva anche la piena legittimità della scelta di riattivare il
procedimento, dapprima sospeso, anche prima della definizione del processo
penale con pronuncia irrevocabile.

Conclusione che del resto trova riscontro nel fatto
che l’art. 55-ter, co. 1, fissa
il momento ultimo («fino al termine») di durata della sospensione, ma non
esclude la ripresa in un momento anteriore, mentre d’altra parte, ove taluni
effetti siano da riconnettere soltanto all’irrevocabilità della pronuncia
penale, ciò è stato dalla medesima disposizione espressamente stabilito nei successivi
commi.

E non a caso, si osserva, il già citato d.lgs. n. 75 del 2017, n. 75, qui non applicabile
ratione temporis, ha espressamente previsto che «il procedimento disciplinare
sospeso può essere riattivato qualora l’amministrazione giunga in possesso di
elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un
provvedimento giurisdizionale non definitivo», con modifica che non solo
conferma le conclusioni qui assunte ma anche, facendo leva sulla discrezionalità,
i principi su cui esse si sono basate (si veda, in termini, Cass. 13 maggio
2019, n. 12662).

4.8. Stante, poi, la previsione di cui all’art. 55, comma 1, del d.lgs.
n. 165 del 2001 sopra ricordata, la regola generale dell’autonomia del
processo penale e del procedimento disciplinare (della quale la possibilità di
sospensione e di riattivazione è indissolubile corollario) costituisce norma
imperativa ai sensi e per gli effetti degli artt.
1339 e 1419 cod. civ., sicché non è
derogabile ad opera della contrattazione collettiva (v. in tal senso Cass. 2
gennaio 2020, n. 6).

5. Sono, poi, infondati il terzo ed il quarto
motivo, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi.

5.1. Il ricorrente assume che solo una sentenza
penale di condanna avrebbe legittimato la sanzione disciplinare del
licenziamento senza preavviso.

5.2. L’art.
67 del c.c.n.I. 28.5.2004 per il personale del comparto delle Agenzie
Fiscali, individuate dall’art. 3 c.c.n.q. 18.12.2002, prevede che il
licenziamento senza preavviso si applica in caso di «… b) condanna passata in
giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non
attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche
provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità;… d)
commissione in genere – anche nei confronti di terzi – di fatti o atti, anche
dolosi, che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza penale, sono di
gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto
di lavoro e) condanna passata in giudicato: 1. per i delitti indicati nell’art.
15, commi 1 e 4 septies, lettere a), b) limitatamente all’art. 316 del codice penale, c), ed e) della legge n. 55 del 1990 e successive modificazioni e
integrazioni; 2. quando alla condanna consegua comunque l’interdizione perpetua
dai pubblici uffici; 3. per i delitti previsti dall’art. 3, comma 1 della legge n. 97 del
2001».

Solo per le fattispecie tipizzate nelle lettere b)
ed e) il recesso viene ricollegato al passaggio in giudicato della sentenza
penale di condanna, mentre nell’ipotesi di cui alla lettera d) rileva la
gravità della condotta e l’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva è
consentita, a prescindere dalla rilevanza penale dell’azione, in relazione a
«fatti o atti anche dolosi che, pur costituendo o meno illeciti di rilevanza
penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure
provvisoria del rapporto» (Cass. 28 agosto 2018, n. 21260; Cass. 7 maggio 2019, n. 11948).

5.3. Non vi è dubbio che in detta fattispecie possa
essere sussunta anche la condotta del dipendente per cui è causa (la sentenza
impugnata ha sottolineato, ai fini della valutazione di gravità dei fatti contestati,
la specifica capacità di ‘contatto’ del P., rivelatasi attraverso lo
svolgimento di attività di approvvigionamento della sostanza stupefacente nelle
zone perimetrali della sede di lavoro con uso del parcheggio esterno, luogo al
di sopra di ogni sospetto e particolarmente protetto, con uscite dal servizio
strumentali all’attività di acquisto finalizzato alla cessione dello
stupefacente, oltre che l’abusivo utilizzo del permesso di cui alla I. n. 104 del 1992 per un parente, espressivi
della sostanziale inaffidabilità del dipendente), anche astrattamente idonea ad
integrare un delitto (come, del resto, dimostrato, con riguardo ai fatti di
cessione di acquisto e cessione a terzi di cocaina, oggetto del procedimento penale,
dalla conclusiva applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. civ., ancorché con la
riduzione prevista per il patteggiamento).

6. Da tanto consegue che il ricorso deve essere
rigettato.

7. Nulla va disposto per le spese del presente
giudizio essendosi l’Agenzia delle Entrate limitata a depositare atto di
costituzione al fine della partecipazione all’udienza di discussione non
seguito da ulteriore attività difensiva.

8. Va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre
2012, n. 228 poiché l’obbligo del pagamento dell’ulteriore contributo non è
collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto
oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o
della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione,
muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale
ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana
erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass.,
Sez., Un. n. 22035/2014).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da
parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 maggio 2020, n. 10224
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