Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 giugno 2020, n. 10414

Licenziamento collettivo, Criteri di scelta concordati in
sede di accordo collettivo, Erronea applicazione, Nessun svolgimento di
funzioni per cui il lavoratore era individuato in posizione ritenuta
eccedentaria, Comparazione con altri lavoratori in ipotesi fungibili

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n.
635/2018, ha rigettato il reclamo proposto da, C.A.I. s.p.a. nonché il reclamo
incidentale di K.C. e ha così confermato la sentenza del Tribunale di Roma che,
ritenuta sussistente la violazione dell’art. 4, comma 9, legge n. 223 del
1991, aveva annullato il licenziamento intimato il 31 ottobre 2014 da A.
C.A.I. s.p.a. e ordinato l’immediata reintegra nel posto di lavoro della C.,
con condanna della società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a
dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.

2. Gli argomenti posti a fondamento del rigetto del
reclamo proposto dalla società C.A.I. sono, in sintesi, i seguenti: la prova
testimoniale, assai lunga e articolata, è stata oggetto di peculiare e attenta
valutazione da parte del Tribunale e, contrariamente a quanto asserito dalla
società reclamante, di fatto la lavoratrice non ha mai svolto le funzioni per
le quali era stata individuata in posizione ritenuta eccedentaria, per cui la
posizione di formale inquadramento ha comportato una erronea applicazione, in
concreto, dei criteri di scelta concordati in sede di accordo collettivo; è
infondato l’assunto di parte reclamante, secondo cui avrebbe efficacia sanante
l’Accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento
collettivo, poiché tale efficacia è limitata ai vizi della comunicazione di cui
al comma 2 dell’art. 4 legge n.
223 del 1991 e non a quelli oggetto della comunicazione di cui al comma 9
del medesimo art. 4, di cui
si discute del presente giudizio; l’accoglimento dell’impugnativa del
licenziamento per violazione dei criteri di scelta ex art. 5 legge n. 223 del 1991
comporta, come correttamente ritenuto dal primo giudice, la reintegra nel posto
di lavoro e non l’applicazione della tutela solo indennitaria per vizio
procedimentale.

3. Il rigetto del reclamo proposto da K.C. è stato
così argomentato, in sintesi: le risultanze istruttorie non hanno fornito
elementi idonei a comprovare l’asserito motivo ritorsivo o discriminatorio,
essendo il licenziamento inequivocabilmente collegato alla crisi aziendale di
C.A.I., come attestato dai diversi D. M. intervenuti in materia, all’interno di
una vasta e profonda operazione di mutamenti organizzativi della compagine
aziendale; è da confermare il rigetto della domanda di reintegra presso la
società cessionaria A. – A. S.A.I.), in quanto:

a) la lavoratrice, lamentando la sua esclusione del
passaggio da C.A.I. s.p.a. alla cessionaria A. S.A.I. s.p.a., avrebbe dovuto
impugnare, ai sensi dell’art. 32,
comma 4, legge n. 183 del 2010, l’atto di cessione di azienda nel termini
di decadenza, mentre ciò non è avvenuto, per cui l’omessa specifica impugnazione
preclude la possibilità di intervenire sulla stessa e sulla legittimità o meno
dell’esclusione della posizione della ricorrente dall’operazione di cessione;

b) in ogni caso, la pretesa è infondata anche nel
merito, poiché essa presuppone l’applicazione dell’art.
2112 c.c., mentre nel caso di specie è incontestato che con l’Accordo del
24 ottobre 2014, stipulato ai sensi dell’art. 47, comma 4-bis legge n. 428
del 1990, le parti vollero escludere dalla cessione un certo numero di
rapporti di lavoro e tra questi quello della ricorrente; in particolare, l’art. 47, comma 4-bis, legge n. 428
del 1990, nel testo modificato dall’art. 19-quater d.l. n. 135 del 2009,
conv. in legge n. 166 del 2009, prevede che,
in caso di trasferimento di azienda per la quale sia stato accertato lo stato
di crisi aziendale, qualora venga raggiunto un accordo circa il mantenimento
anche parziale dell’occupazione, l’art. 2112 c.c.
trova applicazione solo nei limiti contenuti nell’accordo medesimo;

c) nel caso in esame, lo stato di crisi risulta
espressamente riconosciuto dai Decreti del Ministero del Lavoro ed in ogni caso
emerge dagli Accordi del 12 luglio 2014 e del 24 ottobre 2014; dall’atto di
cessione del compendio aziendale dedicato all’esercizio dell’attività di
trasporto aereo in favore di A. S.A.I. s.p.a. emerge la volontà delle parti di
non estendere l’effetto successorio di cui all’art.
2112 c.c. a tutto il personale, ma di limitarlo ai rapporti specificamente
indicati, tra i quali non rientra quello con la ricorrente;

d) tale lettura non si pone in contrasto con la direttiva comunitaria 2001/23/CE proprio perché la
disposizione, riformulata in ottemperanza a quanto deciso dalla sentenza della CGUE dell’ 11 giugno 2009 (Causa
C-561/07), consente, su accordo delle parti sociali, di limitare il
trasferimento solo ad alcune posizioni lavorative;

e) la ratio di tale disciplina risiede nella
necessità di garantire che tentativi di superamento della crisi non siano
vanificati dalla necessità di mantenimento dei li occupazionali divenuti
esorbitanti rispetto alle esigenze dell’impresa.

4. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto
ricorso per cassazione K.C. sulla base di quattro motivi e C.A.I. s.p.a. sulla
base di tre motivi. Sul ricorso proposto da C.A.I. s.p.a. ha resistito la C.
con controricorso e sul ricorso proposto da quest’ultima hanno resistito con
controricorso sia C.A.I. s.p.a., sia A. S.A.I. s.p.a. in Amministrazione
Straordinaria.

5. Tutte le parti del giudizio hanno depositato
memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

Ricorso per cassazione proposto da C.A.I. s.p.a.

1. Con il primo motivo la società ricorrente
denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 3, legge n. 223 del
1991 con riferimento all’art.
18, commi 4 e 7, legge n.300 del 1970, in combinato disposto con gli artt. 414 e 416 c.p.c.

Censura la sentenza nella parte in cui ha confermato
l’illegittimità del licenziamento per violazione dei criteri di scelta senza
che la lavoratrice avesse indicato quale sarebbe stato il vantaggio
conseguibile all’esito del corretto procedimento di selezione, omettendo
altresì di indicare i nominativi delle persone che avrebbero dovuto essere
licenziate.

2. Con il secondo motivo C.A.I. s.p.a. denuncia
violazione dell’art. 112 c.p.c.. Si duole che
la sentenza non abbia pronunciato sul motivo di reclamo vertente sulla misura
dell’indennità risarcitoria liquidata ai sensi dell’art. 18, comma 4, legge n. 300
del 1970 per mancata applicazione dei criteri fissati dall’art. 5 legge 223 del 1991, in
relazione ad elementi variabili riferibili alla persona del lavoratore e alla
società.

3. Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sulla domanda
subordinata, formulata da essa reclamante ai sensi dell’art. 17 legge n. 223 del 1991,
per ottenere dal giudice l’autorizzazione alla risoluzione del rapporto di
lavoro di altro lavoratore non interessato dal licenziamento.

Ricorso per cassazione proposto da K.C.

1. Con il primo motivo la lavoratrice denuncia
violazione e falsa applicazione della normativa relativa al trasferimento di
ramo d’azienda, ai sensi dell’art.
47, comma 4- bis, della legge n. 428 del 1990, dell’art. 2112 c.c. e della direttiva
2001/23/CE per non avere la sentenza accolto la domanda diretta ad ottenere
la reintegrazione di essa ricorrente presso la cessionaria A. S.A.I. s.p.a.
sulla base dell’illegittimo assunto che la cessione del compendio aziendale
potesse avere ad oggetto non tutto il personale, bensì i soli lavoratori
specificamente indicati negli allegati all’accordo di cessione.

Deduce che la fattispecie non è riconducibile al
comma 5 dell’art. 47 della legge
n. 428 del 1990, che si riferisce a situazioni di crisi gestite senza
autorizzazione alla continuità imprenditoriale e che non è mai stato invocato
dagli accordi A., ma è sussumibile nel comma 4-bis dell’art. 47 cit., che trova
applicazione alle situazioni di crisi gestite in continuità imprenditoriale.

Ricorda che la CGUE,
con sentenza 11 giugno 2009, nella causa C-561/07, ha affermato che la
deroga prevista all’art. 5 n. 1 della Direttiva
2001/23/CE non è estensibile a casi diversi da quelli in cui il cedente sia
oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga
aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si
svolgono sotto il controllo dell’autorità pubblica competente, quale può essere
il curatore fallimentare. La Corte di giustizia ha chiarito come il criterio
determinante da seguire sia quello dell’obiettivo perseguito dai procedimenti
di trasferimento, per cui le garanzie inderogabili previste in favore dei
lavoratori della società cedente trovano applicazione qualora si sia deciso il
proseguimento dell’azienda, mentre non trovano applicazione quando il
procedimento di trasferimento sia finalizzato alla liquidazione del patrimonio
e al soddisfacimento dei creditori, sia dominato da interessi pubblici e
caratterizzato da un amplissimo controllo giurisdizionale, che si accompagna a
forme incisive di amministrazione e di commissariamento, con la privazione del
potere dell’imprenditore di amministrazione e disposizione del patrimonio
aziendale.

Rileva come l’adozione della CIGS per crisi
aziendale non determini alcun commissariamento o altra limitazione dei poteri
imprenditoriali e l’attività di controllo (ministeriale e non giudiziale) si
limiti a verificare il corretto utilizzo delle integrazioni salariali a carico
dell’Inps, la riconducibilità delle integrazioni salariali alle sospensione dal
lavoro e il rispetto dell’eventuale rotazione dei lavoratori fungibili.

Deduce che, per essere conforme alla Direttiva, la
riduzione di personale da apportare in occasione del trasferimento di aziende
in crisi deve essere fondata su effettivi esuberi, da riscontrare in sede
giudiziale, nel rispetto delle norme che disciplinano il licenziamento
collettivo, non potendo il trasferimento d’azienda costituire in sé motivo di
valido recesso.

2. Con il secondo motivo la ricorrente sostiene
l’erroneità della sentenza per avere ritenuto applicabile alla fattispecie,
concernente un’ipotesi in cui il contratto di lavoro non era stato ceduto, il
termine di decadenza di cui all’art.
32, comma 4, lett. c) della legge n. 183 del 2010, secondo cui il regime di
cui all’art. 6 legge n. 604 del
1966 si applica anche “alla cessione di contratto di lavoro avvenuta
ai sensi dell’art. 2112 c.c. con termine
decorrente dalla data del trasferimento”. Ribadisce di avere impugnato
tempestivamente il licenziamento intimato da A. C.A.I. e di avere altresì
rivendicato la prosecuzione del rapporto nei confronti di A. S.A.I.

3. Con il terzo motivo denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 4,
comma 9, e dell’art. 5, comma
3, legge n. 223 del 1991, dell’art. 18, comma 4, legge n. 300
del 1970, dell’art. 31 CCNL personale dipendente C.A.I. del 16.7.2014, e
dell’art. 3 d.l. 138 del 2011,
conv. in legge n. 148 del 2011 e motivazione
insufficiente, per non avere la Corte di appello riconosciuto l’indennità
sostitutiva del preavviso, ritenendola incompatibile con la reintegra.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia
violazione dell’art. 18, comma
1, legge n. 300 del 1970 in ordine al mancato riconoscimento del carattere
ritorsivo o discriminatorio del licenziamento, nonché violazione e falsa
applicazione del combinato disposto degli artt.
2729, primo comma, e 1345 c.c. e dell’art. 4, comma 13, legge n. 223 del
1991 per non avere la Corte d’appello individuato nei fatti antecedenti il
licenziamento e nella loro concatenazione rispetto al licenziamento stesso gli
indici presuntivi della discriminazione o della ritorsione.

Esame dei ricorsi

Ricorso proposto da C.A.I.

1. Quanto al primo motivo, parte ricorrente assume
che la lavoratrice avrebbe dovuto indicare il vantaggio conseguibile all’esito
di un corretto procedimento di selezione. Il motivo evoca la c.d. prova di
resistenza, che riguarda il caso in cui il datore di lavoro abbia predisposto
una graduatoria di lavoratori indicando posizioni comparabili, per cui la
corretta applicazione del criterio controverso condurrebbe il lavoratore
individuato come da licenziare ad essere collocato fuori dell’ambito numerico
delle eccedenze. Si tratta dell’ipotesi in cui l’individuazione del dipendente
destinatario del provvedimento espulsivo costituisce l’esito di una
comparazione con altri lavoratori (cfr. Cass. n.
24558 del 2016 nonché, negli stessi termini, Cass. n. 13803 del 2017). La
questione introdotta con il primo motivo non è pertinente alla fattispecie, né
al ragionamento posto a base del decisum.

Risulta dalla sentenza impugnata(v. pagg. da 4 a 7).
a) che la lavoratrice venne individuata come destinataria del provvedimento
espulsivo sulla base del criterio della collocazione in mobilità di risorse
assegnate a posizioni di lavoro in esubero senza concorrenza di altri
lavoratori, per cui il licenziamento avrebbe colpito per primi i lavoratori in
esubero con posizioni non omogenee; b) che tuttavia l’istruttoria aveva dimostrato
come la ricorrente, sin dalla sua assunzione alle dipendenze di A. C.A.I.
(2009), non avesse mai occupato la posizione lavorativa per la quale era stata
licenziata; c) che pertanto il criterio di scelta concordato nell’accordo era
stato violato nella specie, con conseguente illegittimità del provvedimento
espulsivo.

Il criterio della comparazione con altri lavoratori
in ipotesi fungibili con la posizione effettivamente ricoperta dalla C., cui
allude il motivo di ricorso, non si confronta con le ragioni effettive poste a
fondamento della decisione impugnata, né invero con gli accertamenti di fatto e
le valutazioni in diritto svolte dalla Corte territoriale e per tale assorbente
motivo è inammissibile, in quanto viola il disposto di cui all’art. 366 n. 4 c.p.c.

2. Quanto al secondo motivo, va premesso che, a
norma del comma 3 dell’art. 5
della legge n. 223 del 1991, come sostituito dall’art. 1, comma 46, legge n. 92 del
2012, in caso di violazione di criteri di scelta – “si applica il
regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18” e dunque,
come previsto da tale ultima disposizione, “il giudice annulla il
licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di
lavoro di cui al primo comma e al pagamento di una indennità risarcitoria
commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del
licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione….In ogni caso la
misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità
della retribuzione globale di fatto”.

La sentenza impugnata, confermando la sentenza resa
in fase di opposizione, ha esattamente applicato la tutela di cui al quarto
comma dell’art. 18 legge n.
300 del 1970, come sostituito dalla legge n.
92 del 2012, riconoscendo il diritto alla reintegra e l’indennità
risarcitoria nella misura massima consentita dal medesimo quarto comma, che
individua il limite non superabile quando (come nel caso di specie) la
reintegra intervenga a distanza di oltre un anno dal recesso.

A fronte di tale ratio decidendi, la società
ricorrente si è limitata ad opporre che non sarebbe stato esaminato il motivo
di reclamo (art. 112 c.p.c.) vertente sulla
misura dell’indennità risarcitoria per mancata applicazione di parametri
variabili, riferibili alla persona del lavoratore e alla società.

La mancata trascrizione del motivo di reclamo e
l’omissione delle indicazioni necessarie all’individuazione della questione di
diritto nei termini in cui la stessa sarebbe stata introdotta in giudizio dalla
società resistente, con riferimento alla sequenza dello svolgimento del
processo, rende in limine inammissibile la censura, ex art. 366 c.p.c. (cfr., ex plurimis, Cass. n. 6014
del 2018, n. 12664 del 2012; v. pure Cass. 3845 del 2018).

2.1. A ciò aggiungasi che non è neppure stato
chiarito in quali termini sarebbe rilevante, e non invece assorbita, la
questione di diritto oggetto del motivo di reclamo di cui sarebbe stato omesso
l’esame da parte del giudice di appello, in relazione alla fattispecie
applicata, ossia al quarto comma dell’art. 18 legge n. 300 del 1970,
ove si consideri che la soluzione accolta dalla Corte di appello esclude in
radice l’applicabilità di parametri modulabili in relazione a elementi diversi
da quello relativo al tempo intercorso tra il licenziamento e la
reintegrazione. E’ noto che l’omessa pronuncia da parte del giudice d’appello
non ricorre nel caso in cui il giudice d’appello fondi la decisione su una
costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda (tra le tante, cfr.
Cass. n. 452 del 2015, 1360 del 2016, n. 2334
del 2020).

3. Con il terzo motivo la società ricorrente invoca
l’applicazione dell’art. 17
legge n. 223 del 1991 secondo cui, in tema di licenziamenti collettivi:
“Qualora i lavoratori il cui rapporto sia risolto ai sensi degli articoli 4, comma 9, e 24 vengano reintegrati a
norma dell’articolo 18 della
legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, l’impresa, sempre
nel rispetto dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, può
procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro di un numero di lavoratori
pari a quello dei lavoratori reintegrati senza dover esperire una nuova
procedura, dandone previa comunicazione alle rappresentanze sindacali
aziendali”.

Si tratta di disposizione posta a favore del datore
di lavoro, al quale viene concessa la possibilità di proseguire nella procedura
svolta per evitare che i tempi di un eventuale nuovo iter possano apportare
pregiudizio economico all’azienda, con una inutile reiterazione di fasi già
compiute e prescrivendo che dell’esercizio di tale facoltà debba essere data
comunicazione alle associazioni sindacali.

Risulta evidente che si tratta di una facoltà
concessa all’imprenditore, che, esercitandola, se ne assume la responsabilità,
mentre è palesemente inammissibile una domanda in forma di
“autorizzazione” a licenziare altro lavoratore che si pretende debba
essere emessa dal giudice.

4. In conclusione il ricorso proposto da CAI s.p.a.
è complessivamente infondato e deve essere rigettato.

Ricorso proposto da K.C..

1. Quanto alla questione pregiudiziale della
decadenza dall’azione, oggetto del secondo motivo, come recentemente affermato
da questa Corte (Cass. 28750 del 2019) in tema
di trasferimento di azienda, l’azione del lavoratore per accertare la
sussistenza del rapporto di lavoro con il cessionario non è soggetta al termine
di decadenza di cui all’art. 32,
comma 4, lett. c), della legge n. 183 del 2010 che riguarda i soli
provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda impugnare, al fine di
contestarne la legittimità o la validità, né può trovare applicazione la lett.
d) della stessa disposizione, trattandosi di norma di chiusura di carattere
eccezionale, non suscettibile, pertanto, di disciplinare la fattispecie di cui
all’art. 2112 c.c. già contemplata dalla
lettera precedente.

Nel caso in esame, l’azione è proprio diretta a fare
accertare la sussistenza del rapporto di lavoro con il cessionario e non è
diretta ad impugnare un trasferimento del rapporto di lavoro disposto in capo
alla lavoratrice ceduta.

2. In ordine al terzo motivo, avente ad oggetto il
mancato riconoscimento dell’indennità di preavviso, la soluzione adottata dalla
Corte di appello è conforme a diritto. Come già affermato da questa Corte (Cass. n. 23710 del 2015, già citata dalla
sentenza impugnata), in caso di declaratoria di illegittimità del
licenziamento, l’indennità sostitutiva del preavviso è incompatibile con la
reintegra ove operi la tutela c.d. reale, non essendovi interruzione del
rapporto.

Già il Tribunale aveva statuito la reintegra nel
posto di lavoro e la Corte di appello ha confermato tale statuizione, per cui
non vi era spazio per il riconoscimento dell’indennità sostitutiva del
preavviso, stante l’annullamento del licenziamento e la prosecuzione del
rapporto di lavoro.

3. L’esclusione del carattere ritorsivo o
discriminatorio del licenziamento è stata fondata dalla Corte di appello sul
difetto di prova dei relativi presupposti, il cui onere gravava sulla lavoratrice
(v., tra le più recenti, Cass. nn. 9468 e 23583 del 2019).

4. E’ inammissibile la denuncia di violazione di
legge per non avere la Corte di appello fatto ricorso al ragionamento presuntivo
ex art. 2729 c.c.. In proposito, è sufficiente
osservare che la denunciata mancata applicazione di un ragionamento presuntivo
che si sarebbe potuto e dovuto fare, ove il giudice di merito non abbia
motivato alcunché al riguardo (e non si verta nella diversa ipotesi in cui la
medesima denuncia sia stata oggetto di un motivo di appello contro la sentenza
di primo grado, nel qual caso il silenzio del giudice può essere dedotto come
omissione di pronuncia su motivo di appello), non è deducibile come vizio di
violazione di norma di diritto, bensì solo ai sensi e nei limiti dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., cioè come
omesso esame di un fatto secondario (dedotto come giustificativo dell’inferenza
di un fatto ignoto principale), purché decisivo (Cass. n. 17720 del 2018).

La censura svolta non rientra nei ristretti limiti
di ammissibilità del mancato ricorso, da parte del giudice di merito, al
ragionamento presuntivo.

5. Resta da esaminare il primo motivo, che verte
sulla cessione del compendio aziendale dedicato al trasporto aereo di A. C.A.I.
in favore di A. S.A.I..

Il motivo investe l’interpretazione e la portata
applicativa dell’art. 47, comma
4-bis, legge 29 dicembre 1990, n. 428, introdotto dall’art. 19-quater del d.l. 25 settembre
2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi
comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle
Comunità europee), conv. in I. 20 novembre 2009,
n. 166, “al fine di dare esecuzione alla sentenza
di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee l’11 giugno
2009 nella causa C- 561/07”, la quale aveva affermato che, con i commi
5 e 6 dell’art. 47 della legge
n. 428 del 1990, la “Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi
ad essa incombenti in forza della direttiva”
2001/23/CE.

5.1. Tale Direttiva, per quanto qui interessa,
prevede agli artt. 3 e 4
regole generali, cui non è consentito derogare in senso sfavorevole membri, al
fine di assicurare il mantenimento dei loro diritti in caso di trasferimento
d’impresa.

In particolare: “I diritti e gli obblighi che
risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro
esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale
trasferimento, trasferiti al cessionario” (art. 3, par. 1); “Dopo
il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute
mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il
cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto
collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto
collettivo. Gli Stati membri possono limitare il periodo del mantenimento delle
condizioni di lavoro, purché esso non sia inferiore ad un anno” (art. 3, par. 3); “Il
trasferimento di un’impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di
stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del
cessionario. Tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver
luogo per motivi economici, tecnici o d’organizzazione che comportano variazioni
sul piano dell’occupazione” (art. 4, par. 1).

Le regole volte a garantire il mantenimento dei
diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, consentendo
loro di restare al servizio del nuovo datore di lavoro alle stesse condizioni
pattuite con il cedente, (cfr., tra le altre, CGUE, 15 settembre 2010, Briot, C
386/09, punto 26 e giurisprudenza citata), possono essere derogate dalle
legislazioni nazionali nei soli casi espressamente previsti dall’art. 5 della Direttiva
2001/23/CE.

La prima deroga è contenuta nel paragrafo 1 dell’art. 5: “A meno che
gli Stati membri dispongano diversamente, gli articoli 3 e 4 non sì applicano
ad alcun trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di
stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura
fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della
liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo
di un’autorità pubblica competente (che può essere il curatore fallimentare
autorizzato da un’autorità pubblica competente)”.

Il successivo paragrafo 2 dell’art. 5 contiene la seconda
deroga: “Quando gli articoli
3 e 4 si applicano ad un trasferimento nel corso di una procedura di
insolvenza aperta nei confronti del cedente (indipendentemente dal fatto che la
procedura sia stata aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente
stesso) e a condizione che tali procedure siano sotto il controllo di
un’autorità pubblica competente (che può essere un curatore fallimentare
determinato dal diritto nazionale), uno Stato membro può disporre che: a)
nonostante l’articolo 3,
paragrafo 1, gli obblighi del cedente risultanti da un contratto di lavoro o da
un rapporto di lavoro e pagabili prima dei trasferimento o prima dell’apertura
della procedura di insolvenza non siano trasferiti al cessionario, a condizione
che tali procedure diano adito, in virtù della legislazione dello Stato membro,
ad una protezione almeno equivalente a quella prevista nelle situazioni
contemplate dalla direttiva 80/987/CEE del
Consiglio, del 20 ottobre 1980, concernente il ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati
in caso di insolvenza del datore di lavoro; e/o b) il cessionario, il cedente o
la persona o le persone che esercitano le funzioni del cedente, da un lato, e i
rappresentanti dei lavoratori, dall’altro, possano convenire, nella misura in cui
la legislazione o le prassi in vigore lo consentano, modifiche delle condizioni
di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali
garantendo la sopravvivenza dell’impresa, dello stabilimento o di parti di
imprese o di stabilimenti”.

Una terza deroga è contenuta nel paragrafo 3 dell’art. 5, secondo cui:
“Uno Stato membro ha facoltà di applicare il paragrafo 2, lettera b), a
trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica
quale definita dal diritto nazionale, purché tale situazione sia dichiarata da
un’autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario, a
condizione che tali disposizioni fossero già vigenti nel diritto nazionale il
17 luglio 1998”.

5.2. Nella originaria versione l’art. 47 della predetta legge n. 428
del 1990 stabiliva, al comma 5, una disciplina speciale tanto per le
aziende o unità produttive per le quali fosse stato accertato “lo stato di
crisi aziendale a norma dell’art.
2, quinto comma, lettera c) della legge 12 agosto 1977, n. 675” quanto
per le imprese nei cui confronti fossero in atto procedure concorsuali liquidative
nel corso delle quali la continuazione dell’attività non fosse stata disposta o
fosse cessata (testualmente: “imprese nei confronti delle quali vi sia
stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo
consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di
liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione ad amministrazione
straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata
disposta o sia cessata”).

Secondo il comma 5 dell’epoca, in presenza di tali
ipotesi, ove nel corso delle consultazioni sindacali “sia stato raggiunto
un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione”,
“ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova
applicazione l’art. 2112 c.c., salvo che
dall’accordo risultino condizioni di miglior favore”.

5.3. Come è noto, su richiesta della Commissione
delle Comunità europee, la Corte di Giustizia
(sent. 11.6.2009, C-561/07), all’esito della procedura di infrazione, ha
affermato che, mantenendo in vigore le disposizioni di cui all’art. 47, commi 5 e 6, della I. n.
428 del 1990, in caso di “crisi aziendale” a norma dell’art. 2, quinto comma, lett. c),
della legge n. 675 del 1977, la Repubblica italiana è venuta meno agli
obblighi si di essa incombenti in forza della Direttiva
2001/23/CE.

Con tale sentenza, per quanto di rilievo nella
presente sede, è stato affermato che “il fatto che un’impresa sia
dichiarata in situazione di crisi ai sensi della legge
675/1977 non può implicare necessariamente e sistematicamente variazioni
sul piano dell’occupazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva
2001/23”; “la procedura di accertamento dello stato di crisi
aziendale non può necessariamente e sistematicamente rappresentare un motivo
economico, tecnico o d’organizzazione che comporti variazioni sul piano
dell’occupazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della
suddetta direttiva”. Dunque, lo stato di crisi aziendale non costituisce
in sé motivo economico per riduzione dell’occupazione, né costituisce in sé
ragione di deroga al principio generale secondo cui il trasferimento di
un’impresa o di parte di essa non è di per sé motivo di licenziamento da parte
del cedente o del cessionario, dovendo i licenziamenti essere giustificati da
motivi economici, tecnici o d’organizzazione (punto 36).

Secondo la CGUE, l’art. 5, n. 2, lett. a), della
Direttiva 2001/23 consente agli Stati membri, a determinate condizioni, di
non applicare talune delle garanzie di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva
stessa a un trasferimento di impresa laddove sia “aperta una procedura di
insolvenza” e laddove “questa si trovi sotto il controllo di
un’autorità pubblica competente”; diversamente, nel caso di trasferimento
di ur della procedura di accertamento dello stato di crisi, il procedimento
“mira a favorire la prosecuzione dell’attività dell’impresa nella
prospettiva di una futura ripresa, non implica alcun controllo giudiziario o
provvedimento di amministrazione del patrimonio dell’impresa e non prevede
nessuna sospensione dei pagamenti”‘, il CIPI si limita a dichiarare lo
stato di crisi di un’impresa e tale dichiarazione consente all’impresa di
beneficiare temporaneamente della CIGS. Ne discende che “non può ritenersi
che la procedura di accertamento dello stato di crisi aziendale sia tesa ad un
fine analogo a quello perseguito nell’ambito di una procedura di
insolvenza…” (punti da 38 a 42).

E’ stato inoltre chiarito come, “ammesso che la
situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi possa
essere considerata come costituente una situazione di grave crisi
economica”, l’art. 5,
n. 3, della Direttiva 2001/23 autorizzi gli Stati membri a prevedere che
“le condizioni di lavoro possano essere modificate per salvaguardare le
opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, senza
tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della direttiva
2001/23” (punto 44).

Inoltre, secondo la sentenza in esame, “l’applicazione
dell’art. 5, n. 3, della
direttiva 2001/23 è subordinata alla possibilità del controllo giudiziario
della procedura in questione” ed il diritto delle parti di adire
l’autorità giudiziaria competente nell’ipotesi di mancato rispetto della
procedura prevista “non può essere considerato come costitutivo del
controllo giudiziario previsto dall’articolo citato, dal momento che
quest’ultimo presuppone un controllo costante dell’impresa dichiarata in
situazione di grave crisi economica da parte del giudice competente”
(punto 45).

5.4. Alla stregua di tale ricognizione, la Corte di
giustizia ha chiaramente distinto, agli effetti dell’interpretazione delle
deroghe alle garanzie previste dagli artt. 3 e 4 della Direttiva,
“la situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di
crisi”, il cui procedimento mira a favorire la prosecuzione dell’attività
dell’impresa nella prospettiva di una futura ripresa, rispetto alla situazione
di imprese nei cui confronti siano in atto procedure concorsuali liquidative,
rispetto alle quali la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia
cessata.

Per la prima categoria di imprese – alveo in cui è
riconducibile la vicenda oggetto del presente giudizio, come è pacifico in
giudizio e neppure controverso tra le parti – l’art. 5, paragrafo 2,
lettera b), cosi come richiamato dal paragrafo 3 della Direttiva 2001/23, autorizza gli Stati membri a
prevedere che possano essere modificate “le condizioni di lavoro dei
lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la
sopravvivenza dell’impresa”, ma – secondo la Corte di Giustizia –
“senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della direttiva
2001/23”.

Alla luce di tale bipartizione della disciplina e
degli effetti, l’art. 47, comma
5, della I. n. 428 del 1990 è stato giudicato in contrasto con i principi
della direttiva, in quanto priva “puramente e semplicemente” i
lavoratori, in caso trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo
stato di crisi, della garanzie previste dagli artt. 3 e 4 delle direttiva
e “non si limita, di conseguenza, ad una modifica delle condizioni di
lavoro, quale è autorizzata dall’art. 5 n. 3 delle direttiva”
(punto 45 della sentenza).

Quanto poi a cosa debba intendersi come
“condizioni di lavoro”, la Corte di Giustizia ha nell’occasione ben
precisato che esse non possono riguardare il diritto del lavoratore al
trasferimento. “Poiché le norme della direttiva sono imperative nel senso
che non è consentito derogarvi in senso sfavorevole ai lavoratori, i diritti e
gli obblighi in capo al cedente risultanti da un contratto collettivo in essere
alla data del trasferimento si trasmettono ipso iure al cessionario per il solo
fatto del trasferimento (sentenza 9 marzo 2006, causa C-499-04, Werhof, punti
26 e 27). Ne discende che la modifica delle condizioni di lavoro autorizzata
dall’art. 5, n. 3, della
direttiva 2001/23 presuppone che il trasferimento al cessionario dei
diritti dei lavoratori abbia già avuto luogo” (punto 46).

5.5. In base alle riferite indicazioni ermeneutiche,
va condotta la lettura delle modifiche apportate all’art. 47 della I. n. 428 del 1990
dal d.l. n. 135 del 2009, conv. in I. n. 166 del 2009, che, con l’art. 19-quater, ha inserito,
dopo il comma 4, il seguente comma 4-bis: “Nel caso in cui sia stato
raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione,
l’articolo 2112 del codice civile trova
applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo
qualora il trasferimento riguardi aziende: a) delle quali sia stato accertato
lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’articolo 2, quinto comma, lettera
c), della legge 12 agosto 1977, n.675; b) per le quali sia stata disposta
l’amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto
legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata
cessazione dell’attività”.

Il comma 4-bis è inserito proprio “al fine di
dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa
dalla Corte di giustizia delle Comunità europee l’11 giugno 2009 nella causa
C-561/07”, tanto che il medesimo art. 19-quater, comma 1, lett. b) ha
previsto la soppressione, al comma 5 dell’art. 47, delle parole:
“aziende o unità produttive delle quali il CIPI abbia accertato lo stato
di crisi aziendale a norma dell’articolo
2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675”, con
il contestuale inserimento delle aziende “delle quali sia stato accertato
lo stato di crisi aziendale”, a norma di detta I.
n. 675 del 1977, nella lettera a) del comma di nuovo conio; quindi il comma
4-bis appare destinato alle procedure non liquidative a differenza del comma 5
che invece presuppone la cessazione dell’attività d’impresa o, comunque, la sua
non continuazione, in simmetria con le deroghe consentite rispettivamente dal
paragrafo 2 e dal paragrafo 1 dell’art. 5 della Direttiva
2001/23/CE.

La diversità dei casi disciplinati dai due commi in
successione non consente di attribuire all’inciso contenuto in entrambi –
“nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche
parziale dell’occupazione” – la medesima valenza semantica, altrimenti non
si registrerebbe alcuna differenza tra le ipotesi previste dal comma 4 bis e
quelle del comma 5, in contrasto con la ratio della Direttiva e con l’esigenza
manifesta di prestare ottemperanza alla condanna della Corte di Giustizia del
2009. Pertanto non si può estrapolare l’inciso “anche parziale” per
accreditare l’ipotesi che l’accordo sindacale possa disporre, in senso
limitativo, dei trasferimenti dei lavoratori dell’impresa cedente, ove si
tratti di azienda rientrante nell’ipotesi di cui al comma 4- bis. La suddetta
complessiva locuzione esprime piuttosto il contesto di riferimento ed, essendo
presente sia nel comma 4-bis sia nel comma 5, risulta in sé non decisiva ai
fini interpretativi, laddove il senso qui avversato ponga problemi di
conformità al diritto dell’Unione.

Assume invece centralità dirimente l’espressione, di
cui al comma 4-bis, secondo cui “trova applicazione” l’art. 2112 c.c., diametralmente opposta a quella
contenuta nel comma 5, secondo cui “non trova applicazione” l’art. 2112 c.c.

Nel contesto del comma 5 dell’art. 47, in caso di
trasferimento di imprese o parti di imprese il cui cedente sia oggetto di una
procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista
della liquidazione dei beni del cedente stesso, principio generale è (per i
lavoratori trasferiti alle dipendenze del cessionario) l’esclusione delle
tutele di cui all’art. 2112 c.c., salvo che
l’accordo preveda condizioni di miglior favore; la regola è dunque
l’inapplicabilità, salvo deroghe.

Al contrario, nel comma 4-bis la regola è di ordine
positivo (“trova applicazione”), per cui la specificazione “nei
termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo” non può avere
un significato sostanzialmente equivalente – con sovrapposizione di effetti –
rispetto al comma 5, se non contraddicendo la ratio sottesa alla diversità
testuale delle previsioni.

L’unica lettura coerente della legge risulta quella
che si coordina con le indicazioni offerte dalla Corte di Giustizia, nel senso
che gli accordi sindacali, nell’ambito di procedure di insolvenza aperte nei
confronti del cedente sebbene non “in vista della liquidazione dei
beni”, non possono disporre dell’occupazione preesistente al trasferimento
di impresa. Tanto vero che solo nel comma 5 dell’art. 47, “nel caso in cui
la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”, è
previsto che gli accordi possano stabilire la non applicazione dell’art. 2112 c.c. “… ai lavoratori il cui rapporto
di lavoro continua con l’acquirente…” (con il che ammettendo
esplicitamente che vi siano rapporti di lavoro che non continuano con
l’acquirente), mentre espressioni analoghe, che alludano alla possibilità
dell’accordo di limitare il trasferimento dei lavoratori dell’azienda cedente,
non si rinvengono nel comma 4-bis, al di fuori del già detto inciso di esordio
circa il mantenimento “anche parziale” dell’occupazione. Né l’assenza
di tale previsione può essere recuperata – in contrasto con il criterio logico-sistematico
e con l’intenzione del legislatore di dare attuazione alla sentenza della Corte
di Giustizia – attraverso la specificazione “nei termini e con le
limitazioni previste dall’accordo”, accordo che deve riguardare “le
condizioni di lavoro” ma non la continuità dei rapporti di lavoro con la
cessionaria.

Come detto, infatti, l’art. 5, n. 3, della Direttiva,
che richiama il paragrafo 2, lettera b) dello stesso art. 5, autorizza gli
Stati membri a prevedere, secondo la lettura offerta dalla Corte di Giustizia,
che “le condizioni di lavoro possano essere modificate per salvaguardare
le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, senza
tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt.3 e 4 della direttiva
2001/23”.

5.6. Deve ritenersi, dunque, che, a fronte di
espressioni generiche, le quali condurre a risultati interpretativi diversi,
deve essere privilegiato il si conforme al diritto dell’Unione e alla
interpretazione che dello stesso fornisce la CGUE, che, peraltro, nel caso di
specie è anche più coerente con l’interpretazione logicosistematica e con la
voluntas legis, per cui l’accordo con le organizzazioni sindacali raggiunto ai
sensi del comma 4-bis dell’art.
47 legge n. 428 del 1990, a differenza di quello raggiunto ai sensi del
comma 5 dello stesso articolo, non consente di incidere sulla continuità del
rapporto di lavoro, in quanto la deroga all’art.
2112 c.c. cui il comma 4-bis si riferisce può riguardare esclusivamente le
“condizioni di lavoro”, nel contesto di un rapporto di lavoro
comunque trasferito.

5.7. Ulteriori elementi testuali portano ad
escludere la possibilità che l’accordo sindacale di cui al comma 4-bis possa
disporre in senso limitativo del diritto al trasferimento dei rapporti di
lavoro. Infatti solo il comma 5, ultima parte, dell’art. 47 contempla l’ipotesi che
l’accordo sindacale possa “prevedere che il trasferimento non riguardi il
personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in
parte, alle dipendenze dell’alienante il successivo comma 6 prevede poi, per i
lavoratori non destinatari del trasferimento alle dipendenze dell’acquirente,
il diritto di precedenza nelle assunzioni che l’acquirente intendesse
effettuare entro un anno dalla data del trasferimento ovvero entro il periodo
maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Trova così conferma, anche per
questo verso, che il legislatore ha inteso limitare ai soli casi di procedure
concorsuali liquidative nel corso delle quali non sia stata disposta o sia
cessata l’attività la deroga al generale principio della continuità dei
rapporti di lavoro di tutti i dipendenti addetti all’azienda trasferita,
consentendo ai sindacati di concordare il numero dei lavoratori il cui rapporto
prosegua con l’acquirente e prevedendo, al contempo, che vi siano lavoratori
eccedentari esclusi dal trasferimento che restano alle dipendenze
dell’acquirente. Ritenere che anche il comma 4-bis consenta tale eventualità,
da parte dell’accordo sindacale, di derogare al principio di continuità, costituirebbe
una indebita estensione interpretativa di una previsione testualmente riferita
alle ipotesi disciplinate dal comma 5.

In definitiva, il comma 4-bis ammette solo
modifiche, eventualmente anche in peius, all’assetto economico-normativo in
precedenza acquisito dai singoli lavoratori, ma non autorizza una lettura che
consenta anche la deroga al passaggio automatico dei lavoratori all’impresa
cessionaria.

5.8. Ai fini interpretativi e come ulteriore avallo
della soluzione accolta, giova anche richiamare la recente sentenza del 16
maggio 2019 – C-509/17 – con cui la CGUE ha ribadito che, poiché l’articolo 5, paragrafo 1, della
Direttiva 2001/23 rende, in linea di principio, inapplicabile il regime di
tutela dei lavoratori in determinati casi di trasferimento di imprese e si
discosta dall’obbiettivo principale alla base di tale direttiva, esso deve
necessariamente essere oggetto di una interpretazione restrittiva (punto 38,
che richiama la sentenza del 22 giugno 2017,
Federatie Nederlandse Vakvereniging C-126/16, punto 41).

A tale riguardo, la Corte di Lussemburgo ha
dichiarato che l’art. 5,
par. 1, richiede che il trasferimento soddisfi i tre requisiti cumulativi
fissati dalla citata disposizione, vale a dire che il cedente sia oggetto di
una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga, che questa
procedura sia stata aperta al fine di liquidare i beni del cedente e che si
svolga sotto il controllo di un’autorità pubblica competente (punto 40, nonché sentenza del 22 giugno 2017, cit., punto 44). Per
quanto riguarda il requisito secondo il quale la procedura deve essere aperta
ai fini della liquidazione dei beni del cedente, non soddisfa tale requisito
una procedura che miri al proseguimento dell’attività dell’impresa interessata
(punto 44, che richiama la predetta sentenza dal
22 giugno 2017, punto 47 e la giurisprudenza ivi citata).

Ove non ricorrano tali condizioni, gli articoli 3 e 4 della Direttiva
2001/23 restano applicabili.

Esaminando dunque il caso della legislazione belga,
secondo cui il concessionario ha il diritto di scegliere i lavoratori che
intende riassumere, la Corte ha concluso che la Direttiva
2001/23/CE, e segnatamente gli articoli da 3 a 5, deve essere interpretata
nel senso che osta ad una legislazione nazionale, la quale, in caso di
trasferimento di un’impresa intervenuto nell’ambito di una procedura di
riorganizzazione giudiziale mediante trasferimento soggetto a controllo
giudiziario, applicata al fine di conservare in tutto o in parte l’impresa
cedente o le sue attività, prevede, per il cessionario, il diritto di scegliere
i lavoratori che intende riassumere.

5.9. Alla stregua di tutte le argomentazioni
esposte, deve escludersi che si versi in una situazione di impossibilità di
procedere ad una interpretazione della norma interna compatibile con quella
dell’Unione, essendo il rinvio pregiudiziale non necessario quando -come nella
specie- l’interpretazione della norma comunitaria sia autoevidente o il senso
della stessa sia stato già chiarito da precedenti pronunce della Corte di
giustizia (Cass., sez. un., 24 maggio 2007, n. 12067; v. pure Cass. n. 15041
del 2017 e n. 14828 del 2018) e la norma interna sia tale da potere essere
interpretata in conformità al diritto dell’Unione.

L’obbligo di interpretazione conforme impone di
ritenere che il legislatore del 2009, attraverso il comma 4-bis, abbia inteso
riconoscere alle parti negoziali la possibilità di derogare all’art. 2112 c.c., ma che tale deroga contenga un
limite implicito, costituito dalle norme della Direttiva
2001/23/CE nonché dai criteri interpretativi e dai principi fissati dalla
Corte di Giustizia.

5.10. Da ultimo rileva il Collegio che il d. Igs. 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice
della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”) G.U. n. 38
del 14.2.2019, che entrerà in vigore il all’art.
368, comma 4, lett. b), ha disposto la sostituzione del comma 4-bis con il
seguente: «4-bis. Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo, nel corso
delle consultazioni di cui ai precedenti commi, con finalità di salvaguardia
dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile,
fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova
applicazione, per quanto attiene alle condizioni di lavoro, nei termini e con
le limitazioni previste dall’accordo medesimo, da concludersi anche attraverso
i contratti collettivi di cui all’articolo
51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, qualora il trasferimento
riguardi aziende: a) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura
della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, ai
sensi dell’articolo 84, comma 2, del codice
della crisi e dell’insolvenza, con trasferimento di azienda successivo
all’apertura del concordato stesso; b) per le quali vi sia stata l’omologazione
degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando gli accordi non hanno
carattere liquidatorio; c) per le quali è stata disposta l’amministrazione
straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8
luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività».

Il medesimo articolo 368,
al comma 4, lett. c), ha disposto la sostituzione del comma 5 dell’art. 47 con il seguente: «5.
Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia
stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo
liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta
amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata
disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario.
Tuttavia, in tali ipotesi, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti
commi, possono comunque stipularsi, con finalità di salvaguardia
dell’occupazione, contratti collettivi ai sensi dell’articolo 51 del decreto legislativo
15 giugno 2015, n. 81, in deroga all’articolo
2112, commi 1, 3 e 4, del codice civile; resta altresì salva la possibilità
di accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di
lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all’articolo
2113, ultimo comma del codice civile.».

Il legislatore del Codice della crisi, espunto
l’equivoco inciso precedente sul “mantenimento anche parziale
dell’occupazione” e ribadito come “fermo il trasferimento al
cessionario dei rapporti di lavoro”, ha così più esplicitamente inteso
recepire, meglio conformando il futuro dettato normativo, l’unica lettura del
comma 4- bis che questa Corte ritiene già percorribile in via ermeneutica anche
per il passato, quale unica “interpretazione conforme” al diritto
dell’Unione, per cui va respinta la tesi, sostenuta in giudizio da A. SAI, secondo
cui la disciplina citata avrebbe carattere radicalmente innovativo.

5.11. Infine, è opportuno evidenziare che per la
prima volta giunge all’attenzione di questa Corte l’interpretazione del comma
4-bis dell’art. 47 legge n. 428
del 1990, per cui non può assumere rilievo il richiamo, negli atti di
giudizio della società cessionaria, alle sentenze di questa Corte (Cass. n. 1383 del 2018 e le precedenti ivi
richiamate, così come le successive Cass. nn. 5370,
7061 e 31946 del
2019) che hanno riguardato l’interpretazione del comma 5 del medesimo art. 47.

5.12. Ai sensi del primo comma dell’art. 384 c.p.c., venendo risolta una questione di
diritto di particolare importanza, in funzione nomofilattica va enunciato il
seguente principio di diritto:

“In caso di trasferimento che riguardi aziende
delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’articolo 2, quinto comma, lettera
c), della legge 12 agosto 1977, n.675, ovvero per le quali sia stata
disposta l’amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata
cessazione dell’attività, ai sensi del decreto
legislativo 8 luglio 1999, n. 270, l’accordo sindacale di cui all’art. 47 della I. 29 dicembre 1990,
n. 428, comma 4-bis, inserito dal d.l. n. 135
del 2009, conv. in I. n. 166 del 2009, può
prevedere deroghe all’art. 2112 c.c.
concernenti le condizioni lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti
di lavoro al cessionario”.

6. In conclusione, vanno accolti i primi due motivi
del ricorso proposto da K.C. con rigetto dei restanti. Va rigettato altresì il
ricorso proposto da CAI s.p.a. La sentenza impugnata va cassata in relazione ai
motivi accolti con rinvio alla Corte di appello di Roma, in diversa
composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

7. Tenuto conto che il ricorso per cassazione di CAI
s.p.a. è infondato, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della medesima società ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R.
30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 -bis dello stesso art. 13
(v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

 

P.Q.M.

 

Accoglie i primi due motivi del ricorso proposto da
K.C. e rigetta i restanti. Rigetta il ricorso proposto da CAI s.p.a. Cassa la
sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese,
alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Ai sensi dell’art.13 comma 1 -quater del d.P.R.
n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte della ricorrente CAI s.p.a., dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma
del comma 1-bis, dello stesso articolo
13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 giugno 2020, n. 10414
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: