Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 giugno 2020, n. 10404

Riconoscimento del danno biologico, Inadempimento datoriale
all’obbligo di sicurezza, Norma di chiusura del sistema antinfortunistico
estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate,
Riconoscimento della malattia professionale non comporta automaticamente anche
il riconoscimento di responsabilità del datore di lavoro

 

Ritenuto

 

che la Corte di Appello di Bari, con sentenza
pubblicata il 7.11.2016, ha respinto il gravame interposto da D.G., nei
confronti di T. S.p.A., avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede,
resa il 5.6.2013, con la quale era stata rigettata la domanda del lavoratore
volta ad ottenere il riconoscimento del danno biologico derivato dalla
patologia da cui era affetto (antrite) – asseritamente contratta a causa
dell’inadempimento datoriale all’obbligo di sicurezza imposto dall’art. 2087 c.c. – e la conseguente condanna della
società datrice alla liquidazione del danno stesso;

che la Corte di merito, per quanto ancora in questa
sede rileva, esaminati gli elementi delibatori posti dal primo giudice a
fondamento della decisione gravata, ha ritenuto che il lavoratore non avesse
fornito la prova del dedotto inadempimento e che, dal suo canto T. S.p.A.
avesse provato <<di aver ottemperato nel tempo a tutti gli obblighi
normativamente previsti in tema di sicurezza sul lavoro>>;

che per la cassazione della sentenza ricorre D.G.
articolando due motivi;

che T. S.p.A. resiste con controricorso;

che sono state comunicate memorie nell’interesse del
ricorrente;

che il P.G. non ha formulato richieste;

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si censura, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione
e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2087 c.c., e si deduce che risulterebbe evidente,
dalle modalità di svolgimento dei fatti, che vi sia stata la violazione dell’art. 2087 c.c., che pone a carico
dell’imprenditore l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le
misure che si rendono necessarie per tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei propri prestatori d’opera, nel rispetto dei fondamentali
diritti alla salute ed all’integrità psicofisica costituzionalmente garantiti;
si afferma, inoltre, che il ricorrente aveva certificato, in data 26.54.1995,
la dipendenza causale della patologia da cui era affetto (antrite) dal lavoro
svolto, a causa, appunto, delle modalità di svolgimento dello stesso
<<che comportavano l’assunzione irregolare dei pasti, a bordo delle
macchine di trazione dei treni, in qualunque ora del giorno e della notte ed in
condizioni igieniche precarie>>; si asserisce, altresì, che <<pur
non costituendo il certificato nesso causale, ai fini dell’accertamento di
responsabilità ex art. 2087 c.c., è di tutta
evidenza che tale nesso determinava e determina una inversione dell’onere
probatorio ex art. 1218 c.c.: onere che migra
dal lavoratore al datore di lavoro>>; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione
e falsa applicazione degli artt. 113, 125, 132 c.p.c.e 118 delle
Disposizioni di attuazione c.p.c., e si lamenta che la sentenza impugnata
sia fondata su una motivazione insufficiente, contraddittoria ed illogica,
nonché <<in contrasto con i dati istruttori acquisiti, con totale
obliterazione delle prove testimoniali e dei contenuti delle prove
stesse>>; ed altresì che <<in essa non si tiene conto del fatto che
la società non ha fornito la prova di avere posto in essere quanto necessario
alla salvaguardia della salute del lavoratore>>;

che il primo motivo non è fondato; ed invero, alla
stregua dei consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte di
legittimità (cfr, ex plurimis, Cass. nn. 13956/12;
17092/12; 18626/13;
22710/15), la responsabilità dell’imprenditore
per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del
lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano
rinvenibili, dalla disposizione di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del
sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora
espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua
formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio
dell’impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro
in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità
psico-fisica dei lavoratori (cfr., tra le molte, Cass.
nn. 6377/2003; 16645/2003): responsabilità
che, nella fattispecie, non appare sussistente, poiché, come, in più occasioni
sottolineato da questa Suprema Corte, il riconoscimento della malattia
professionale non comporta automaticamente anche il riconoscimento di
responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art.
2087 c.c. (cfr., tra le molte, Cass. nn. 3366/2017; 21203/10), poiché
incombe sul lavoratore che lamenti di avere contratto quella malattia, l’onere
di provare il fatto che costituisce l’inadempimento ed il nesso di causalità
materiale tra l’inadempimento ed il danno; onere probatorio al quale il
lavoratore non ha adempiuto, non potendosi considerare prova idonea a fondare
un giudizio di responsabilità della datrice di lavoro il semplice riferimento
ad un certificato medico del 26.5.1995, peraltro neppure prodotto, né
trascritto, nel quale si asserisce che sia dato atto della dipendenza causale
della patologia di cui si tratta dal lavoro svolto;

che neppure il secondo motivo può essere accolto; al
riguardo, va, innanzitutto, premesso che lo stesso appare, all’evidenza, teso
ad ottenere un nuovo esame del merito attraverso una nuova valutazione degli
elementi delibatori, pacificamente estraneo al giudizio di legittimità (cfr.,
ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass.
n. 14541/2014), poiché <<il compito di valutare le prove e di
controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al
giudice di merito>>; per la qual cosa., <<la deduzione con il
ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata
>> (peraltro, nella fattispecie, manca una specifica censura sul punto),
<<per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, o per
mancata ammissione delle stesse, non conferisce al giudice di legittimità il
potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al
suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della
correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni
svolte dal giudice di merito>> (cfr., ex multis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014
citt.; Cass. n. 2056/2011); inoltre, alla
stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, qualora
il ricorrente denunci, in sede di legittimità, l’omessa o errata valutazione di
prove testimoniali, ha l’onere non solo di trascriverne il testo integrale nel
ricorso per cassazione, ma anche di specificare i punti ritenuti fondamentali
al fine di consentire il vaglio di decisività che avrebbe eventualmente dovuto
condurre il giudice ad una diversa pronunzia, con l’attribuzione di una diversa
valutazione alle dichiarazioni testimoniali relativamente alle quali si
denunzia il vizio (Cass., S.U., n. 22716/2011;
Cass., ord. n. 5567/2017; Cass., sent. n.
6023/2009);

che, nel caso di specie, invero, la contestazione,
peraltro del tutto generica, sulle dichiarazioni rese dai testimoni escussi,
senza che le stesse siano state trascritte compiutamente, ma solo accennate, si
risolve in una inammissibile richiesta di riesame del contenuto di deposizioni
testimoniali e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali la
motivazione sarebbe mancata o sarebbe stata illogica (cfr., ex plurimis, Cass.
n. 4056/2009), finalizzata ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto,
certamente estranea, come innanzi sottolineato, alla natura ed alle finalità
del giudizio di cassazione (cfr., ex multis, Cass.,
S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014);

che, inoltre, i giudici di secondo grado, sulla
scorta del materiale probatorio esaminato, ed in linea con gli arresti
giurisprudenziali di legittimità, hanno rilevato che il lavoratore non ha
fornito la prova dell’asserito inadempimento datoriale e che, di contro, la
società ha provato <<di aver ottemperato a tutti gli obblighi
normativamente previsti in tema di sicurezza sul lavoro>>; che, per le
osservazioni in precedenza svolte, il ricorso va rigettato;

che le spese del presente giudizio, liquidate come
in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui
Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori
di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 giugno 2020, n. 10404
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