Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 giugno 2020, n. 10989

Mobbing, Risarcimento del danno non patrimoniale,
Riconoscimento di progressivi superiori inquadramenti e delle conseguenti
differenze retributive, Mancata allegazione nel ricorso introduttivo

 

Fatti di causa

 

1. Adito da W.P., il Tribunale di Grosseto, in
funzione di giudice del lavoro, in parziale accoglimento del ricorso proposto
contro la datrice di lavoro del ricorrente, la B.N.L. s.p.a. (BNL), con
sentenza pubblicata il 6.2.2014, condannava quest’ultima al pagamento di una
somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da vessazioni sul
luogo di lavoro (mobbing), respingendo le altre domande dei lavoratore, dirette
al riconoscimento di progressivi superiori inquadramenti e delle conseguenti
differenze retributive.

2. Nei confronti della citata sentenza di prime cure
il lavoratore proponeva appello dinanzi alla Corte di appello di Firenze. La
B.N.L. s.p.a. si costituiva proponendo appello incidentale, con il quale
chiedeva il rigetto integrale delle domande del lavoratore.

3. Con sentenza pubblicata il 7.9.2016, la Corte di
appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di prime cure,
dichiarava il diritto di W.P. all’inquadramento nella qualifica di vice
capo-ufficio dal 1°.5.1990 e alle conseguenti differenze retributive, oltre
rivalutazione monetaria e interessi legali dalla maturazione delle singole voci
di credito al saldo, confermando nel resto la sentenza impugnata. Le spese
processuali del grado venivano compensate per 2/3 mentre il residuo terzo era
posto a carico della B.N.L., e le spese della C.Ì’.U. erano poste a carico di
entrambe le parti nella misura del 50% ciascuna.

4. La Corte territoriale, dopo aver riconosciuto
provato lo svolgimento di mansioni di vice-coordinatore degli operatori unici
dal 1°.2.1990, con conseguente diritto, ai sensi dell’art. 2103 cod.civ., al superiore inquadramento
nella qualifica di vice capoufficio dal 1°.5.1990, respingeva la domanda del
lavoratore diretta a ottenere il riconoscimento del suo diritto alla promozione
automatica al grado di capo-ufficio dopo cinque anni di inquadramento nella
qualifica di vice capo ufficio, “ai sensi degli accordi 6.2.1992 e 30.9.1993”.
Ciò per essere mancata la allegazione e la prova, il cui onere incombeva sul
lavoratore, dello svolgimento da parte di quest’ultimo di attività di natura
commerciale, che comportino la promozione presso la clientela di prodotti e
servizi dell’Istituto di credito, attività richiesta dalla contrattazione
collettiva per la promozione automatica domandata, ritenendo la tardività delle
allegazioni e delle richieste istruttorie del lavoratore sul punto, nonché la
mancanza delle condizioni per l’esercizio di poteri istruttori officiosi. Analogamente
veniva respinta la domanda del P. di riconoscimento del suo diritto alla
promozione dal livello di operatore unico di sportello a quello di operatore
unico consulente, per essere mancata la prova della sussistenza delle relative
condizioni previste dalla contrattazione collettiva. Era poi ritenuta
inammissibile, in quanto modificativa dei fatti posti originariamente a
fondamento della domanda, l’allegazione del lavoratore secondo cui egli avrebbe
acquisito il diritto al superiore inquadramento in forza della tempestiva
accettazione della proposta, formulata nel 1998, di assumere la funzione di
coordinatore degli operatori unici e di quella, formulata da un responsabile
aziendale, di inquadramento nella qualifica di capo ufficio dal 1°.2.2001 e di riconoscimento
del livello retributivo di quadro direttivo. A seguito di chiarimenti forniti
dal C.T.U. la Corte territoriale confermava la statuizione della sentenza di
prime cure in ordine all’entità del danno conseguente alle vessazioni subite
dal lavoratore sul luogo di lavoro (mobbing).

5. Avverso la detta sentenza della Corte di appello
di Firenze W.P. propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi. La B.N.L.
s.p.a. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la
violazione o falsa applicazione di norme di diritto “ex” art. 115, 116, 421 e 437
cod.proc.civ. in ragione dell’omesso esercizio dei poteri istruttori di
ufficio richiesti dalla parte ricorrente sia in primo grado che in appello, per
aver erroneamente la Corte territoriale ritenuto la mancata allegazione da
parte del lavoratore di aver svolto attività commerciali di vendita di prodotti
o servizi bancari BNL secondo le previsioni contrattuali del 1992/1993
(Protocollo d’intesa del 6.2.1992 e successivo Accordo del 30.9.1993; c.d.
operatore consulente), ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 3 cod.proc.civ.

3. Con il secondo motivo il P. deduce la nullità
della sentenza per vizio di motivazione e per motivazione insufficiente e
contraddittoria per aver erroneamente ritenuto la Corte territoriale la mancata
allegazione del fatto costitutivo del diritto controverso in contrasto con il
materiale probatorio acquisito (documenti e disposizioni testimoniali), ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod.proc.civ.

4. Con il terzo motivo il lavoratore lamenta la
nullità della sentenza impugnata per “vizio di motivazione. Motivazione
insufficiente e contraddittoria” per avere la Corte territoriale pronunciato
sul merito e non sul rito per difetto delle condizioni delazione — omesso
interesse ad agire — per non aver ritenuto l’allegazione da parte del
ricorrente del fatto costitutivo del diritto di credito vantato dal ricorrente
circa il grado di Capo Ufficio in relazione ai protocolli e accordi aziendali,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod.proc.civ.

5. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della
nullità della sentenza per omessa pronunzia sulla domanda di riconoscimento del
grado di Capo Ufficio con decorrenza dal 1997, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod.proc.civ.

6. Con il quinto motivo W.P. lamenta la nullità
della sentenza della Corte territoriale per vizio di motivazione, motivazione insufficiente
e contraddittoria in relazione alle risultanze della consulenza tecnica
d’ufficio di primo e secondo grado, contraddittorietà circa la ritenuta
iniziale non esistenza di cause pregresse o contemporanee alla vicenda
lavorativa con incidenza invalidante poi ammesse (“separazione/divorzio e
telefonate A.”), contraddittorietà circa la percentuale di danno biologico
attribuita nella C.T.U. e mancata presa in considerazione delle critiche mosse
dal consulente di parte in appello, ai sensi dell’art.
360, comma 1. n. 4 cod.proc.civ.

7. Con il sesto e ultimo motivo il ricorrente deduce
la nullità della sentenza per vizio di motivazione, omessa personalizzazione
del risarcimento del danno non patrimoniale applicandosi solo il punto
tabellare delle tabelle di Milano senza alcuna personalizzazione sia sul danno
biologico permanente sia temporaneo, l’omessa motivazione sul danno
esistenziale e la mancata applicazione delle nuove Tabelle di Milano del 2014,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod.proc.civ.

8. I due primi motivi sono da esaminare
congiuntamente, perché, come si legge nello stesso ricorso, sono diretti a
censurare lo stesso capo della sentenza impugnata. Ciò sotto due profili. Da
una parte, si critica la statuizione secondo la quale, a corredo della domanda
volta al riconoscimento della promozione automatica a capo-ufficio, il
ricorrente non avrebbe allegato di aver svolto nel periodo pertinente anche
attività di natura commerciale, con promozione presso la clientela di prodotti
e servizi deiristituto di credito, condizione pacificamente prevista dalle
norme collettive applicabili, per il riconoscimento della promozione
automatica. D’altra parte, si censura il mancato uso, da parte della Corte
territoriale (in verità il ricorrente coinvolge inammissibilmente nella censura
anche la sentenza di primo grado) dei poteri istruttori officiosi di cui all’art. 437 cod.proc.civ. (si invoca anche l’art. 421 cod.proc.civ.).

9. Con il primo motivo, in particolare, si deduce
violazione di norme di diritto ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ. (art. 115,
116, 421 e 437 cod.proc.civ.), mentre con il secondo si
denuncia la nullità della sentenza per “difetto di motivazione”.

10. Fondamentalmente la censura riguarda
l’interpretazione della domanda formulata dal ricorrente, e quindi la portata
delle sue allegazioni. La doglianza sul mancato esercizio dei poteri istruttori
officiosi difetta di autonomia, perché essa presuppone che l’allegazione
litigiosa, la cui sussistenza è stata esclusa dalla Corte territoriale, fosse
invece da ritenere presente.

11. In sostanza il ricorrente afferma che se, nel
ricorso introduttivo, egli non ha precisato “in modo più nitido” di aver svolto
mansioni commerciali e di promozione dei prodotti finanziari, ciò si deve al
fatto che egli considerava la circostanza pacifica. Solo in giudizio la banca
ha prodotto il documento, datato 30.5.2001, con cui l’istituto di credito
comunicava al sindacato ITBA CISL che la mancata promozione del lavoratore si
doveva alla circostanza del non avere egli espletato le mansioni di “operatore
consulente”, cioè incaricato delle mansioni commerciali e di promozione dei
prodotti finanziari.

12. Inoltre, il ricorrente fa valere di aver
richiamato le previsioni degli accordi del 1992 e 1993 — che appunto facevano
pacificamente riferimento all’espletamento di mansioni commerciali — per cui
l’allegazione di aver diritto alla promozione automatica a capo ufficio doveva
ritenersi implicita nel richiamo alle pertinenti disposizioni collettive.

13. Il lavoratore riporta un passo del ricorso
introduttivo in primo grado nel quale ci si riferisce alla valutazione del
dirigente M., responsabile dei servizi di sala e operatori: “il M., verificata
la capacità operativa anche in termini quantitativi del lavoro svolto alla
cassa dal P., constatava l’elevata competenza e preparazione nelle operazioni
commerciali e di borsa, (in pratica il P. dalla cassa riusciva a consigliare
innumerevoli clienti a sottoscrivere prodotti finanziari BNL, in particolare i
fondi comuni, tanto che decideva di segnalarlo al nuovo direttore).”

14. Il primo motivo non individua la violazione di
norme di diritto. Né il secondo motivo riesce a mettere in luce una motivazione
della sentenza impugnata sul punto inferiore al “minimo costituzionale” (Cass., SU, n. 8503 del 2014).

15. Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad
un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito (tra molte, Cass. n. 20957
del 2017). Certamente, in tema di domanda giudiziale, non e necessario che
l’allegazione di un fatto costitutivo, come di altra circostanza rilevante ai
fini del decidere, venga formulata nel contenuto narrativo del ricorso o della
memoria di costituzione del convenuto, potendo essere individuata attraverso un
esame complessivo dell’atto, senza che occorra l’uso di formule sacramentali o
solenni, desumendola anche dalle deduzioni istruttorie e dalle produzioni
documentali, ma si tratta pur sempre di una valutazione riservata al giudice
del merito (tra molte, Cass. n. 17991 del 2018).

16. Sul punto vi è un accertamento del giudice di
appello, accertamento che è sorretto da una motivazione che consente di
individuare il percorso logico giuridico che sorregge la sentenza sul punto e
che dunque sfugge alla censura di nullità sollevata con il secondo motivo.

17. Marginalmente può osservarsi da una parte che il
riferimento alla produzione in giudizio degli accordi collettivi pertinenti non
può certo valere a rimpiazzare una idonea allegazione dei fatti costitutivi
posti a fondamento della pretesa fatta valere in giudizio, e, d’altra parte,
che il riferimento alla posizione del dirigente M. non mette in luce un
elemento decisivo. Secondo questo teste il ricorrente dava consigli sui
prodotti finanziari “dalla cassa”, il che non corrisponde interamente alle
mansioni indicate dagli accordi aziendali del 1992 e del 1993. Il particolare
percorso professionale individuato dall’accordo del 1992 prendeva in
considerazione la possibile evoluzione dell’operatore unico di sportello verso
la figura di “operatore consulente”, che veniva individuata come caratterizzata
dallo .. svolgere anche attività di tipo commerciale, prospettando alla
clientela prodotti e servizi … e curando gli adempimenti previsti per
concludere le operazioni [corsivo aggiunto]”, mentre era pacificamente lo
stesso M. a “chiudere” le operazioni delle quali si era occupato il P. secondo
il ricorso.

18. Il terzo motivo è inammissibile, per difetto di
interesse del ricorrente ad ottenere una pronuncia comunque di segno negativo,
oltre che per la novità della questione.

19. Il quarto motivo è infondato. Secondo il
ricorrente, una volta riconosciuta a lui la qualifica di vice-capufficio dal
1990, cosa che era stata negata dal giudice di primo grado, il quinquennio da
prendere in considerazione sarebbe stato non il 1996-2001, bensì il 1992-1997.

20. In realtà, come condivisibilmente osserva la
resistente, la Corte territoriale ha escluso in radice, con riferimento a tutto
il periodo in questione, un “adeguato supporto allegatorio e probatorio
[corsivo aggiunto]” alle pretese del ricorrente, per cui la censura sollevata
non ha rilevanza.

21. Quanto alla valorizzazione della testimonianza
del dirigente M., Le parti rilevanti della testimonianza non vengono riprodotte
nella disamina del quarto motivo, in violazione del principio di
autosufficienza del ricorso in cassazione. In ogni caso, nell’estratto di
questa testimonianza riportato (a pag. 19 del ric., nella disamina del terzo
motivo) non ci sono riferimenti al periodo 1992-1997 oggetto del quarto motivo.
Si tratta comunque di circostanze non idonee a censurare la sentenza impugnata.
Nel quadro di questo motivo il ricorrente continua a sostenere che in realtà
era stato allegato da parte sua lo svolgimento di mansioni commerciali. Sotto
questo profilo ovviamente la doglianza non ha autonomia, ed è assorbita in
ragione del rigetto dei primi due motivi di ricorso.

22. Il quinto motivo è inammissibile. Se anche vi
fosse nella CTU (ma non vi è alcun elemento per affermarlo) la contraddizione
denunciata, per aver il consulente tenuto conto, nel ridurre l’entità
dell’inabilità permanente dal 15% al 12%, di fattori secondari, non
riconducibili alla responsabilità del datore di lavoro, fattori che avevano
aggravato la condizione del ricorrente, essa non sarebbe rilevante nello
stabilire che la motivazione della sentenza impugnata, basata sulle risultanze
della stessa CTU, non raggiunga la soglia del c.d. “minimo costituzionale”
(Cass. SU n. 8503 del 2014, cit.).

23. Infondato, infine, è anche il sesto motivo.

24. Quanto al precedente della stessa Corte di
appello che avrebbe in un caso analogo proceduto a una liquidazione più
generosa, condivisibilmente la resistente fa valere la sua irrilevanza in
questo giudizio.

25. A proposito della c.d. “personalizzazione del
danno”, la giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare
continuità, ha chiarito (v., da ultimo, Cass. n. 14364 del 2019) che la
personalizzazione è un’”operazione” che consente al giudice di valorizzare il
danno patito dalla vittima; il giudicante è tenuto a motivarla, facendo
riferimento alle risultanze probatorie emerse nel corso del giudizio. In particolare,
vanno evidenziate le circostanze di fatto, tipiche della fattispecie concreta,
tali da superare le conseguenze ordinarie e da giustificare una liquidazione
maggiorata, rispetto a quella forfettizzata in base ai criteri tabellari (Cass.
n. 2193 del 2017). Il giudice deve individuare le conseguenze che qualunque
vittima di lesioni analoghe subirebbe; e poi accertare eventuali conseguenze
peculiari del caso specifico. Le prime vanno monetizzate con un parametro
uniforme, le seconde con un criterio ad hoc scevro di automatismi (Cass. n.
16788 del 2015). Capovolgendo la prospettiva, si può affermare che non sia
ammessa alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento, qualora le
conseguenze sofferte siano quelle ordinarie secondo l’id quod plerumque accidit
(Cass. n. 7513 del 2018 (ord.)). La personalizzazione, infatti, non costituisce
mai un automatismo, ma richiede l’individuazione di specifiche circostanze
ulteriori rispetto a quelle ordinarie.

26. I valori tabellari sono destinati alla riparazione
dei pregiudizi normalmente patiti da qualunque vittima di lesioni analoghe.
Spetta al giudice far emergere, e valorizzare, le specifiche circostanze di
fatto, peculiari al caso concreto, che superino le conseguenze “comuni” già
compensate dalla liquidazione forfettizzata del danno non patrimoniale
assicurata dalle previsioni tabellari. Il pregiudizio specifico si distingue da
quello ordinario per «l’irripetibile singolarità dell’esperienza di vita
individuale nella specie considerata, caratterizzata da aspetti legati alle
dinamiche emotive della vita interiore, o all’uso del corpo e alla
valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare
obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento (in un’ottica che,
ovviamente, superi la dimensione “economicistica” dello scambio di
prestazioni), meritevoli di tradursi in una differente (più ricca e, dunque,
individualizzata) considerazione in termini monetari, rispetto a quanto suole
compiersi in assenza di dette peculiarità» (Cass. n. 21939 del 2017).

27. Ai fini della personalizzazione del danno morale
non rileva la mera sofferenza derivante dallo sconvolgimento delle abitudini di
vita del danneggiato, ricollegabili ad esempio, al dolore di comune
riferibilità e, quindi, non apprezzabile in una prospettiva di solidarietà
relazionale; bensì rileva la lesione di interessi che assumano consistenza sul
piano del disegno costituzionale della vita della persona, è necessario che il
danno, di cui si chiede la personalizzazione, presenti dei profili di concreta
riferibilità e inerenza all’esperienza personale, specifica e irripetibile,
diversamente opinando, si realizzerebbe una duplicazione delle poste
risarcitone, infatti, le conseguenze ordinarie che discendono da una lesione
(di quella specifica entità e riferite a un soggetto di quella specifica età
anagrafica) sono integralmente risarcite nella liquidazione del danno alla
persona operata attraverso il meccanismo tabellare.

28. Quindi, secondo la giurisprudenza, il
risarcimento forfettariamente individuato, in base ai meccanismi tabellari, può
essere aumentato esclusivamente nel caso in cui il giudice ravvisi circostanze
di fatto del tutto peculiari, idonee a superare le conseguenze ordinarie, nella
liquidazione, il giudicante è tenuto a considerare tutte le conseguenze patite
dalla vittima, tanto nella sua sfera morale (ossia nel rapporto che il soggetto
ha con sé stesso), quanto in quella dinamico-relazionale (che riguarda il
rapporto del soggetto con la realtà esterna) e tale accertamento, unitario ed
omnicomprensivo, deve avvenire in concreto (v. Cass. n. 20795 del 2018).

29. Sul punto la sentenza impugnata ha ritenuto
adeguata la liquidazione del danno sulla base delle sole tabelle “milanesi”,
che si fondano su di un concetto omnicomprensivo del danno biologico, inteso
anche come danno estetico e danno alla vita di relazione, evocando “il
carattere moderato del disturbo accertato”.

30. In questo modo, alla luce dei principi
giurisprudenziali evocati, il giudice di appello ha dato sufficientemente conto
del percorso logico giuridico seguito per giungere alla statuizione qui
censurata, che è sorretta da una motivazione che certamente soddisfa il
criterio del c.d. “minimo costituzionale”.

31. Per censurare efficacemente questa statuizione
si sarebbe dovuta lamentare — e dimostrare — la mancata considerazione da parte
della Corte territoriale di circostanze eccezionali (le “circostanze di fatto
del tutto peculiari, idonee a superare le conseguenze ordinarie, nella
liquidazione”), mentre il ricorso si limita a dolersi di una motivazione
insufficiente.

32. In ordine alla censura relativa
all’utilizzazione di tabelle non aggiornate, sono fondati i rilievi della banca
resistente quanto all’inammissibilità di questo profilo del motivo per difetto
di autosufficienza del ricorso. La sentenza impugnata evoca le tabelle
“milanesi” senza indicare l’anno di riferimento, mentre il ricorrente non
indica gli elementi dai quali si desumerebbe l’uso di tabelle obsolete, né gli
effetti che l’eventuale applicazione delle tabelle vigenti nel 2014 avrebbe
avuto sulla liquidazione del danno.

33. Alla luce delle considerazioni che precedono, il
ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

34. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

35. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in
euro 200,00 per esborsi, euro 4.000,00 per compensi, oltre spese al 15% e
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 giugno 2020, n. 10989
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