Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 giugno 2020, n. 11379

Rapporto di lavoro, Maggiorazioni retributive,
Riconoscimento dell’anzianità per i periodi di lavoro a tempo determinato

 

Fatti di causa

 

1. Il Tribunale di Ancona accoglieva la domanda proposta
da R.M., assunta dal Ministero della Istruzione, della Università e della
Ricerca con reiterati contratti a tempo determinato, e condannava il MIUR al
pagamento in favore della ricorrente delle somme corrispondenti alle
maggiorazioni retributive derivanti dall’applicazione, in misura pari a quelle
dei colleghi assunti a tempo indeterminato, degli aumenti conseguenti
all’anzianità maturata, computata con riferimento a tutti i periodi di
prestazione a tempo determinato.

2. La sentenza era confermata dalla Corte di appello
di Ancona, investita dell’appello dal Ministero.

3. Per quanto qui ancora di interesse, la Corte
riteneva che la condanna al pagamento delle maggiori retribuzioni conseguenti
al riconoscimento della anzianità per i periodi di lavoro a tempo determinato
fosse correttamente fondata sul principio di non discriminazione previsto dalla
clausola 4, punto 1, dell’Accordo quadro recepito dalla direttiva comunitaria.

Respingeva, poi, l’eccezione di prescrizione
ritenendo che nella specie dovesse applicarsi il termine ordinario posto che la
ragione della domanda consisteva non nell’inadempimento di obblighi retributivi
bensì nell’inadeguata trasposizione ed attuazione della direttiva europea 1999/70/CE.

4. Contro la sentenza il Ministero ha proposto
ricorso per cassazione con due motivi.

5. La lavoratrice è rimasta intimata.

6. Non sono state depositate memorie.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo il Ministero, denunciando la
violazione e falsa applicazione del diritto dell’Unione (direttiva 1999/70/CE e dell’accordo quadro ivi
allegato) e di plurime disposizioni normative (artt. 485, 489 e 526 d.lgs. n. 297/1994; artt. 6 e 10 del d.lgs. n. 368/2001; art. 9, comma 18, del d.l. n. 70/2011;
art. 4 I. n. 124/1999; artt. 36 e 45 del d.lgs. n. 165/2001)
e contrattuali (artt. 77, 79 e 106 del c.c.n.I. 29 novembre 2007) assume, in
sintesi, che il ricorso al contratto a termine nell’ambito scolastico risponde
ad esigenze oggettive e temporanee e, pertanto, in assenza della necessaria
continuità del rapporto, non può essere valorizzata a fini retributivi
l’anzianità di servizio. Aggiunge che la contrattazione collettiva ha
equiparato il personale assunto a tempo determinato a quello stabilmente
immesso in ruolo quanto alle ferie, alle festività, ai permessi, ai congedi
ordinari e straordinari, all’aspettativa, alla malattia e dalla maternità,
sicché è da escludere l’ipotizzata discriminazione. Invoca poi la disciplina
dettata dal T.U. in tema di ricostruzione della carriera per sostenere che il
riconoscimento integrale dell’anzianità di servizio prestato in forza di
contratti a termine comporterebbe una discriminazione alla rovescia, ossia in
danno degli assunti a tempo indeterminato.

2. La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., addebita alla
sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2947 cod. civ., dell’art. 2948 cod. civ., dell’art. 4 comma 43 della legge 183 del
2011, dell’art. 36,
comma 5, del d.lgs. n. 165/2001.

Il Ministero sostiene, in sintesi, che la domanda
con la quale l’assunto a tempo determinato rivendica il medesimo trattamento
economico riservato al dipendente a tempo indeterminato non ha natura
risarcitoria bensì retributiva e pertanto il termine di prescrizione è quello
quinquennale previsto dall’art. 2948 cod. civ..
Il ricorrente aggiunge che nella specie non può venire in rilievo l’omessa
trasposizione della direttiva, perché quest’ultima è stata recepita con il d.lgs. n. 368/2001 e precisa che, in ogni caso,
anche così qualificata l’azione sarebbe soggetta al termine quinquennale
fissato dall’art. 4 della legge n.
183/2011. Infine richiama il principio di diritto affermato dalle Sezioni
Unite di questa Corte con la sentenza n. 575/2003
e sostiene che in caso di successione di più contratti a termine tra le stesse
parti, ciascuno dei quali illegittimo ed efficace, il termine dei crediti
retributivi inizia a decorrere per quelli che sorgono nel corso del rapporto
dal giorno della loro insorgenza e per quelli che maturano alla cessazione a
partire da tale momento.

3. Il primo motivo di ricorso è infondato, perché la
sentenza impugnata è conforme all’orientamento, consolidatosi nella
giurisprudenza di questa Corte a partire dalle sentenze
nn. 22558 e 23868 del 2016, secondo cui «nel settore scolastico, la
clausola 4 dell’Accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva n. 1999/70/CE, di diretta applicazione,
impone di riconoscere la anzianità di servizio maturata al personale del
comparto scuola assunto con contratti a termine, ai fini della attribuzione
della medesima progressione stipendiale prevista per i dipendenti a tempo
indeterminato dai c.c.n.I. succedutisi nel tempo, sicché vanno disapplicate le
disposizioni dei richiamati c.c.n.I. che, prescindendo dalla anzianità
maturata, commisurano in ogni caso la retribuzione degli assunti a tempo
determinato al trattamento economico iniziale previsto per i dipendenti a tempo
indeterminato».

3.1. All’affermazione del
principio di diritto, richiamato in numerose pronunce successive (cfr. fra le
tante Cass. n. 30573, 20918, 19270 del 2019 e Cass. nn. 28635, 26356,
26353, 6323 del 2018), la Corte è pervenuta
sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia, la quale da
tempo ha affermato che:

a) la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed
in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente
giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicché la stessa
ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al
giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di
tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario,
qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia
15.4.2008, causa C-268/06, Impact; 13.9.2007,
causa C-307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011,
causa C-177/10 Rosado Santana);

b) il principio di non discriminazione non può
essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di
retribuzioni contenuta nell’art.
137 n. 5 del Trattato (oggi 153 n. 5), “non può impedire ad un
lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di
discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli
lavoratori a tempo indeterminato, allorché proprio l’applicazione di tale
principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del
Cerro Alonso, cit., punto 42);

c) le maggiorazioni retributive che derivano
dall’anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego
ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere
legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una
giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C-177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza
ivi richiamata);

d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di
trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di
contratto, né rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione
fra impiego di ruolo e non di ruolo, perché la diversità di trattamento può
essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che
contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle
caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55; negli
stessi termini Corte di Giustizia 5.6.2018, in causa C-677/16, Montero Mateos, punto 57 e con
riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di
Giustizia 18.10.2012, cause C-302/11 e
C-305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C393/11, Bertazzi).

3.2. I richiamati principi sono stati tutti ribaditi
dalla Corte di Lussemburgo nella motivazione della recente sentenza del
20.6.2019 in causa C-72/18, Ustariz Aróstegui, secondo cui «la clausola 4,
punto 1, dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa osta a
una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che
riserva il beneficio di un’integrazione salariale agli insegnanti assunti
nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in quanto funzionari
di ruolo, con esclusione, in particolare, degli insegnanti assunti a tempo
determinato come impiegati amministrativi a contratto, se il compimento di un
determinato periodo di servizio costituisce l’unica condizione per la
concessione di tale integrazione salariale».

3.3. Sulla base delle indicazioni fornite dalla
Corte di Lussemburgo è stata recentemente decisa la questione, che presenta
analogie con quella oggetto di causa, relativa al riconoscimento, ai fini della
ricostruzione della carriera del personale della scuola successivamente immesso
in ruolo, del servizio prestato in forza di rapporti a termine ed anche in quel
caso è stato ribadito che il principio di non discriminazione impone di
disapplicare la normativa interna che riserva all’assunto a tempo determinato
un trattamento meno favorevole rispetto a quello del quale gode il dipendente
ab origine a tempo indeterminato (Cass. nn. 31149 e 31150 del 2019).

3.4. Non si ravvisano, pertanto, ragioni che possano
indurre il Collegio a rimeditare l’orientamento già espresso, al quale va data
continuità, perché anche in questa sede il Ministero sovrappone e confonde il
principio di non discriminazione, previsto dalla clausola 4 dell’Accordo
quadro, con il divieto di abusare della reiterazione del contratto a termine,
oggetto della disciplina dettata dalla clausola 5 dello stesso Accordo.

Che i due piani debbano, invece, essere tenuti
distinti emerge già dalla lettura della clausola 1, con la quale il legislatore
eurounitario ha indicato gli obiettivi della direttiva, volta, da un lato a
«migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto
del principio di non discriminazione»; dall’altro a «creare un quadro normativo
per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di
contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato».

L’obbligo posto a carico degli Stati membri di
assicurare al lavoratore a tempo determinato ‘condizioni di impiego’ che non
siano meno favorevoli rispetto a quelle riservate all’assunto a tempo
indeterminato ‘comparabile’, sussiste, quindi, anche a fronte della legittima
apposizione del termine al contratto, giacché detto obbligo è attuazione,
nell’ambito della disciplina del rapporto a termine, del principio della parità
di trattamento e del divieto di discriminazione che costituiscono «norme di
diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore
deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela» (Corte di Giustizia
9.7.2015, causa C-177/14, Regojo Dans, punto
32).

3.5. Le considerazioni svolte nel primo motivo di
ricorso prescindono dalle caratteristiche intrinseche delle mansioni e delle
funzioni esercitate, e fanno leva sulla natura non di ruolo del rapporto di
impiego e sulla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, già
ritenuti dalla Corte di Giustizia non idonei a giustificare la diversità di
trattamento (si rimanda alle sentenze richiamate nella lettera d del punto
3.1), nonché sulle modalità di reclutamento del personale nel settore
scolastico e sulle esigenze che il sistema mira ad assicurare, ossia sulle
ragioni oggettive che legittimano il ricorso al contratto a tempo determinato e
che rilevano ai sensi della clausola 5 dell’Accordo quadro, da non confondere,
per quanto sopra si è già detto, con le ragioni richiamate nella clausola 4,
che attengono, invece, alle condizioni di lavoro che contraddistinguono i due
tipi di rapporto in comparazione.

3.6. Non vale, poi, ad escludere la violazione del
principio di non discriminazione la circostanza che ad altri fini (ferie,
festività, permessi, malattia, congedi) siano riconosciute al personale
supplente le medesime garanzie delle quali godono gli assunti a tempo
indeterminato, perché la clausola 4 impone l’equiparazione in tutte le
condizioni di impiego, ad eccezione di quelle che siano oggettivamente
incompatibili con la natura a termine del rapporto.

Il primo motivo, pertanto, va rigettato.

4. Il secondo motivo è inammissibile per le ragioni
già indicate da questa Corte in più pronunce, rese in controversie analoghe e
decise all’esito dell’adunanza camerale del 16.2.2017 (cfr. fra le tante Cass.
nn. 9055, 9698, 9732, 9733, 9740 del 2017).

E’ consolidato il principio secondo cui nel giudizio
di cassazione l’interesse all’impugnazione, che va valutato in relazione ad
ogni singolo motivo, deve essere apprezzato con riferimento all’utilità
concreta che la parte può ricavare dall’eventuale accoglimento del gravame, e
non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione
di una questione giuridica, sicché va escluso ogniqualvolta la dedotta
violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, non abbia spiegato
effetti in relazione alla soluzione adottata e sia, quindi, diretta
all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico (cfr. Cass. n.
20689/2016, Cass. n. 15253/2010, Cass. n. 13373/2008; Cass. n. 11844/2006).

4.1. Dal richiamato principio discende che, nel
rispetto degli oneri di completezza e di specificità imposti dall’art. 366 cod.
proc. civ., il ricorrente è tenuto ad indicare nel ricorso gli elementi che
consentano alla Corte di apprezzare l’utilità che potrebbe derivare
dall’accoglimento del motivo e dalla cassazione della sentenza impugnata.

L’esposizione dei fatti di causa richiesta dal n. 3
del richiamato art. 366 cod. proc. civ. è,
infatti, finalizzata anche a porre il giudice di legittimità nella condizione
di esercitare correttamente i poteri/doveri di cui all’art. 384 cod. proc. civ., commi 2 e 4, che, letto
alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata del processo,
impone alla Corte di cassazione di definire dinanzi a sé il giudizio e di
astenersi dal rinvio ogniqualvolta la prosecuzione si risolverebbe in un
inutile dispendio di attività processuale.

4.2. Nello storico di lite si è evidenziato che la
Corte territoriale ha ritenuto assorbente, per respingere l’eccezione di
prescrizione prospettata ai sensi dell’invocato art.
2948 n. 4 cod. civ., la circostanza che nella specie non si discutesse di
inadempimento di obblighi retributivi, bensì di inadempimento all’obbligo di
trasposizione ed attuazione della direttiva europea. A fronte di tale
motivazione non vi è stata alcuna verifica in merito all’incidenza del termine
quinquennale, sicché era onere del Ministero indicare nel ricorso, nel rispetto
dei principi sopra indicati, gli elementi necessari per consentire la
preliminare verifica sulla rilevanza della questione.

A tanto il Ministero non ha provveduto perché si è
limitato a richiamare la data del deposito del ricorso di primo grado, senza
fornire alcuna precisa indicazioni dei periodi ai quali la domanda si riferisse
ed in quale arco temporale si fossero svolti i rapporti a termine (limitandosi
ad un generico riferimento a “ratei risalenti anche al 2002” privo, peraltro,
del benché minimo riscontro documentale), sicché il motivo deve essere
dichiarato inammissibile, tanto più che detti dati non sono desumibili neppure
dalla sentenza gravata.

5. Ferma la dichiarazione di inammissibilità, il
Collegio ritiene che sussistano le condizioni per una pronuncia d’ufficio ai
sensi dell’art. 363, comma 3, cod. proc. civ.,
sulla questione che il motivo inammissibile di ricorso propone, poiché sulla
natura dell’azione e sul termine di prescrizione alla stessa applicabile non si
rinvengono pronunce di questa Corte ed appare opportuno l’esercizio della
funzione nomofilattica, consentito dalla citata disposizione del codice di
rito, perché la giurisprudenza di merito ha espresso al riguardo orientamenti
difformi.

Da un lato si è ritenuto che la domanda fondata sul
principio di non discriminazione, volta ad ottenere il riconoscimento del
diritto alla progressione economica prevista, in ragione dell’anzianità, per
gli assunti a tempo indeterminato, abbia natura retributiva e soggiaccia, in
quale tale, al termine quinquennale previsto dall’art.
2948 n. 4 cod. civ.; dall’altro che con la stessa si faccia valere una
pretesa di natura risarcitoria, basata sulla violazione del diritto
dell’Unione, e pertanto debbano valere i medesimi principi affermati da questa
Corte, anche a Sezioni Unite, in tema di responsabilità dello Stato conseguente
alla mancata o tardiva attuazione di direttive eurounitarie, responsabilità che
è stata qualificata di natura contrattuale e ritenuta soggetta al termine
decennale di prescrizione.

5.1. Non ritiene il Collegio che quest’ultima
opzione interpretativa possa essere condivisa, in quanto l’orientamento citato
opera nei casi in cui la norma comunitaria, preordinata ad attribuire diritti
ai singoli, non sia dotata del carattere self executing e, pertanto, occorre
che il diritto interno assicuri al destinatario della tutela «una congrua
riparazione del pregiudizio subito per il fatto di non aver acquistato la
titolarità di un diritto in conseguenza della violazione dell’ordinamento
comunitario» (v. Cass. S.U. n.9147/2009).

Non è questa l’ipotesi che ricorre nella fattispecie
giacché, come si è detto al punto 3.1. lett. a), la clausola 4 dell’Accordo
quadro, nell’escludere in via generale ed in termini non equivoci qualsiasi
disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei
lavoratori a tempo determinato, ha carattere incondizionato e può essere fatta
valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare
il diritto dell’Unione, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria
disposizione del diritto interno e riservando all’assunto a termine il medesimo
trattamento previsto per il dipendente a tempo indeterminato.

Ciò implica che la pretesa che il singolo fa valere,
nel rivendicare le stesse condizioni di impiego previste per il lavoratore
comparabile, partecipa della medesima natura della condizione alla quale
l’azione si riferisce e, pertanto, qualora la denunciata discriminazione sia
relativa a pretese retributive, la domanda con la quale si rivendica il
trattamento ritenuto di miglior favore va qualificata di adempimento
contrattuale e soggiace alle medesime regole che valgono per la domanda che
l’assunto a tempo indeterminato potrebbe, in ipotesi, azionare qualora quella
stessa obbligazione non fosse correttamente adempiuta.

Ne discende che, quanto alla prescrizione, non può
essere applicato il termine ordinario decennale in luogo di quello,
quinquennale, previsto dall’art. 2948 n. 4 cod.
civ. per «tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini
più brevi», e dal n. 5 in relazione alle «indennità spettanti per la cessazione
del rapporto di lavoro», perché è quest’ultimo il termine che vale per
l’obbligazione alla quale si riferisce la domanda di equiparazione e perché,
diversamente, si verificherebbe una discriminazione «alla rovescia», nel senso
che al dipendente assunto a termine finirebbe per essere riservato un
trattamento più favorevole rispetto a quello previsto per il lavoratore
comparabile.

5.2. Al riguardo va precisato che è alla normativa
dettata dal codice civile che occorre fare riferimento perché, sebbene nella
fattispecie vengano in rilievo crediti di natura retributiva fatti valere dal
dipendente nei confronti dello Stato, non può trovare applicazione la
disciplina speciale dettata dall’art. 2 del r.d.l. n. 295/1939, nel testo
modificato dall’art. 2 della legge n. 428/1985 e tuttora vigente per il
personale in regime di diritto pubblico, perché la norma, in ragione del suo
carattere di specialità, è divenuta inapplicabile all’impiego pubblico
contrattualizzato ex art.
69 del d.lgs. n. 165/2001. La disposizione, infatti, detta regole che non
possono essere qualificate di contabilità pubblica, giacché incidono
direttamente sui diritti soggettivi che scaturiscono dal rapporto di impiego.

5.2. Quanto, poi, al dies a quo da assumere ai fini
del calcolo del quinquennio, occorre innanzitutto ribadire il principio di
diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte le quali, risolvendo il
contrasto sorto sull’applicabilità ai rapporti a termine succedutisi fra le
stesse parti della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 2948 n. 4 cod. civ., sul presupposto che la
sentenza della Corte Costituzionale n. 63/1966
presuppone l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato non assistito
da stabilità, hanno affermato che «nel caso che tra le stesse parti si
succedano due o più contratti di lavoro a termine, ciascuno dei quali legittimo
ed efficace, il termine prescrizionale dei crediti retributivi di cui agli artt. 2948 n. 4, 2955
n. 2 e 2956 n. 1 cod. civ., inizia a
decorrere per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal
giorno della loro insorgenza e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto
a partire da tale momento, dovendo – ai fini della decorrenza della
prescrizione – i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi
autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri e non potendo
assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo
correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo, stante la
“tassatività” della elencazione delle cause sospensive di cui agli artt. 2941 e 2942 cod.
civ. e la conseguente impossibilità di estendere tali cause al di là delle
fattispecie da quest’ultime norme espressamente previste» (v. Cass., Sez. Un.,
n. 575/2003).

Con la richiamata pronuncia (alla quale è stata data
continuità da Cass. n. 20918/2019; Cass. n.
8996/2018; Cass. n. 14827/2018; Cass. n.
12161/2017; Cass. n. 22146/2014) le Sezioni
Unite hanno osservato che il metus, ritenuto dal Giudice delle leggi motivo
decisivo per addivenire alla dichiarazione di illegittimità costituzionale,
presuppone l’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato nel quale non sia
prevista alcuna garanzia di continuità e, pertanto, quanto al rapporto a termine,
è ravvisabile solo qualora, in conseguenza della riscontrata frode alla legge o
della violazione dei limiti posti dalla normativa succedutasi nel tempo, si
operi una conversione dei diversi contratti in un unico rapporto a tempo
indeterminato e, quindi, «seppure per una fictio iuris, si presentano tutti i
presupposti (esistenza di un unico rapporto lavorativo a tempo indeterminato e
metus) che portano ad escludere – alla stregua dei summenzionati pronunziati
della Corte Costituzionale – la decorrenza della prescrizione sino alla
cessazione del rapporto lavorativo». Invece, nel contratto a termine
legittimamente stipulato, poiché il lavoratore ha solo diritto a che il
rapporto venga mantenuto in vita sino alla scadenza concordata e l’eventuale
risoluzione ante tempus non fa venir meno alcuno dei diritti derivanti dal
contratto, non è configurabile quel metus costituente ragione giustificatrice
della regolamentazione della prescrizione nel rapporto a tempo indeterminato
non assistito dal regime di stabilità reale.

5.3. Le ragioni sottese al principio di diritto
affermato dalle Sezioni Unite in relazione al rapporto di impiego privato
inducono necessariamente a ritenere che nell’ambito dell’impiego pubblico
contrattualizzato, nel quale opera il divieto posto dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001,
anche nell’ipotesi di contratti a termine affetti da nullità debba valere la
medesima regola fissata per i contratti validi ed efficaci, perché, essendo
impedita per legge la conversione in un unico rapporto a tempo indeterminato,
non è riscontrabile la condizione, valorizzata dalla Corte Costituzionale ai
fini della parziale dichiarazione di incostituzionalità e ritenuta
imprescindibile dalle Sezioni Unite, ossia «il timore del recesso, cioè del
licenziamento, che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinunzia
a una parte dei propri diritti» (v. Corte Cost. n.
63/1966).

5.4. Va detto, inoltre, che il giudice delle leggi,
chiamato a pronunciare sulla questione di legittimità costituzionale del
richiamato art. 2 r.d.l. n. 295/1939, oltre a circoscrivere espressamente al
solo impiego privato gli effetti della pronuncia resa con la sentenza n. 63/1966, ha evidenziato che nel
rapporto di pubblico impiego anche per le assunzioni temporanee non è
configurabile una situazione di soggezione psicologica che potrebbe indurre a
non esercitare il diritto, perché l’impiegato è assistito da garanzie contro
l’arbitraria risoluzione anticipata del rapporto ed inoltre perché la non
rinnovazione del rapporto a termine costituisce un «evento inerente alla natura
del rapporto stesso. La previsione di essa non pone, pertanto, il lavoratore in
una situazione di timore di un evento incerto, al quale egli sia esposto
durante il rapporto, qual è il licenziamento nel rapporto di lavoro di diritto
privato» (v. Corte Cost. n. 143/1969).

L’applicabilità degli effetti della pronuncia n.
63/1966 ai soli rapporti di lavoro privati è stata, poi, ribadita dalla Corte
con la sentenza n. 115/1975, con la quale si è
escluso che la prescrizione possa non decorrere in pendenza di rapporto quando
il datore di lavoro sia lo Stato o un ente pubblico, anche se di carattere
economico, perché in tale ultimo caso, pur a fronte della natura privatistica
del contratto, la regolamentazione organica o la disciplina collettiva
assicurano comunque che la fine del rapporto stesso possa essere conseguenza
solo di «cause precise e determinate» (v. Corte
Cost. n. 115/1975).

5.5. Dalle pronunce citate emerge che ciò che va
apprezzato per escludere la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto
non è la mera precarietà in sé del rapporto stesso quanto l’esistenza di una
condizione psicologica di metus, che nel lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni non si presenta in modo analogo a quanto avviene in quello
privato, perché l’azione del datore di lavoro pubblico, istituzionalmente
vincolata al rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità, è
astretta da parametri legali significativi, oltre che da vincoli organizzativi,
che permangono anche dopo la contrattualizzazione dell’impiego e che pongono il
datore di lavoro pubblico, la cui discrezionalità è vincolata dalla legge e
dalla contrattazione collettiva, in condizione di operare sui dipendenti una
pressione decisamente ridotta rispetto a quella che può esercitare il datore
privato.

5.6. In via conclusiva, sulla base delle
considerazioni sopra esposte, va enunciato ex art.
363, comma 3, cod. proc. civ., il seguente principio di diritto:
«Nell’impiego pubblico contrattualizzato la domanda con la quale il dipendente
assunto a tempo determinato, invocando il principio di non discriminazione
nelle condizioni di impiego, rivendica il medesimo trattamento retributivo
previsto per l’assunto a tempo indeterminato soggiace al termine quinquennale di
prescrizione previsto dall’art. 2948 nn. 4 e 5 cod.
civ. che decorre, anche in caso di illegittimità del termine apposto ai
contratti, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal
giorno della loro insorgenza e per quelli che si maturano alla cessazione del
rapporto a partire da tale momento».

6. L’infondatezza del primo motivo e
l’inammissibilità della seconda censura comportano il rigetto del ricorso.

7. Nulla va disposto per le spese non avendo la parte
intimata svolto attività difensiva.

8. Non sussistono le condizioni di cui all’art. 13 c. 1 quater d.P.R. n. 115 del
2002 perché la norma non può trovare applicazione nei confronti di quelle
parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della
prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione
normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del
contributo (v. Cass., Sez. Un., n. 9938/2014; Cass. n. 1778/2016; Cass. n.
28250/2017).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 giugno 2020, n. 11379
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