Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 giugno 2020, n. 11537

Contratto a termine, Superamento della durata massima di 36
mesi, Conversione del rapporto a termine in rapporto di lavoro a tempo
indeterminato

 

Considerato

 

1. Che la Corte d’Appello di Genova, con la sentenza
n. 463 del 2013, ha confermato la sentenza del Tribunale di Chiavari che aveva
accolto, in parte, il ricorso proposto da G.G., assunto a termine dal Comune di
Sestri Levante, con più contratti, quale operatore attività produttive cat. A2
CCNL Enti locali assegnato al servizio di nettezza urbana, nei confronti del
suddetto Comune.

2. Il Tribunale accertava che, in ragione di quattro
contratti a termine (e delle relative proroghe) stipulati inter partes nel
periodo 2 maggio 2005-14 settembre 2010, il rapporto aveva nel complesso
superato la durata massima di 36 mesi, prevista dall’art. 5, comma 4, del d.lgs. n. 368
del 2001.

Rigettava la domanda di conversione del rapporto a
termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, atteso che, in ragione
della natura di ente pubblico del datore di lavoro, trovava applicazione il
divieto di cui all’art. 36,
comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Condannava l’Amministrazione al risarcimento del
danno nella misura di 7,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto,
di cui 2,5 a titolo sanzionatorio dell’illegittimo comportamento datoriale
(pari al minimo previsto dall’art.
32 della legge n. 183 del 2010), e 5 per i patimenti conseguenti
all’incertezza in ordine alle proprie condizioni di vita, lavorative e
materiali (una mensilità per ognuno dei cinque anni in cui si erano dispiegati
i contratti a termine inter partes).

3. La sentenza del Tribunale veniva appellata sia da
G.G. che dal Comune di Sestri Levante.

4. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre G.G., prospettando due motivi di impugnazione.

5. Resiste con controricorso e ricorso incidentale,
articolato in due motivi, il Comune di Sestri Levante, che ha depositato
memoria in prossimità dell’adunanza camerale.

 

Ritenuto

 

1. Che con il primo motivo del ricorso principale è
dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n.
368 del 2001, degli artt.
35 e 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 1 del d.P.R. n. 185 del 1994
– previa eventuale disapplicazione e/o accertamento dell’incostituzionalità
dell’art. 36, comma 5, del
d.lgs. n. 165 del 2001, in riferimento agli artt.
3, 11, 97, 117 della Costituzione – e delle clausole n. 4 e 5
dell’Accordo quadro allegato alla direttiva n.
1999/70 CE (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).

La censura è articolata in più punti, attraverso i
quali, ripercorrendo le disposizioni normative richiamate, si contesta il
mancato accoglimento della domanda di conversione del rapporto di lavoro a
termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Espone il ricorrente che la fattispecie in esame non
sarebbe sussumibile nell’ambito dell’art. 36, comma 5, del d.lgs.
n. 165 del 2001, atteso che il superamento del termine di 36 mesi non
implicava vizio o nullità del contratto o violazione di norma imperativa, e non
erano state esperite procedure selettive o concorsuali per le assunzioni in
questione.

L’art.
35 del d.lgs. n. 165 del 2001, in ragione del quale era avvenuta
l’assunzione, non stabiliva una procedura selettiva, non comportando alcuna
scelta nella selezione del personale, e quindi l’improprio riferimento alla
“selezione”, contenuto, nelle lettere del Comune di Sestri Levante
costituiva solo lo strumento per la verifica degli ulteriori requisiti di
professionalità eventualmente richiesti.

I rapporti di lavoro erano stati costituiti
nell’ambito dell’ avviamento degli iscritti alle liste di collocamento,
richiedendosi il solo requisito della scuola dell’obbligo, come poteva
evincersi dalla delibera GR 859/04.

Doveva, pertanto, trovare applicazione l’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n.
368 del 2001, che consente la conversione del rapporto.

È dedotta l’illegittimità costituzionale dell’art. 36, comma 5, del d.lgs.
n. 165 del 2001, con riferimento alle assunzioni ex art. 35, comma 1, lettera b),
e/o sua disapplicazione per contrasto con la direttiva 70/99 CE (art. 4),
rilevandosi disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati.

II lavoratore, a sostegno delle proprie
argomentazioni, richiama la sentenza di questa Corte n. 9555 del 2010.

2. Con il secondo motivo di ricorso, in subordine,
si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183
del 2010, e la violazione del principio di ragionevolezza
nell’individuazione del criterio di liquidazione del danno, violazione dell’art. 1453 e ssg. cod. civ. (art. 360 n. 3, cod. proc. civ.), ovvero
incostituzionalità dell’art. 32,
comma 5, della legge n. 183 del 2010, per violazione degli artt. 3, 11 e 117 della Costituzione, e delle clausole n. 4 e 5
dell’Accordo quadro di cui alla direttiva n. 70/99
CE (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).

Il ricorrente, con plurime argomentazioni, anche in
ragione della giurisprudenza della Corte di Giustizia, censura il criterio con
cui si è proceduto alla liquidazione del danno, che a proprio avviso doveva
essere effettuata secondo quanto previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del
1970, nel testo previgente alle modifiche introdotte dalla legge n. 92 del 2012, ratione temporis.

3. I suddetti motivi devono essere trattati
congiuntamente, in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.

3.1. Va premesso che il lavoratore non ha
contestato, con la necessaria indicazione dei criteri dell’ermeneutica
contrattuale che sarebbero stati violati, l’interpretazione della
documentazione in atti vagliata dalla Corte d’Appello, da cui risultava che per
ciascuno dei contratti stipulati con il Garau, l’Amministrazione si era avvalsa
della forma di reclutamento prevista dall’art. 35, comma 1, b), del
d.lgs. n. 165 del 2001.

Pertanto, viene in rilievo la censura con la quale
il lavoratore si duole dell’interpretazione che è stata data di tale normativa,
avendo ritenuto la Corte d’Appello che la stessa implichi comunque una
selezione funzionale alla tutela degli interessi costituzionalmente protetti
dall’art. 97 Cost., in ragione dei quali è
previsto il divieto di trasformazione di cui all’art. 36, comma 5, del d.lgs.
n. 165 del 2001.

3.2. Preliminarmente, si rileva che la sentenza di
questa Corte n. 9555 del 2010, richiamata dal
ricorrente a sostegno delle proprie argomentazioni, decideva in relazione ad
una fattispecie diversa rispetto a quella oggetto della presente controversia,
venendo in rilievo il rapporto di lavoro fra l’INAIL ed i portieri addetti alla
vigilanza e custodia di edifici di proprietà dello stesso.

La Corte nella citata pronuncia ha affermato che
detto rapporto di lavoro, pur essendo di pubblico impiego, era disciplinato,
nel suo contenuto, da un contratto collettivo di natura privatistica; da ciò la
sentenza citata faceva discendere che pur rientrando il suddetto rapporto di
lavoro nella generale nozione di pubblico impiego, lo stesso non poteva essere
ricondotto agli specifici rapporti di impiego pubblico di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70 e succ. modifiche.

3.3. Nella specie, come espone lo stesso ricorrente
(pag. 2 del ricorso), invece il rapporto di lavoro di impiego pubblico
privatizzato è regolato dal CCNL Enti locali, e trova applicazione il d.lgs. n. 165 del 2001, atteso che ai sensi
dell’art. 1, comma 1: “Le disposizioni del presente decreto disciplinano
l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche (…)” e, come prevede il comma
2: “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni
dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le
istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento
autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro
consorzi e associazioni (…)”.

3.4. Quanto al mancato rilievo che avrebbero nella
specie i principi del pubblico concorso che sottendono l’art. 36, comma 5, del d.lgs.
n. 165 del 2001, come già affermato nella sentenza
n. 6775 del 2017, l’art. 16
della legge 28 febbraio 1987, n. 56, come modificato dall’art. 4 del decreto-legge n. 86 del
1988, convertito dalla legge 20 maggio 1988 n.
160 aveva stabilito “Le Amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, gli enti pubblici non economici a carattere nazionale, e
quelli che svolgono attività in una o più regioni, le province, i comuni e le
unità sanitarie locali effettuano le assunzioni dei lavoratori da inquadrare
nei livelli retributivo-funzionali per i quali non é richiesto il titolo di
studio superiore a quello della scuola dell’obbligo, sulla base di selezioni
effettuate tra gli iscritti nelle liste di collocamento ed in quelle di
mobilità, che abbiano la professionalità eventualmente richiesta e i requisiti
previsti per l’accesso al pubblico impiego. Essi sono avviati numericamente
alla sezione secondo l’ordine delle graduatorie risultante dalle liste delle
circoscrizioni territorialmente competenti”.

La norma è stata nella sostanza trasfusa nel d.lgs. 29 febbraio 1993, n. 29,
art. 36, in parte poi recepito dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165,
che all’art. 35, comma 1, testualmente, prevede “L’assunzione nelle
amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro: a)
tramite procedure selettive, conformi ai principi del comma 3, volte
all’accertamento della professionalità richiesta, che garantiscano in misura
adeguata l’accesso dall’esterno; b) mediante avviamento degli iscritti nelle
liste di collocamento ai sensi della legislazione vigente per le qualifiche e
profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo,
facendo salvi gli eventuali ulteriori requisiti per specifiche professionalità”.

3.5. Sul punto, le Sezioni Unite di questa Corte,
con la sentenza n. 4685 del 2015, hanno osservato che “la circostanza che
con l’art. 35 (del d.lgs.
n. 165 del 2001) le assunzioni di alcune categorie di pubblici dipendenti
possano avvenire mediante espletamento di procedure selettive, o mediante
avviamento dei soggetti iscritti nelle liste di collocamento, rappresenta,
dunque, una semplificazione dello strumento tecnico (il pubblico concorso), ma
non il superamento delle esigenze di trasparenza ed imparzialità insite nel
concetto di concorsualità volute dalla norma costituzionale”.

La sentenza da ultimo citata, ha, altresì, ricordato
che la Corte Costituzionale (sentenza del n. 159 del 2005) ha statuito che il
concorso pubblico costituisce la forma generale ed ordinaria di reclutamento
per il pubblico impiego, in quanto meccanismo strumentale all’efficienza
dell’Amministrazione, e che a tale regola può derogarsi solo in presenza di
peculiari situazioni giustificatrici, nell’esercizio di una discrezionalità che
trova il suo limite nella necessità di garantire il buon andamento della
pubblica Amministrazione ed il cui vaglio di costituzionalità passa attraverso
una valutazione di ragionevolezza della scelta del legislatore; la regola
stessa può ritenersi rispettata solo qualora le selezioni non siano
caratterizzate da arbitrarie ed irragionevoli forme di restrizione dei soggetti
legittimati a parteciparvi.

3.6. Pertanto, va disattesa la deduzione del
ricorrente circa la non riferibilità all’art. 36, comma 5, del d.lgs.
n. 165 del 2001, della fattispecie in esame, in quanto l’assunzione da
parte del Comune era avvenuta a seguito di avviamento degli iscritti alle liste
di collocamento, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. b),
del d.lgs. n. 165 del 2001, atteso che anche in questo caso vanno
salvaguardati e trovano applicazione i principi di buon andamento, trasparenza
ed imparzialità dell’Amministrazione (art. 97 Cost.)
che sottendono la regola del pubblico concorso e la disciplina di cui all’art. 36, comma 5, del d.lgs.
n. 165 del 2001.

Nel pubblico impiego privatizzato, anche per i
rapporti di lavoro a termine posti in essere dalle pubbliche amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2, del
d.lgs. n. 165 del 2001, mediante avviamento degli iscritti nelle liste di
collocamento per le qualifiche e profili per i quali è richiesto il solo
requisito della scuola dell’obbligo, facendo salvi gli eventuali ulteriori
requisiti per specifiche professionalità, trova applicazione l’art. 36, comma 5, del medesimo
d.lgs. n. 165 del 2001, e dunque il divieto di trasformazione del rapporto
di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in caso di
abusiva reiterazione.

3.7. L’art. 36, comma 5, del d.lgs.
n. 165 del 2001, si sottrae a dubbi di costituzionalità, in quanto, come si
è affermato, concorre ad attuare il precetto costituzionale dettato dall’art. 97 Cost., e non dà luogo a disparità di
trattamento in ragione delle peculiarità dell’impiego pubblico
contrattualizzato, come già affermato da questa Corte e dalla CGUE.

Come già statuito nella sentenza
n. 11595 del 2016, il lavoro pubblico e il lavoro privato non possono
essere totalmente assimilati (Corte costituzionale sentenze
n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le
differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della
contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze
delle pubbliche amministrazioni, e che la medesima eterogeneità dei termini
posti a raffronto connota l’area del lavoro pubblico contrattualizzato e l’area
del lavoro pubblico estraneo alla regolamentazione contrattuale (Corte cost., sentenza n. 178 del 2015): in
particolare i principi costituzionali di legalità ed imparzialità concorrono
comunque a conformare la condotta della Pubblica amministrazione e l’esercizio
delle facoltà riconosciutele quale datore di lavoro pubblico in regime
contrattualizzato.

L’art.
36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, come peraltro ricorda lo stesso
ricorrente, è già stata ritenuta dalla Corte costituzionale non in contrasto
con gli artt. 3 e 97
Cost. (sentenza n. 89 del 2003).

3.8. La Corte di Giustizia, nel vagliare la
compatibilità dell’art. 36,
comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, con la clausola 5 dell’accordo-quadro
sul lavoro a tempo determinato, e con il principio di uguaglianza e non
discriminazione, nell’ordinanza 1° ottobre 2010, in causa C-3/10, Affatato, ha
affermato: “la clausola 5 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel
senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 36, quinto comma, del d.
Igs. n. 165 del 2001, la quale, nell’ipotesi di abuso derivante dal ricorso
a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione da un datore
di lavoro del settore pubblico, vieta che questi ultimi siano convertiti in un
contratto di lavoro a tempo indeterminato quando l’ordinamento giuridico
interno dello Stato membro interessato prevede, nel settore interessato, altre
misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a
contratti a tempo determinato stipulati in successione. Spetta tuttavia al
giudice del rinvio accertare se le condizioni di applicazione nonché
l’attuazione effettiva delle pertinenti disposizioni di diritto interno
configurino uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare il
ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a contratti o a
rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione”.

3.9. Vanno, altresì richiamate, in particolare con
riguardo al secondo motivo del ricorso, la sentenza CGUE Marrosu -Sardino
C-53/04, la sentenza di questa Corte, a Sezioni
Unite n. 5072 del 2016, e la sentenza della CGUE Santoro C-494/16.

3.10. Con la sentenza Marrosu-Sardino la CGUE
ribadiva che la direttiva 1999/70 e l’Accordo
quadro si applicano ai contratti e ai rapporti di lavoro a tempo determinato
conclusi con le amministrazioni e altri enti del settore pubblico.

Affermava che la clausola 5 dell’accordo quadro non
osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al
ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati
in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore
di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante
nel settore pubblico.

Tuttavia, l’ordinamento giuridico interno dello
Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura
effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di
contratti a tempo determinato stipulati in successione.

3.11. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione con
la sentenza n. 5072 del 2016, hanno statuito
proprio rispetto alla portata applicativa e alla parametrazione del danno
risarcibile ai sensi dell’art.
36 del d.lgs. n. 165 del 2001, in presenza di abusiva reiterazione dei
contratti a termine.

Le Sezioni Unite, preliminarmente, hanno ribadito
l’attualità del divieto, già affermata dalla giurisprudenza di legittimità, di
conversione del rapporto di lavoro illegittimo il rapporto a tempo indeterminato.

Le Sezioni Unite hanno poi chiarito che il
pregiudizio economico oggetto di risarcimento non può essere collegato alla
mancata conversione del rapporto: quest’ultima, infatti, è esclusa per legge e
trattasi di esclusione legittima sia secondo i parametri costituzionali che
secondo quelli comunitari.

Piuttosto, considerato che l’efficacia dissuasiva
richiesta dalla clausola 5 dell’Accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE postula una disciplina
agevolatrice e di favore che consenta al lavoratore che abbia patito la
reiterazione di contratti a termine di avvalersi di una presunzione di legge
circa l’ammontare del danno, che sarà normalmente correlato alla perdita di
chance di altre occasioni di lavoro stabile, le Sezioni Unite, con la citata
sentenza, hanno rinvenuto nell’art.
32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, una disposizione idonea allo
scopo, nella misura in cui, prevedendo un risarcimento predeterminato tra un
minimo ed un massimo, consente pro tanto al lavoratore di essere esonerato
dall’onere della prova, fermo restando il suo diritto di provare di aver subito
danni ulteriori.

3.12. I principi enunciati dalle Sezioni Unite hanno
trovato conferma nella sentenza della Corte di Giustizia 7 marzo 2018,
C-494/16, Santoro – richiamata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 248
del 2018 – alla luce della quale deve disattendersi la censura prospettata con
riguardo al contrasto del criterio di liquidazione adottato dalla Corte
d’Appello con la disciplina euro unitaria.

Infine, va rilevato che la Corte costituzionale, già
con la sentenza n. 303 del 2011 nel vagliare
l’art. 32, comma 5, della legge
n. 183 del 2010, aveva ritenuto la norma ragionevole in quanto diretta ad
introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed
omogenea applicazione.

In considerazione di ciò, ma anche tenuto conto
della sentenza S.U. 5076 del 2016, le cui ragioni giuridiche della decisione si
richiamano, ai sensi dell’art. 118, primo comma,
disp. att. cod. proc. civ., e della sentenza CGUE Santoro, la norma si
sottrae al dubbio di costituzionalità.

3.13. La sentenza della Corte d’Appello di Genova,
sebbene antecedente a parte del richiamato sviluppo giurisprudenziale, è
conforme ai principi che sono stati affermati da questa Corte, pertanto, il
ricorso principale deve essere rigettato.

4. Con il primo motivo del ricorso incidentale è
dedotta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione
all’art. 2043 cod. civ., nella parte in cui
tale disposizione richiede un danno ingiusto per l’obbligazione risarcitoria
mentre, al contrario, la sentenza gravata ritiene che possa ritenersi una
responsabilità della P.A. in assenza di colpa e senza che sia stata violata la
normativa applicabile.

Nella specie non vi era stata la violazione di norme
imperative, atteso che, mentre il ricorrente aveva dedotto non l’illegittimità
del protrarsi dei contratti, ma l’illegittimo potere di scelta del datore di
lavoro (scelta diretta e non all’esito di procedure concorsuali), le modalità
di scelta del lavoratore da parte del Comune avevano rispettato le regole sulla
selezione del personale. Inoltre, non vi era stato danno ingiusto.

5. Con il secondo motivo di ricorso il Comune
prospetta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione
agli artt. 2043 cod. civ. e 36 del d.lgs. n. 165 del 2001,
in tema di quantificazione del danno.

Assume il ricorrente incidentale che il danno
avrebbe dovuto essere A riconosciuto solo in ragione della prova dello stesso.

Nella memoria, l’appellante incidentale dà atto
della sentenza S.U. n. 5076 del 2016, e chiede che comunque la sentenza di
appello sia cassata con rinvio, atteso che quest’ultima è stata pronunciata in
precedenza.

4.1. I suddetti motivi devono essere trattati
congiuntamente, in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.

Come affermato dalla Corte d’Appello (pag.4 della
sentenza di appello), il Garau non contestava la legittimità del termine
apposto ai singoli contratti e alle relative proroghe, ma il complessivo
superamento del termine di durata di 36 mesi, a cui sarebbe conseguito in
mancanza dell’espletamento di procedure selettive, la non operatività del
divieto di trasformazione.

La Corte d’Appello ha poi confermato la sentenza del
Tribunale che ha riconosciuto al lavoratore il diritto al risarcimento del
danno in ragione dell’illegittima reiterazione dei contratti a termine, in
violazione della clausola 5 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato,
cui ha dato attuazione il d.lgs. n. 368 del 2001.

Né il ricorrente incidentale ha contestato in modo
circostanziato la qualificazione della domanda effettuata dalla Corte d’Appello
e l’accertata abusiva reiterazione dei contratti a termine, protrattasi oltre i
36 mesi.

Trova, pertanto, applicazione la sentenza di questa
Corte a Sezioni Unite, n. 5076 del 2016, già sopra richiamata ex art. 118 disp. att. cod. proc. civ. Anche se la
stessa è intervenuta successivamente alla sentenza della Corte d’Appello, è
corretta la statuizione di quest’ultima che, nell’escludere la trasformazione,
ha riconosciuto il risarcimento del danno facendo applicazione dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183
del 2010.

10. Pertanto il ricorso incidentale deve essere
rigettato.

11. La Corte rigetta entrambi i ricorsi.

12. In ragione della reciproca soccombenza le spese
di giudizio sono compensate tra le parti.

13. Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso
principale e per quello incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta entrambi i ricorsi. Compensa tra le parti le
spese di giudizio.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso
principale e per quello incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 giugno 2020, n. 11537
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: