Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 giugno 2020, n. 11705

Licenziamento per giusta causa, Natura ritorsiva,
Reintegrazione in servizio, Risarcimento del danno ex art. 18 I. n. 300/1970

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 7544/2017, depositata il 10
novembre 2017, la Corte di appello di Napoli ha confermato la decisione di
primo grado, con la quale il Tribunale della stessa sede, pronunciando nel
giudizio di opposizione, aveva dichiarato la nullità, in quanto ritorsivo, del
licenziamento per giusta causa intimato da N.S. S.p.A., in data 15/12/2014, al
proprio dirigente F.B., con conseguente ordine di reintegrazione in servizio
dello stesso e condanna della società al risarcimento del danno ex art. 18 I. n. 300/1970, come
modificato dalla I. n. 92/2012.

2. La Corte ha, in primo luogo, ritenuto
ingiustificato e pretestuoso il licenziamento, alla stregua delle risultanze
delle prove, testimoniali e documentali, acquisite; lo ha inoltre ritenuto di
natura ritorsiva, osservando come il non agevole assolvimento dell’onere della
prova al riguardo, da parte del lavoratore, possa essere conseguito anche
attraverso l’utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non
secondario l’inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del
recesso o di alcun motivo ragionevole: e nella specie – ha osservato ancora la
Corte – la sentenza reclamata aveva tratto dai fatti noti (infondatezza e
genericità degli addebiti; contenzioso in corso per una questione retributiva;
progressiva emarginazione del dirigente e quasi totale sua esautorazione dalle
funzioni ricoperte, realizzatasi nel periodo immediatamente precedente il
licenziamento) la conseguenza, del tutto ragionevole, che il recesso avesse
avuto natura effettivamente ritorsiva.

3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per
cassazione la N.S. S.p.A., affidandosi a tre motivi, cui ha resistito il
lavoratore con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo viene dedotta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 1418 e 2954 ss. cod. civ., 4 e 10 I. n. 604/1966, 18 I. n. 300/1970, 3 I. n. 108/1990, 1 comma 42 I. n. 92/2012, nonché
la violazione e falsa applicazione dell’art. 34 C.C.N.L. 2/1/2014 per i
dirigenti del terziario: si censura la sentenza impugnata per non avere
considerato che il difetto di prova degli addebiti contestati al dirigente
comporta esclusivamente che il licenziamento dello stesso è privo di
giustificazione, con l’effetto di costituire il diritto alla indennità
supplementare prevista dalla contrattazione collettiva, ma non può condurre a
ritenerne la natura ritorsiva, con la conseguente applicazione del più incisivo
regime di tutela stabilito dall’art.
18 I. n. 300/1970; si censura inoltre la sentenza per non essersi avveduta,
nel fare ricorso al procedimento presuntivo ai fini dell’indagine circa la
natura ritorsiva del licenziamento, che la presunzione costituisce un mezzo di
prova dei fatti e non di qualificazione dei medesimi ovvero degli intenti
psicologici ad essi sottesi.

2. Con il secondo motivo viene dedotto il vizio di
cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. per
omesso esame del fatto decisivo per il giudizio, ed oggetto di discussione fra
le parti, costituito dalla collocazione del licenziamento del dirigente nel
quadro dei provvedimenti giudiziari della Corte dei Conti e del Tribunale di
Napoli che lo avevano riguardato.

3. Con il terzo viene dedotta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 4 I.
n. 604/1966, 18 I. n.
300/1970, 3 I. n. 108/1990,
1 comma 42 I. n. 92/2012 e 34
C.C.N.L. cit., nonché vizio di motivazione per omesso esame della
documentazione prodotta in sede di merito, tale da comprovare la fondatezza
degli addebiti, indipendentemente dalle risultanze della prova testimoniale, e
da escludere di conseguenza il carattere ritorsivo del licenziamento.

4. Il primo motivo è infondato.

5. La Corte di appello di Napoli ha invero fatto
esatta applicazione del principio di diritto, secondo il quale “il
licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta – assimilabile a quello
discriminatorio, vietato dagli artt.
4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970
e 3 della legge n. 108 del 1990
– costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo
del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata
nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo
ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia
fornito prova, anche con presunzioni” (Cass.
n. 17087/2011).

6. In particolare, si è osservato, in detta pronuncia,
come il licenziamento ritorsivo sia stato ricondotto dalla giurisprudenza di
legittimità “data l’analogia di struttura, alla fattispecie di
licenziamento discriminatorio, vietato dalla I. n. 604 del 1966, art. 4,
della I. n. 300 del 1970, art.
15, e della I. n. 108 del
1990, art, 3, interpretate in maniera estensiva, che ad esso riconnettono
le conseguenze ripristinatorie e risarcitone di cui all’art. 18 I. n. 300/1970 (cfr.,
da ultimo, Cass. 18 marzo 2011 n. 6282). Ciò
posto, va ribadita la regola che l’onere della prova della esistenza di un
motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la
volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio. Trattasi di
prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni,
tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della
inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di
alcun motivo ragionevole”.

7. In aderenza a Cass.
n. 17087/2011 (conf. n. 24648/2015) è
stato di recente ribadito che “l’onere della prova del carattere ritorsivo
del licenziamento grava sul lavoratore, ben potendo, tuttavia, il giudice di
merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al
giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo
oggettivo, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri,
nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta,
anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. n. 23583/2019).

8. Il secondo motivo risulta inammissibile, in virtù
della preclusione di cui all’art. 348 ter, ultimo
comma, cod. proc. civ. (c.d. “doppia conforme”) e a fronte di
giudizio di appello introdotto con ricorso depositato in data successiva
all’entrata in vigore della norma.

9. Né la ricorrente, al fine di evitare
l’inammissibilità del motivo, ha indicato “le ragioni di fatto poste a
base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di
rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse” (Cass.
n. 5528/2014; conformi: n. 19001/2016; n. 26774/2016; n. 20994/2019).

10. Il terzo motivo risulta egualmente
inammissibile.

11. Esso, infatti, svolge – nella sostanza della
censura proposta, incentrata per intero sull’omesso esame della documentazione
prodotta dalla società datrice di lavoro – una critica di ordine puramente
motivazionale, alla quale possono applicarsi le medesime considerazioni sub 8 e
9.

12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per
esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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