Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 giugno 2020, n. 11706

Licenziamento, Illegittimità, Risarcimento del danno,
Determinazione

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 2287/2018, pubblicata il 13
giugno 2018, la Corte di appello di Roma, decidendo in sede di rinvio a seguito
di Cass. n. 10609/2015 che aveva ritenuto l’omessa pronuncia sulle eccezioni di
aliunde perceptum e di aliunde percipiendum, ha riformulato la pronuncia di
condanna di D.A.M. E. di D.P. & C. S.n.c., in solido con i suoi soci D.P.,
A.P. e M.D.F., al risarcimento dei danni in favore di S.L. per il licenziamento
alla medesima intimato il 17/12/2005, nel senso di limitarla: (a) al pagamento,
senza alcuna detrazione, delle retribuzioni da tale data al 31/12/2010, e cioè
in sostanza fino alla sentenza di primo grado, emessa il 10/12/2010; (b) al
pagamento delle differenze tra le retribuzioni mensili e l’aliunde perceptum,
quale risultante dai modelli CUD, per il periodo dall’1/1/2011 al 31/12/2012;
(c) al pagamento delle differenze, a titolo di aliunde percipiendum, tra le
retribuzioni mensili e l’importo complessivo annuo di euro 4.000,00 – quale
media annuale della retribuzione percepita negli anni precedenti da altro
datore di lavoro – in relazione al periodo dall’1/1/2013 al ripristino del
rapporto di lavoro. Con la compensazione per metà delle spese di lite,
relativamente all’intero giudizio.

2. A sostegno della propria decisione la Corte ha
considerato di non poter tenere conto delle eccezioni per il periodo precedente
la sentenza di primo grado, sul rilievo che le stesse non risultavano proposte
dai resistenti e che le relative circostanze di fatto, e in particolare la
rioccupazione della lavoratrice, non erano emerse come elemento acquisito al
processo; ha inoltre osservato che il datore di lavoro nulla aveva dedotto in
ordine a circostanze che potessero giustificare la tardività dell’eccezione,
quanto al periodo del giudizio di primo grado.

2.1. Ha poi considerato di non poter tenere conto di
quanto dedotto dal datore di lavoro in ordine al ritardo nella instaurazione
della lite rispetto al licenziamento, trattandosi di deduzione relativa al
periodo antecedente al deposito del ricorso introduttivo e che, pertanto,
doveva essere tempestivamente allegata nel giudizio di primo grado.

3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per
cassazione la D.A.M. E. di D.P. & C. S.n.c. con unico articolato motivo,
cui ha resistito la lavoratrice con controricorso, assistito da memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il motivo proposto la ricorrente denuncia la
violazione o falsa applicazione del principio di diritto enunciato nella
sentenza rescindente, degli artt. 115, 116 e 167 cod. proc.
civ. e dell’art. 1227 cod. civ., nonché la
violazione o falsa applicazione del principio della compensano lucri cum damno
e dell’art. 18 della I. n.
300/1970:

a) con riferimento al mancato scomputo dell’aliunde
perceptum per il periodo dal 17/12/2005 al 31/12/2010, non avendo la Corte di
appello, in sede di rinvio, tenuto nella necessaria considerazione quanto
statuito nella sentenza (rescindente) n. 10609/2015, e cioè che “il giudice
deve tenere conto anche d’ufficio, ai fini della quantificazione del danno
provocato dal licenziamento illegittimo, del c.d. aliunde perceptum laddove,
come nella specie, la rioccupazione del lavoratore costituisca allegazione in
fatto ritualmente acquisita al processo (Cass. 21
aprile 2009 n. 9464 e Cass. 29 novembre 2013
n. 26828)”, ed inoltre avendo trascurato di rilevare che la
lavoratrice non aveva formulato alcuna contestazione, di fronte a fatti
specificamente allegati, né aveva offerto alcuna prova in ordine alla
permanenza del suo stato di disoccupazione;

b) con riferimento al mancato scomputo dell’aliunde
perceptum per indennità di maternità, avendo la Corte erroneamente ritenuto che
i relativi periodi fossero irrilevanti perché antecedenti la sentenza di primo
grado, senza valutare che la nascita del figlio della L. era stata conosciuta
dal datore di lavoro soltanto in epoca successiva alla pronuncia della sentenza
e che esso era comunque un fatto incontestato e documentato;

c) con riferimento al mancato e/o non corretto
scomputo dell’aliunde percipiendum, avendo la Corte accolto la relativa
eccezione esclusivamente per il periodo successivo al 2012, e non anche per il
periodo dal 17/12/2005 al 31/12/2010, sebbene la lavoratrice, che ne era
onerata, non avesse provato di aver posto in essere con la dovuta diligenza
adempimenti utili a consentirle il reperimento di un lavoro anche per i mesi in
cui era rimasta inoccupata;

d) con riferimento al ritardo nel deposito del
ricorso rispetto alla data del licenziamento, avendo la Corte di appello
erroneamente ritenuto che la questione non fosse stata tempestivamente proposta
nel giudizio di primo grado, mentre essa vi aveva formato oggetto di
allegazione, e, con riferimento all’invito a riprendere il lavoro, avendo
erroneamente ritenuto che la lettera della società in data 27/1/2011 fosse
ininfluente ai fini della dimostrazione della cessazione del rapporto, in
quanto priva della cartolina di ricevimento, senza considerare la genericità
della contestazione svolta dalla lavoratrice e la conseguente acquisizione al
giudizio della prova del fatto;

e) con riferimento infine alla condanna alle spese
processuali, non avendo la Corte tenuto conto del comportamento posto in essere
dalla lavoratrice, comportamento che avrebbe dovuto indurre alla loro
compensazione o, in subordine, alla loro riduzione nella misura minima.

2. Il ricorso deve essere respinto.

3. Si osserva preliminarmente che nel procedimento
per cassazione, che non consente alcuna forma di istruzione probatoria, è
preclusa la produzione di documenti ovvero di altre cose materiali che servano
come mezzi di prova di fatti posti a fondamento della domanda o delle eccezioni
delle parti miranti ad introdurre nuove circostanze che non siano quelle
riguardanti la nullità della sentenza o l’inammissibilità del ricorso o del
controricorso (Cass. n. 18595/2003).

3.1. Ne consegue che non possono trovare ingresso
nel presente giudizio le lettere con avviso di ricevimento prodotte in allegato
al ricorso per cassazione.

4. Le censure svolte sub (a) sono infondate.

4.1. Con ordinanza n. 22530/2016, pronunciando sul
ricorso per revocazione proposto dalla lavoratrice nei confronti della sentenza
rescindente n. 10609/2015, questa Corte ha già precisato che la sentenza
impugnata “si limita a rilevare l’omissione di pronuncia in ordine
all’aliunde perceptum rinviando la relativa indagine ed il relativo esame alla
Corte di appello di Roma in diversa composizione, sicché sotto tale profilo
deve rilevarsi la mancanza di ogni decisività del preteso errore, non potendo
assumersi che la decisione della Corte di Cassazione sarebbe stata diversa, in
ragione della considerazione che la valutazione dell’assunta tardività
dell’allegazione dell’aliunde compete al giudice del merito, chiamato a
pronunciarsi su un motivo di gravame sul quale era mancata ogni
pronuncia”.

4.1.1. Ne consegue che correttamente la Corte di
appello, in sede di giudizio di rinvio, ha proceduto a valutare i profili di
tempestività e fondatezza delle eccezioni, escludendo che l’inciso “come
nella specie”, presente all’interno del percorso argomentativo della sent.
n. 10609/2015, potesse comportare un qualsiasi limite o vincolo all’indagine
che le era stata completamente demandata e, in esito a tale verifica,
esattamente considerando – alla stregua di consolidato orientamento di
legittimità e dello stesso principio richiamato nella sentenza rescindente (Cass. n. 9464/2009; Cass.
n. 26828/2013) – di non poter tenere conto delle eccezioni sollevate dalla
società in relazione al periodo anteriore alla sentenza di primo grado, in
quanto non proposte da alcuna delle parti resistenti nel relativo giudizio ma
soltanto nel grado di appello.

4.2. Anche il secondo profilo di censura, di cui
alla lett. a), non può trovare accoglimento, sia per difetto del requisito
previsto dall’art. 366, co. 1°, n. 6 cod. proc. civ.,
non avendo la ricorrente trascritto o comunque specificamente indicato il
contenuto del verbale da cui risulterebbe l’assenza di una contestazione
precisa e puntuale, da parte della lavoratrice, dei fatti allegati dalla
società; sia perché la Corte ha ritenuto che le circostanze relative all
‘aliunde perceptum e all’aliunde percipiendum “ed in particolare la
rioccupazione non emergevano affatto come elemento acquisito al processo”
(cfr. sentenza, pag. 8) e tale accertamento di fatto non ha costituito oggetto
di idonea censura, da formularsi non già per violazione o falsa applicazione
degli artt. 115 e 116
cod. proc. civ. ma attraverso il corretto paradigma normativo del difetto
di motivazione e dunque nei limiti consentiti dall’art.
360 n. 5 cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 d.l. n. 83/2012,
convertito con modificazioni dalla I. n. 134/2012
(Cass. n. 23940/2017).

4.3. Resta fermo il principio, per il quale l’onere
della prova relativo all’aliunde perceptum e all’aliunde percipiendum compete
al datore di lavoro, posto che la circostanza che il lavoratore ingiustamente
licenziato abbia, nelle more del giudizio, lavorato e percepito comunque un
reddito rappresenta un fatto impeditivo della pretesa attorea e deve di
conseguenza essere provato da colui che lo eccepisce, non da chi invoca il
risarcimento, in applicazione del generale precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. (Cass. n. 1636/2020); si
richiama altresì Cass. n. 9616/2015, con cui è
stato ribadito che il datore di lavoro, che contesti la richiesta risarcitoria
pervenutagli dal lavoratore, è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni
semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a
nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione
del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore
abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova
assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (conforme Cass. n. 23226/2010).

5. I medesimi rilievi portano a ritenere infondata
anche la censura svolta alla lettera b), rispetto alla quale risulta, tuttavia,
assorbente il principio, secondo il quale le indennità previdenziali non
possono essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato
a titolo di risarcimento danni in favore del lavoratore, in quanto queste non
sono acquisite in via definitiva dal lavoratore e sono ripetibili dagli
istituti previdenziali (Cass. n. 8150/2018;
conforme, fra le molte, Cass. n. 3597/2011).

6. La censura di cui alla lettera c) è parimenti
infondata, dovendosi ribadire quanto già osservato sub 4.3. e cioè che l’onere
della prova con riguardo all’eccezione di aliunde percipiendum è a carico
esclusivo del datore di lavoro.

7. La censura di cui alla lettera d) è
inammissibile, per considerazioni analoghe a quelle svolte sub 4.2., non avendo
la ricorrente dimostrato se, e in quali termini, attraverso la trascrizione dei
passaggi rilevanti dei propri scritti difensivi o del verbale di causa, avesse

– già nel giudizio di primo grado, diversamente da
quanto ritenuto dalla Corte di appello – sollevato la questione del ritardo con
cui il ricorso era stato depositato in confronto alla data del licenziamento; e
altresì non avendo adeguatamente censurato quella parte della motivazione della
sentenza impugnata in cui la Corte ha accertato come la L., presa visione solo
in sede di rinvio della produzione della lettera di invito a riprendere il
lavoro, avesse “contestato sia la tempestività della produzione sia il
relativo accadimento storico”, sottolineando, a quest’ultimo riguardo,
l’ininfluenza della lettera ai fini della prova della cessazione del rapporto,
in quanto priva della cartolina di ricezione da parte della lavoratrice”
(pag. 10).

8. Palesemente inammissibile risulta infine la
censura di cui alla lettera e), non essendo state indicate dalla società
ricorrente le norme di diritto che la Corte avrebbe violato nel regolamento
delle spese di lite o l’eventuale scostamento dai relativi parametri.

9. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per
esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 giugno 2020, n. 11706
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