Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 giugno 2020, n. 12485

Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale,
Demansionamento e dequalificazione, Lesione dell’equilibrio psico-fisico e
della personalità morale, Lavoratore rimasto, per un prolungato periodo, del
tutto inattivo, privato di ogni compito e mansione da parte della datrice di
lavoro, Violazione del diritto all’esecuzione della prestazione, quale fonte
di responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, Eccezione, Inattività
del lavoratore riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro,
Esercizio dei poteri imprenditoriali o dall’esercizio dei poteri disciplinari

 

Premesso

 

che M.G. ha agito in giudizio, avanti al Tribunale
di Parma, chiedendo che fosse accertata la responsabilità, sia contrattuale che
extracontrattuale, per violazione dell’art. 2103
e dell’art. 2087 cod. civ., della Cassa di
Risparmio di Parma e Piacenza S.p.A. in relazione al demansionamento e/o alla
dequalificazione subiti nel corso del rapporto nonché accertata la illegittima
lesione del proprio equilibrio psico-fisico e della propria personalità morale,
con la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento del danno professionale,
biologico ed esistenziale, che ne era derivato;

– che il Tribunale, all’esito di C.T.U., ha
condannato la società al risarcimento del danno biologico quantificato in
complessivi euro 40.842,00;

– che la Corte di appello di Bologna, con sentenza
n. 834/2016, depositata il 30 settembre 2016, respinto il gravame della Cassa
di Risparmio di Parma e Piacenza, e in parziale accoglimento del gravame
incidentale del G., ha condannato la società al pagamento delle spese mediche
sostenute dal lavoratore in conseguenza della patologia insorta a seguito
dell’illecito datoriale;

– che la Corte, nel disattendere il primo motivo
dell’appello principale, ha osservato come il primo giudice avesse ritenuto
sufficientemente provata la dequalificazione sulla base di fatti pacifici o non
contestati, quali “i dodici trasferimenti in nove anni” e il
passaggio “da una valutazione di ottimo fino al 1999 a quella di
parzialmente adeguato nel 2004”; ha inoltre rilevato come non fosse
contestato che il G. era stato lasciato “completamente inattivo, privato
di ogni compito e mansione” da parte della Cassa “(ad es. nel periodo
dal dicembre 1999 a marzo aprile 2001, nonché alla stessa epoca
dell’interrogatorio libero all’udienza del 21.04.2009”);

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per
cassazione, con due motivi, C.A.C. S.p.A. (già Cassa di Risparmio di Parma e
Piacenza S.p.A.);

– che il G. ha resistito con controricorso;

 

Rilevato

 

che con il primo motivo viene dedotta dalla
ricorrente violazione e falsa applicazione dell’art.
2103 cod. civ. per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto
provata la dequalificazione del G. sulla base dei trasferimenti disposti nei
suoi confronti e del passaggio da una valutazione professionale di “ottimo”
ad una di “parzialmente adeguato”, nonostante che – secondo
consolidato orientamento – né la variazione delle mansioni né il mutamento
della sede di lavoro implichi di per sé un demansionamento del lavoratore;

– che con il secondo motivo viene dedotta la
violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in relazione al vizio di cui
all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., avendo la
sentenza impugnata omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto
di discussione fra le parti: in particolare, avendo la Corte di appello
trascurato di considerare che la Cassa aveva “contestato” il fatto
che il G. sarebbe stato lasciato “completamente inattivo” e
“privato di ogni compito e mansione” e che, anche con riferimento
alle mansioni svolte “alla stessa epoca dell’interrogatorio libero”,
la rappresentante della Cassa aveva contestato l’inattività del dipendente;

 

Osservato

 

che il primo motivo è inammissibile, non
confrontandosi con il completo sviluppo motivazionale della sentenza impugnata,
là dove la Corte di appello, dopo di avere richiamato i plurimi trasferimenti e
il passaggio da una valutazione di “ottimo” (fino al 1999) ad una di
“parzialmente adeguato” (nel 2004), ha posto in rilievo, quale
circostanza incontestata (anche all’esito dell’interrogatorio libero delle
parti), che il G. era rimasto, per un prolungato periodo, del tutto inattivo,
“privato di ogni compito e mansione” da parte della datrice di lavoro
(cfr. sentenza, p. 10, ultimo capoverso): accertamento, quest’ultimo,
evidentemente destinato ad assumere essenziale rilevanza per un motivo che –
come il presente – sia volto a denunciare la violazione e falsa applicazione
dell’art. 2103 cod. civ., posto che il
lavoratore, cui detta norma riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le
mansioni per le quali è stato assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime
effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione, ha altresì
diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni mansione, cioè ha
il diritto all’esecuzione della prestazione lavorativa, e che la violazione di
tale diritto all’esecuzione della prestazione è fonte di responsabilità
risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l’inattività del lavoratore sia
riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro stesso, in quanto
giustificata dall’esercizio dei poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., o dall’esercizio dei poteri
disciplinari (Cass. n. 4766/2006, fra le
numerose conformi);

– che il secondo motivo risulta egualmente
inammissibile;

– che al riguardo, e in primo luogo, è da rilevare
che la deduzione del motivo in esame – a fronte di giudizio di appello
introdotto con ricorso depositato nel 2013 – non è più ammissibile, in forza di
quanto disposto dall’art. 348 ter, ultimo comma,
cod. proc. civ. (c.d. “doppia conforme”);

– che, d’altra parte, la ricorrente, pur richiamando
Cass. n. 5528/2014, non offre, in termini effettivi, la richiesta dimostrazione
della difformità tra le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo
grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello,
limitandosi, nell’inosservanza del requisito di cui all’art. 366, comma 1°, n. 6 cod. proc. civ., a
proporre, a sostegno dell’ammissibilità del motivo, taluni passi della sentenza
di primo grado, sulla base dei quali esclusivamente sarebbe stata affermata
l’esistenza della dequalificazione, e peraltro senza fornire, del percorso
logico-argomentativo seguito nella sentenza medesima, una compiuta e pur
necessaria ricostruzione;

– che parimenti non risultano trascritte le
dichiarazioni rese dal rappresentante della società nella sede
dell’interrogatorio libero, pur contestandosi dalla ricorrente le conseguenze
che da tale mezzo di chiarimento dei fatti di causa la Corte ha inteso trarre
con riferimento alla condizione di completa inattività del lavoratore;

– che, in ogni caso, il motivo risulta
inammissibile, avendo ad oggetto non un “fatto storico” ma una
deduzione difensiva (Cass. n. 14802/2017; conf.: n. 26305/2018), quale la
contestazione della verità di un fatto allegato dalla controparte a sostegno
del proprio assunto (nella specie, la condizione di totale inattività, cui il
G. era stato sottoposto, e la sottrazione di ogni suo compito e mansione da
parte della datrice di lavoro) e l’affermazione di circostanze di segno
contrario;

– che è stato precisato in proposito che l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nella sua attuale
formulazione, “riguarda un vizio specifico denunciarle per cassazione
relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio,
nozione da intendersi come riferita a un preciso accadimento o a una precisa
circostanza in senso storico-naturalistico e non ricomprendente questioni o
argomentazioni, dovendosi di conseguenza ritenere inammissibili le censure
irritualmente formulate che estendano il paradigma normativo a quest’ultimo
profilo” (Cass. n. 22397/2019);

 

Ritenuto

 

conclusivamente che il ricorso deve essere
dichiarato inammissibile;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte
ricorrente al pagamento delle spese, da liquidarsi, a favore del
controricorrente, in euro 4.250,00 per compensi professionali ed in euro 200,00
per esborsi, oltre spese generali al 15%, Iva e Cpa come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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