Il patto di non concorrenza, a pena di nullità, è subordinato a specifiche condizioni, temporali e spaziali, e ad un corrispettivo adeguato. Il suo oggetto va valutato considerando l’attività complessivamente svolta dal lavoratore, rapportata a quella svolta dall’azienda e la sua risoluzione non può essere rimessa all’arbitrio del datore di lavoro.

Nota a Cass. (ord.) 26 maggio 2020, n. 9790 e a Cass. 3 giugno 2020, n. 10536

Maria Novella Bettini

Il patto di non concorrenza (art. 2125 c.c.), da un lato, è finalizzato a salvaguardare l’imprenditore dal rischio che il patrimonio immateriale della sua azienda nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro, ecc.) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.) venga esportato presso imprese concorrenti; dall’altro, tutela il lavoratore subordinato, affinché le relative clausole non comprimano eccessivamente la sua possibilità di indirizzare l’attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti, prevedendo, a pena di nullità, che esse debbano essere subordinate a determinate condizioni, temporali e spaziali, e ad un corrispettivo adeguato (v. App. Venezia 8 novembre 2018, RGL, 2019, II, 475, con nota di D. DEL BIONDO, è  nullo il patto di non concorrenza che prevede corrispettivo e/o limiti territoriali indeterminabili ex ante). È pertanto nulla la clausola di non concorrenza talmente ampia da comprimere ogni possibilità del lavoratore di esplicare la propria professionalità e da inficiarne la potenzialità reddituale.

Il principio è ribadito da due sentenze della Corte di Cassazione, le quali hanno colto l’occasione di specificare la portata e i confini del patto di non concorrenza, al quale si ricorre sempre più frequentemente nei contratti di lavoro (v. anche Cass. n. 24662/2014).

Con la prima sentenza (26 maggio 2020, n. 9790, conforme ad App. Roma 10 luglio 2015, n. 5174), la Corte ha affermato che l’estensione dell’oggetto del patto in questione va valutata considerando l’attività complessivamente svolta dal lavoratore, senza limitarsi tout court alle specifiche mansioni assegnate allo stesso, ma rapportandole all’attività del datore di lavoro, del settore produttivo o commerciale in cui questi opera e del mercato nelle sue strutture oggettive (v. Cass. nn. 7141/2014 e 988/2004). Il patto di non concorrenza può quindi riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro. Tutto ciò che esula da tale attività non può essere oggetto della clausola.

Il patto, inoltre, è ammissibile e legittimo non solo se è subordinato a condizioni di tempo e di spazio, ma anche se contempla la corresponsione di un adeguato corrispettivo (Cass. 4 aprile 2017, n. 8715). Tale corrispettivo, pur se erogato in vista della cessazione del rapporto di lavoro, non tende in alcun modo ad agevolare la risoluzione del contratto di lavoro in essere con il prestatore che lo riceve, in quanto “la clausola remunera un’obbligazione di non fare e non ha perciò natura risarcitoria”, trovando nella cessazione del rapporto di lavoro una semplice occasione e non un collegamento causale.

Quanto all’adeguatezza del corrispettivo, essa va valutata indipendentemente dall’utilità che il divieto di concorrenza apporta al datore di lavoro o dal suo eventuale valore di mercato, ma accertando che il compenso non risulti simbolico, iniquo o sproporzionato rispetto al sacrificio imposto al lavoratore.

Nella fattispecie, la Corte territoriale aveva accertato la conformità al dettato codicistico della pattuizione oggetto del contenzioso, poiché la previsione negoziale aveva valorizzato adeguatamente la delimitazione del divieto di operare nell’unico settore rappresentato dal “private banking” (concernente i medesimi generi di prodotti per i quali il lavoratore aveva operato per l’azienda – Unicredit e la stessa clientela), nonché la limitazione dell’ambito territoriale (concernente la regione Lazio) e cronologico (3 anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro), la previsione di un adeguato compenso (pari a euro 7.500,00 annui per tutta la durata del rapporto di lavoro, regolarmente versati dal datore di lavoro).

Con la seconda decisione (3 giugno 2020, n. 10536, conforme ad App. Bologna 3 febbraio 2015), i giudici hanno precisato che la risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative (v. anche Cass. 2 gennaio 2018, n. 3, annotata in questo sito da M.N. BETTINI, Patto di non concorrenza e clausola di non recesso; n. 8715/2017, cit. e n.15952/2004). Il patto in questione, infatti, impedisce al lavoratore di progettare il proprio futuro lavorativo e comprime la sua libertà; tale compressione non può essere caratterizzata da indeterminatezza temporale né avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore; corrispettivo che, nella specie, finirebbe con l’essere escluso ove al datore venisse concesso di liberarsi discrezionalmente ex post dal vincolo; pertanto, la successiva rinuncia al patto stesso va considerata tamquam non esset.

In tale seconda fattispecie, i giudici di merito hanno escluso che la nullità della sola clausola di recesso comportasse la nullità dell’intero patto di non concorrenza. Ciò, in ossequio al principio di conservazione del contratto “alla stregua del quale, perché l’intero atto negoziale venga travolto da nullità, è necessario accertare che la clausola nulla sia stata determinante per la conclusione dello stesso: circostanza, questa, rimasta priva di delibazione, non avendo la società fornito alcun elemento di prova da cui trarre i requisiti di eccezionalità ed essenzialità della clausola dichiarata nulla” (v., fra tante, Cass. nn. 23950/2014 e 15214/2011).

Elementi del patto di non concorrenza
Tag:                                                                                                                                 
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: