Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 giugno 2020, n. 12634

Dipendenti del somministratore, Diritto ad un trattamento
economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di
pari livello dell’utilizzatore, Parità di mansioni svolte, Contenuto
specifico di dette mansioni, desumibile dalla semplice definizione delle stesse
– Quaestio facti, rimessa all’apprezzamento dei giudici di merito

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Brescia, con sentenza
dell’8 luglio 2014, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto la
domanda, proposta da V.V., I.C. e B.L. nei confronti della T. Spa Agenzia per
il lavoro (quale somministratore) e dell’INPS (quale utilizzatore), di condanna
al pagamento di somme in applicazione dell’art. 23 del d. Igs. n. 276 del 2003,
nella versione ante riforma operata dall’art. 7 del d. Igs. n. 24 del 2012,
secondo cui i dipendenti del somministratore hanno diritto ad un trattamento
economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di
pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte.

2. A sostegno della decisione di rigetto la Corte ha
considerato che “presupposto fattuale imprescindibile” affinché
potesse essere riconosciuto il diritto rivendicato fosse che “i dipendenti
del somministratore di pari livello dell’utilizzatore avessero svolto anche le
medesime mansioni di questi ultimi” e che “la parità in questione non
potesse che riferirsi alle mansioni espletate in concreto”, la cui prova
gravava sulle ricorrenti; ha rilevato che le lavoratrici si erano limitate ad
allegare “di aver svolto le mansioni di addette all’acquisizione dei dati
e al sistema di archiviazione”, senza illustrare “il contenuto
specifico di dette mansioni, affidandosi a quello evocato e desumibile dalla
semplice definizione delle stesse”; ha evidenziato che, sin dalla
costituzione in giudizio in primo grado, la T. aveva espressamente contestato
l’identità delle mansioni svolte dalle ricorrenti con quelle espletate dal
personale di eguale qualifica dell’Inps; ha aggiunto che, comunque, anche nel
caso in cui l’onere probatorio in questione dovesse farsi ricadere sulle parti
convenute, “le deduzioni in fatto di Inps e T., circa l’inesistenza presso
l’ente previdenziale di posizioni lavorative di livello Bl, destinate
esclusivamente all’acquisizione di dati e ai sistemi di archiviazione, trovano
riscontro nel sistema di qualificazione previsto dalla contrattazione
collettiva applicata dall’ente previdenziale”, corroborando l’assunto che
“le attività compiute dal singolo operatore … sono molteplici” e
non limitate alla mera acquisizione di dati e all’archiviazione, anche perché
l’oggetto del servizio appaltato dall’Inps riguardava proprio ed esclusivamente
questa mansione parcellizzata e non tutte le mansioni proprie del dipendente.

3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto
ricorso le soccombenti con 3 motivi, cui hanno resistito sia la società che
l’Inps con distinti controricorsi. Le ricorrenti hanno anche depositato memoria
ex art. 378 c.p.c..

 

Ragioni della decisione

 

1. I motivi di ricorso possono essere come di
seguito sintetizzati.

1.1. Con il primo si denuncia “violazione e/o
falsa applicazione di norme di diritto: violazione artt.
2697 c.c., 416 e 167
c.p.c.”.

Si critica la sentenza impugnata per avere, da un
lato, ritenuto “non pacifico, a fronte della non contestazione in giudizio
di primo grado, il fatto costitutivo della pretesa azionata, rappresentato
dallo svolgimento da parte delle lavoratrici somministrate di mansioni pari a
quelle svolte dal personale Inps con medesimo inquadramento” e,
dall’altro, per avere “erroneamente valutato la contestazione della
medesima circostanza di fatto proposta dall’Inps solo in grado di appello,
senza disporre sul punto, se del caso, idonea attività istruttoria”.

1.2. Con il secondo motivo si denuncia
“violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto: violazione art. 115 c.p.c.”.

Ci si duole che i giudici non abbiano dato ingresso
alle prove richieste dalle lavoratrici in ordine alle mansioni di addette
all’acquisizione dei dati ed ai sistemi di archiviazione, oltre che sulla
allegazione che svolgessero le medesime mansioni dei dipendenti Inps di pari
inquadramento”.

1.3. Il terzo mezzo denuncia “violazione e/o
falsa applicazione di norme di diritto: violazione art. 23 d. Igs. n. 276/2003”.

Si afferma che “per escludere il diritto
vantato dalle ricorrenti la Corte avrebbe dovuto, se del caso, effettuare una
comparazione tra le mansioni svolte dalle stesse e quelle svolte dal personale
Inps con pari inquadramento per escluderne l’equivalenza”.

2. I primi due motivi di ricorso, congiuntamente
esaminabili per connessione, non meritano accoglimento.

Per essi vale in premessa rilevare che la
sussistenza in concreto del presupposto di applicabilità dell’art. 23 del d. Igs. n. 276 del 2003,
circa la “parità di mansioni svolte” tra lavoratori somministrati e
dipendenti dell’utilizzatore attiene inevitabilmente ad una quaestio facti,
rispetto alla quale conta l’apprezzamento effettuato dai giudici ai quali
appartiene ogni valutazione di merito, preclusa invece in questa sede di
legittimità.

Sicché i motivi di ricorso, sebbene formulati
facendo riferimento a pretese violazioni e false applicazioni di legge, anche
processuale, che presupporrebbero una ricostruzione della vicenda storica come
narrata nella sentenza impugnata, nella sostanza invece invocano
inammissibilmente una diversa ricostruzione circa la questione centrale della
“parità di mansioni”, postulando un sindacato di merito chiaramente
inibito a questa Corte di legittimità, tanto più nel vigore del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., così come rigorosamente
interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054
del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n.
19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni
semplici).

Il travalicamento nel giudizio di fatto è altresì
comprovato dall’improprio riferimento in ricorso sia all’art. 2697 c.c. (nel primo motivo) sia all’art. 115 c.p.c. (nel secondo motivo).

Per il primo aspetto la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai
sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.,
soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad
una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di
scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi
ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il
giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013;
Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie le ricorrenti criticano
eventualmente l’error in procedendo (diversamente denunciabile nei limiti del n. 4 dell’art. 360 c.p.c.) in cui sarebbe incorso
il giudice d’appello nel non aver ritenuto operante il principio di non
contestazione rispetto a circostanze di fatto allegate nell’atto introduttivo.

Per il secondo aspetto, in tema di valutazione delle
prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c.,
opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede
di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da
parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa
applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato
attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque
nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5,
c.p.c., come riformulato dall’art.
54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012 (tra le altre v. Cass. n.
23940 del 2017).

3. Il terzo motivo è inammissibilmente formulato
perché privo di specificità considerato che, in riferimento alla violazione e
falsa applicazione di legge ex art. 360, co. 1, n.
3, c.p.c., il vizio va dedotto non solo con l’indicazione delle norme di
diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle
affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si
assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o
dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione
comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla
S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento
della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015;
Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).

Nella specie, ancora una volta, le istanti invece
lamentano che non sarebbe stata effettuata una comparazione in fatto delle
mansioni che assumono paritarie rispetto a quelle dei dipendenti dell’Inps,
parità esclusa dalla Corte territoriale con argomenti che qui non possono
essere sindacati.

4. Conclusivamente il ricorso va respinto, con spese
che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, in favore di entrambe
le parti controricorrenti.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei
presupposti processuali di cui all’art.
13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, in
solido, al pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00
per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%, in favore delle
controricorrenti.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

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