Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 luglio 2020, n. 14807

Professionista, Avvocato, Omessa contribuzione,
Cancellazione dall’Albo, Accertamento

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’appello di Caltanissetta, con sentenza
n. 242 del 2014, ha accolto, quanto al solo profilo della mancata compensazione
delle spese di primo grado, l’appello proposto dall’avvocato R.M. nei confronti
della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense (d’ora in avanti
Cassa), avverso la sentenza del tribunale della stessa sede che, giudicando
sulla domanda proposta dalla Cassa al fine di ottenere la condanna
dell’avvocato M. al pagamento del complessivo importo di euro 293.388,67,
comprensivo di interessi, per contribuzione omessa, aveva accolto interamente
la domanda.

2. In particolare, la Corte territoriale ha
ricordato che con atto stragiudiziale del 27 luglio 2001, l’avvocato M. aveva
comunicato di essersi cancellato dall’Albo degli avvocati ed aveva chiesto di
essere cancellato anche dalla Cassa ottenendo il rimborso dei contributi
versati, previa compensazione con i contributi ancora non versati e contestuale
cancellazione del debito iscritto a ruolo. A tale richiesta la Cassa aveva
opposto che, prevedendo l’art.
21 I. n. 576 del 1980 la restituzione dei soli contributi soggettivi,
permaneva una posizione debitoria a carico dell’avvocato M., quantificata
appunto nella somma sopra indicata.

3. La Corte territoriale, dopo aver rigettato il
motivo d’appello con il quale l’avvocato M. aveva sostenuto la necessità di
procedere a c.t.u. contabile, affermando di aver contestato la quantificazione
operata dalla Cassa, ha accertato che il credito vantato dalla Cassa non era
prescritto in presenza di validi atti interruttivi (riconoscimento del debito e
raccomandate a.r. allegate al ricorso introduttivo) ed ha, inoltre, rigettato
l’ulteriore motivo d’appello relativo alla richiesta dell’odierno ricorrente di
ottenere l’accertamento che non vi fosse alcun credito della Cassa nei suoi
confronti per la mancata operatività del principio solidaristico nell’ipotesi
in cui il professionista non possa o non voglia godere del trattamento
pensionistico ovvero abbia la prospettiva di godere di altro trattamento. Con
la conseguenza che la Cassa avrebbe dovuto restituire tutta la contribuzione
versata, senza limitazioni.

Cassa è limitato al solo contributo soggettivo di
cui all’art. 10 della
stessa legge nonché ai contributi minimi e percentuali versati ai sensi della
legislazione precedente, con esclusione del contributo integrativo e di quello
di maternità, nonché delle sanzioni afferenti tutti i contributi insoluti ed i
relativi interessi di mora.

5. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione R.M.
sulla base di cinque motivi illustrati da memoria.

6. Resiste la Cassa con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si lamenta la < violazione
dell’art. 360, comma 1 n. 3 e n. 5, c.p.c.>,
in relazione all’art. 2697 cod. civ. ed agli articoli 113, 115,
167 e 416 c.p.c.
nonché la violazione degli artt.
21, 10 e 11 della legge n.
576 del 1980; in sostanza, il ricorrente ritiene erronea la sentenza
impugnata laddove ha ritenuto non necessaria la consulenza tecnica contabile
per l’assenza di contestazione sul quantum dovuto senza riconoscere che,
invece, l’odierno ricorrente aveva contestato d’ammontare del credito dal
momento che aveva chiesto accertarsi che la compensazione, da effettuarsi a
seguito della cancellazione dalla Cassa, aveva annullato il debito dello stesso
avvocato.

2. Con il secondo motivo si deduce < la
violazione dell’art. 360, comma 1 n. 3 e n. 5,
c.p.c, in riferimento agli articoli 113, 115, 167 e dell’articolo 21 della legge n. 576
del 1980>, in sostanza il ricorrente sostiene la tesi che i contributi
soggettivi e di maternità con relative sanzioni non versati non avrebbero
dovuto essere calcolati a debito una volta disposta la cancellazione dalla
Cassa.

3. Con il terzo motivo si denuncia, < la
violazione dell’art. 360, comma 1 n. 3 e n. 5,
c.p.c, in riferimento agli articoli 113, 115, 167 e dell’articolo 437 c.p.c. e dell’art. 3 commi 9°e 10° della legge n.
335 del 1995>, in relazione al mancato accoglimento dell’eccezione di
prescrizione essendo stato ritenuto atto interruttivo il riconoscimento del
debito contenuto nell’atto stragiudiziale del 27 luglio 2001 senza considerare
la indisponibilità della prescrizione dei contributi previdenziali e la
inidoneità degli atti ritenuti interruttivi della medesima prescrizione, ivi
compreso l’atto stragiudiziale del 27 luglio 2001.

4. Con il quarto motivo si denuncia <<la
violazione dell’art. 360, comma 1 n. 3 e n. 5,
c.p.c, in riferimento agli articoli 113, 115, 166 c.p.c. in
relazione agli articoli 21, 22
ed 11 I. n. 576 del 1980 e
dell’art. 1, comma 33° lett.
C. dell’art. 8 comma 3° d.lgsv.
103 del 1996 come sostituito dall’art. 1, comma 1, I. n. 133/2011
in relazione alle deliberazioni in tema di contributo integrativo adottate
dagli organi della Cassa, nonché del d.lgs. n. 504 del 1994 > in ragione
della erronea affermazione della sussistenza del principio di solidarietà.

5. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia
<<la violazione dell’art. 360, comma 1 n. 3 e
n. 5, c.p.c, in riferimento agli articoli 113,
115, 61, 191, 345, 356, 437 e 445 c.p.c. e violazione sulle norme del giudicato
anche in relazione all’art. 116 ed all’art. 112 c.p.c.>. Il motivo fa riferimento
all’esistenza di un precedente giudicato, derivante dalla sentenza n. 134 del
2005 del Tribunale di Caltanissetta, che avrebbe accertato l’insussistenza di
obblighi del M. per contributi non versati.

6. Il primo motivo (al netto della impropria
formulazione – comune a tutti gli altri motivi- consistente nel denunciare la
violazione dello stesso art. 360 c.p.c. anziché
delle diverse disposizioni pure richiamate), è inammissibile sotto vari
profili. Innanzi tutto, laddove cumula il vizio di violazione di legge a quello
di motivazione. Si sostiene, illustrando insieme sia ragioni che dovrebbero
dimostrare errori di diritto che vizi di motivazione in cui sarebbe incorsa la
sentenza impugnata, che l’odierno ricorrente aveva in realtà contestato
l’ammontare del credito vantato dalla Cassa, posto che le affermazioni dirette
a negare l’esistenza di un credito avrebbero dovuto essere lette unitamente a
tutte le altre argomentazioni dalle quali sarebbe emerso l’errore di calcolo
posto in essere dalla sentenza impugnata e, dunque, sarebbero stati violati gli
univoci principi giurisprudenziali in punto di non contestazione.

7. Questa tecnica di formulazione del motivo, oltre
a non essere sufficientemente specifica nella rappresentazione dei contenuti
degli atti del processo ai quali fa riferimento, non è rispettosa del disposto
dell’art. 360 c.p.c. e della natura del giudizio
di cassazione che è a critica vincolata e non consente la critica generica
derivante dall’ingiustizia della sentenza impugnata. Inoltre, è inammissibile
la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti
riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art.
360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione
di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della
violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in
relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della
norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto, nei limiti
consentiti dall’attuale formulazione dell’art. 360,
primo comma n. 5, c.p.c., intenderebbe rimettere in discussione; o quale
l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto
decisivo della causa rilevabile d’ufficio. Infatti, l’esposizione diretta e
cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze
acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di
legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili,
onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali
disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo,
inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto
giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su
di esse ( vd. Cass. n. 26874 del 2018; Cass. n. 19443 del 2011).

8. Anche il secondo motivo va dichiarato
inammissibile. Esso condivide con il primo la formulazione cumulativa di motivi
genericamente riferiti ai nn. 3 e 5 dell’art. 360,
primo comma, c.p.c. ed inoltre, nella sua illustrazione, deduce
l’illegittimità della sentenza riconducendola al fatto che la stessa non ha
accolto la tesi secondo la quale la cancellazione dalla Cassa avrebbe dovuto
comportare, grazie ad una fictio contabile, la considerazione del pagamento
virtuale dei contributi non pagati e, quindi, indurre la Corte territoriale a
disporre c.t.u. E’ evidente che si tratta nella sostanza di una generica e
confusa doglianza che non consente di individuare al suo interno gli elementi
necessari alla formulazione del giudizio di legittimità relativo ad uno dei
vizi tassativamente previsti dall’art. 360, prima
comma, c.p.c.

9. Il terzo motivo, in parte, soffre dei profili di
inammissibilità derivanti dal cumulo scomposto di diversi ed antitetici vizi
sopra evidenziato. Tuttavia, all’interno della illustrazione del motivo, il
ricorrente ha prospettato validamente il profilo relativo alla violazione dell’art. 3, comma 9, I. n. 335 del 1995
in ragione del fatto che la sentenza non ha dichiarato la prescrizione dei
crediti contributivi vantati dalla Cassa, ritenendo tardiva l’eccezione
sollevata dalla parte, senza considerare che in tale materia la prescrizione è
rilevabile d’ufficio; inoltre, in quanto aveva ritenuto validi atti
interruttivi della prescrizione sia l’atto stragiudiziale notificato dallo stesso
M. il 27 luglio 2001 che delle lettere raccomandate inviate dalla Cassa tra il
4 dicembre 2001 ed il 31 maggio 2008.

Il profilo è infondato. La sentenza impugnata non è
viziata da errore nell’interpretazione e nell’applicazione dell’art. 3, comma 9, I. n. 335 del 1995.
Va innanzitutto osservato che la questione della prescrizione, proprio
ipotizzando la rilevabilità d’ufficio della eccezione, è stata esaminata nel
merito dalla Corte territoriale. Inoltre, la stessa ha ritenuto che sia la
dichiarazione extragiudiziale del 26 luglio 2001 che le successive richieste
inviate al M., dovessero considerarsi validi atti interruttivi del termine
prescrizionale e tale valutazione interpretativa non è stata adeguatamente
aggredita in questa sede. Fermo restando tale accertamento, la presenza di un
evento interruttivo comporta il decorso di un nuovo termine prescrizionale, il
cui dies a quo non è più costituito dalla data originaria di scadenza del
credito, ex art. 2935 c.c., ma da quella, a
seconda dei casi, del riconoscimento del diritto o di ricezione dell’atto di
messa in mora.

10. Il quarto motivo è infondato. Sulla questione
dell’obbligo di iscrizione alla Cassa anche nell’ipotesi in cui il
professionista risulti soggetto ad altro sistema previdenziale ( nel caso di
specie quello della Camera dei Deputati), e sulla individuazione del principio
solidaristico quale principio ispiratore del medesimo sistema, si è più volte
pronunciata sia la giurisprudenza costituzionale che quella di legittimità.

Così Corte Cost. n. 67
del 30 marzo 2018, ha recentemente affermato che il sistema della
previdenza forense ( sia sotto la disciplina fondamentalmente dalla legge n. 576 del 1980 che sotto la successiva
normativa sulla privatizzazione della Cassa, integrata dalla regolamentazione
di quest’ultima) è ispirato ad un criterio solidaristico e non già
esclusivamente mutualistico ( come già affermato dalle sentenze n. 362 del 1997, n. 1008 del 1988, n. 171
del 1987, n. 169 del 1986, n. 133 e n. 132 del 1984).

Gli avvocati assicurati, che svolgono un’attività
libero-professionale riconducibile anch’essa all’area della tutela
previdenziale del lavoro, garantita in generale dal secondo comma dell’art. 38 Cost., non solo beneficiano – assumendone
il relativo onere con l’assoggettamento al contributo soggettivo ed integrativo
(ex artt. 10 e 11 della legge
n. 576 del 1980) – della copertura da vari rischi di possibile interruzione
o riduzione della loro attività con conseguente contrazione o cessazione del
flusso di reddito professionale, ma anche condividono solidaristicamente la
necessità che, verificandosi tali eventi, «siano preveduti ed assicurati mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita», come prescritto dal richiamato parametro
costituzionale.

E’ questa, per la citata sentenza, la connotazione
essenziale della previdenza forense, risultante dalla riforma introdotta con la
legge n. 576 del 1980; essa segna il
superamento dell’originario criterio di accantonamento dei contributi in conti
individuali.

La trasformazione della Cassa in fondazione di
diritto privato e l’apertura all’autonomia regolamentare del nuovo ente non
hanno indebolito il criterio solidaristico di base, che rimane quale fondamento
essenziale di questo sistema integrato, di fonte ad un tempo legale (quella
della normativa primaria di categoria) e regolamentare (quella della Cassa, di
natura privatistica), in attuazione di un complessivo disegno di riordino della
previdenza dei liberi professionisti (art. 1, comma 23, della legge 24
dicembre 1993, n. 537).

È tale connotazione solidaristica che giustifica e
legittima l’obbligatorietà – e più recentemente l’automaticità ex lege ( art. 21 I. n. 247 del 2012) –
dell’iscrizione alla Cassa e la sottoposizione dell’avvocato al suo regime
previdenziale e segnatamente agli obblighi contributivi.

Pertanto, non può ravvisarsi alcun stretto ed
individualizzato nesso di corrispettività sinallagmatica tra contribuzione e
prestazioni ed è questo criterio solidaristico che assicura la corrispondenza
al paradigma della tutela previdenziale garantita dall’art. 38, secondo comma, Cost.

Dall’esistenza del principio solidaristico si ricava
che l’obbligo contributivo permane anche allorché l’accesso alle prestazioni
della Cassa sia in concreto, per il singolo assicurato, altamente improbabile
in ragione di circostanze di fatto legate al caso di specie.

11. Inoltre, va ricordato, ai particolari fini della
presente fattispecie, ove si pretende di andare esenti dall’obbligo in quanto
contemporaneamente iscritti al sistema previdenziale della Camera dei Deputati,
che questa Corte di cassazione con la sentenza n. 30751 del 2019 ( richiamando Cass. n. 10458 del 1998), ha recentemente
affermato che il principio solidaristico ispira anche la disposizione di cui
all’art. 22 della legge n. 576
del 1980 che, al comma 4, prevede il versamento della misura minima dei
contributi integrativi anche da parte di quei soggetti (membri del Parlamento,
dei consigli regionali, della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore
della Magistratura e presidenti delle province e sindaci dei comuni capoluoghi
di provincia) che pure sono esonerati dal requisito della continuità
dell’esercizio professionale durante il periodo di carica.

12. Si è pure affermato che il carattere
solidaristico della previdenza forense come modellata dalla L. n. 576 del 1980, è stato evidenziato in più
arresti della Corte Costituzionale (Corte Cost. nn. 132 e 133 del 1984), e la
cessazione del rapporto non fa venir meno retroattivamente il vincolo di
solidarietà.

13. Da ultimo, va dichiarata l’inammissibilità del
quinto motivo di ricorso, posto che si invoca l’autorità di giudicato di una
sentenza di cui la decisione impugnata non fa menzione alcuna e senza che il
ricorrente si sia fatto carico di allegare la sentenza invocata e di indicare
quando e dove l’esistenza di tale giudicato sia stata fatta valere nel corso
del giudizio (da ultimo Cass. 8 marzo 2018 , n. 5508).

14. La giurisprudenza di questa Corte, da tempo, ha
infatti posto in evidenza il necessario coordinamento tra il principio secondo
cui l’interpretazione del giudicato esterno può essere effettuata direttamente
dalla Corte di Cassazione con cognizione piena, e il principio della necessaria
autosufficienza del ricorso.

Si è affermato che “L’interpretazione di un
giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di
cassazione con cognizione piena, nei limiti, però, in cui il giudicato sia
riprodotto nel ricorso per cassazione, io forza del principio di autosufficienza
di questo mezzo di impugnazione, con la conseguenza che, qualora
l’interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta,
il predetto ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume
erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del
dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla
comprensione del comando giudiziale” (vedi Cass. Sez. Un. 27/1/2004
n.1416, Cass. 13/12/2006, n. 26627, ed in motivazione Cass. 31/7/2012 n. 13658,
Cass. 17/1/2017 n.995).

Tale orientamento ha rimarcato come i motivi di
ricorso per cassazione fondati su giudicato esterno, debbano rispondere ai
dettami di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, che
del principio di autosufficienza rappresenta il precipitato normativo (cfr.
Cass. 18/10/2011 n. 21560, Cass. 13/3/2009 n. 6184; Cass. 30/4/2010 n. 10537);
tanto sia sotto il profilo nella riproduzione del testo della sentenza passata
in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il riassunto sintetico della
stessa (cfr. Cass. 11/02/2015 n. 2617), sia
sotto il profilo della specifica indicazione della sede in cui essa sarebbe
rinvenibile ed esaminabile, in questo giudizio di legittimità (vedi Cass. cit.
n. 21560/2011).

15. Il ricorso, in definitiva, va rigettato e le
spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 9.000,00
per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi ed oltre spese generali nella
misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello
stesso art. 13, comma 1 bis,
ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 luglio 2020, n. 14807
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