La durata della prova maggiore del termine stabilito dal ccnl in linea di principio è più sfavorevole al lavoratore ed è sostituita di diritto ex art. 2077 c.c. Tuttavia, il datore di lavoro può provare che la clausola in questione è più favorevole al lavoratore.

Cass. ord. 26 maggio 2020, n. 9789

Flavia Durval

“La clausola del contratto individuale con cui il patto di prova è fissato in un termine maggiore di quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, come tale, è sostituita di diritto ex art. 2077, secondo comma cod. civ., salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore, con onere probatorio gravante sul datore di lavoro”. Inoltre, il patto di prova (di cui all’art. 2096 c.c.) è un istituto “di carattere normativo e non economico e non presenta connotati tali da non potere essere applicato allo stesso modo sia in Italia che nel Paese estero”.

Il principio è ribadito dalla Corte di Cassazione (ord. 26 maggio 2020, n. 9789, difforme da App. Bologna n. 942/2015) per la quale nel contratto per l’assunzione o il trasferimento di un lavoratore all’estero, oggetto dell’autorizzazione ministeriale, la maggiore durata del periodo di prova rispetto a quanto previsto nel ccnl di categoria (edilizia) appare giustificabile in relazione alle maggiori difficoltà di inserimento del dipendente in un contesto lavorativo di un paese estero e quindi la clausola derogatoria introdotta era sorretta da motivazioni plausibili e non era di per sé peggiorativa rispetto le previsioni del ccnl medesimo.

Ciò, sulla scorta di una precedente decisione della Cassazione (n. 8295/2000), la quale aveva statuito che la clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di prova di durata maggiore di quella massima prevista dal ccnl applicabile al rapporto può essere legittima. In quella occasione tuttavia i giudici avevano sottolineato che: a) restava fermo il limite di 6 mesi di cui all’art. 10 della L. n. 604 del 1966; b) il discostamento dalla previsione collettiva poteva avvenire “solo nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l’affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell’interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi”; c) “il relativo onere probatorio ricade sul datore di lavoro, a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova”.

Nella sentenza n. 9789/2020, la Cassazione specifica che il patto di prova costituisce un’ipotesi eccezionale per la quale giust’appunto il legislatore (art. 2096 c.c.) richiede la forma scritta ad substantiam con la conseguenza che la clausola, qualora manchi la scrittura, si considera non apposta. L’onere della forma scritta è “imposto a tutela del contraente più debole in un regime di sfavore per il patto di prova, considerato come eccezionale rispetto alle condizioni protettive assicurate dal contratto a tempo indeterminato specialmente per quanto riguarda il recesso”. Ed infatti il lavoratore ha interesse a che il periodo di prova sia minimo, o comunque non superi il tempo strettamente necessario alla verifica della sua capacità tecnico professionale (v. Cass. n. 10587/1993). Dal che discende, “in linea di principio, la nullità dei patti diretti a prolungare la durata della prova rispetto a quanto determinato dalle parti sociali”.

Nel caso in esame, l’assunzione autorizzata dal Ministero del Lavoro riguardava una fattispecie assoggettata all’applicabilità della L. 3 ottobre 1987, n. 398, di conversione del D.L. 31 luglio 1987, n. 317, secondo cui il trattamento economico-normativo offerto deve essere “complessivamente non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro vigenti in Italia per la categoria di appartenenza del lavoratore”.

Da rilevare che il successivo e vigente D.LGS. 14 settembre 2015 n. 151, all’art. 18, ha disposto l’abrogazione dell’autorizzazione ministeriale di cui al D.L. n. 317/1987 cit., ed ha sostituito l’art. 2 con il seguente “1. Il contratto di lavoro dei lavoratori italiani da impiegare o da trasferire all’estero prevede: a) un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative per la categoria di appartenenza del lavoratore, e, distintamente, l’entità delle prestazioni in denaro o in natura connesse con lo svolgimento all’estero del rapporto di lavoro….”.

Durata del patto di prova
Tag: