Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 luglio 2020, n. 14975

Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, Differenze
retributive, Prescrizione in relazione al credito per TFR

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Roma, in parziale riforma
della sentenza di primo grado, ha condannato la datrice di lavoro V.T. s.p.a.
in amministrazione straordinaria al pagamento in favore di A.G. dell’ulteriore
somma di € 18.912,30 a titolo di tfr, oltre interessi, dalla cessazione del
rapporto al soddisfo.

2. La Corte di merito, respinta la eccezione di
improcedibilità e/o improseguibilità delle domande di condanna, eccezione
fondata sulla incompetenza funzionale del giudice adito per essere competente
il Tribunale fallimentare, il quale con sentenza successiva alla pronunzia di
primo grado aveva dichiarato l’insolvenza della società, ha confermato, sulla
base della complessiva lettura del quadro probatorio, la natura subordinata,
sin dall’origine, del rapporto tra le parti in relazione alle prestazioni rese
in favore della casa di cura da A.G., quale medico addetto alla diagnostica,
all’ambulatorio ed alla chirurgia; ha ritenuto corretta la statuizione di primo
grado che aveva riconosciuto le differenze retributive reclamate a decorrere
dal quinquennio antecedente alla lettera del 2007 interruttiva della
prescrizione; ha escluso il maturarsi, in corso di rapporto della prescrizione
in relazione al credito per tfr, e per l’effetto condannato la società alle
differenze, quantificate in € 18.912,30 oltre interessi dalla cessazione del
rapporto, su quanto già corrisposto a tale titolo.

3. Per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso V.T. s.r.l. in amministrazione straordinaria sulla base di quattro
motivi; l’intimato ha resistito con tempestivo controricorso.

4. Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi
dell’art. 378 cod. proc. civ.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso la società V.T.
s.r.l. in amministrazione straordinaria, deducendo violazione e falsa
applicazione dell’art. 96, comma
2, n. 3 r.d. n. 267 del 1942, nonché del combinato disposto dall’art. 24 r.d. n. 267 del 1942 e
dall’art. 13 d. Igs n. 270 del
1999, censura la sentenza impugnata per avere respinto la eccezione
pregiudiziale di incompetenza funzionale del giudice del lavoro stante
l’intervenuta ammissione della società alla procedura di amministrazione
straordinaria e respinto la eccezione di improcedibilità della domanda intesa
alla condanna della società in amministrazione straordinaria al pagamento delle
differenze retributive. In relazione al primo profilo di censura assume che la
previsione dell’art. 96, comma
2, n. 3 legge n. 267 del 1942 – secondo la quale <<Oltre che nei casi
stabiliti dalla legge sono ammessi al passivo con riserva: 1) … ; 2) …; 3)
i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata
in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento. Il curatore
può proporre o proseguire il giudizio di impugnazione …>> – comportava
la necessità per il curatore di impugnare la sentenza sfavorevole dinanzi al
giudice naturale dell’impugnazione nella ipotesi in cui il giudizio aveva ad
oggetto il solo accertamento del diritto di credito del quale era domandata
l’ammissione in sede concorsuale. Nella diversa ipotesi nella quale
l’accertamento del diritto presupponeva la proposizione di una domanda
dichiarativa o costitutiva trovava applicazione la regola generale dell’art. 13 d. Igs n. 270 del 1999
secondo cui << Il Tribunale che ha dichiarato lo stato di insolvenza è
competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il
valore, fatta eccezione per le azioni reali immobiliari, per le quali restano
ferme le norme ordinarie di competenza>>. Il giudice di appello aveva,
quindi, errato nel ritenere applicabile l’art. 96, comma 3 cit. il quale
facendo unicamente riferimento ai crediti accertati con sentenza non escludeva
la vis atractiva del foro fallimentare in relazione alle sentenze di rigetto o
di accoglimento parziale; ciò in coerenza con l’eccezionaiità della deroga alla
competenza del foro fallimentare. In base a tali presupposti gli ulteriori
crediti oggetto dell’atto di appello e non riconosciuti con la sentenza di
primo grado avrebbero dovuto essere fatti valere unicamente nelle forme dell’art. 93 e sgg. legge fall., e
cioè mediante insinuazione allo stato passivo fallimentare ed eventuale
giudizio di opposizione per legge conseguendone la improcedibilità della
domanda.

1.1. In relazione al secondo profilo ritiene che il
decisum di secondo grado si ponga in aperto contrasto con la previsione dell’art. 24 legge fall, e dell’art. 13 d. Igs n. 270 del 1999
posto che la domanda svolta dal G. era pacificamente intesa ad una pronunzia di
condanna della società e come tale improcedibile dinanzi al giudice del lavoro
non potendo la stessa essere considerata autonoma rispetto al rito fallimentare
per la diretta incidenza del suo accoglimento sugli assetti della procedura,
costretta a pagare le differenze retributive e i conseguenti oneri contributivi
e previdenziali.

2. Con il secondo motivo deduce violazione e falsa
applicazione dell’art. 2094 cod. civ.
censurando la sentenza impugnata per essere pervenuta all’accertamento della
natura subordinata del rapporto sulla base dell’errata applicazione dell’art. 2094 cod. civ.

2.1. Premesso che l’accertamento della natura
dipendente richiede la dimostrazione dell’assoggettamento all’eterodirezione il
quale non consiste in una sporadica ingerenza o in un generico controllo
sull’attività prestata, deduce l’errore di diritto della sentenza impugnata per
avere privilegiato nella verifica della natura subordinata o meno del rapporto
gli indici cd. sussidiari attribuendo valore decisivo all’orario definito dalla
casa di cura, all’utilizzo di strumenti e macchinari di questa, alla necessità
di richiesta dei permessi alla struttura ecc.

Richiama, quindi, le deposizioni testimoniali a
conferma dell’assenza di subordinazione (v. pag. 42 e sg. ricorso) e la
qualificazione delle parti, in termini di collaborazione autonoma, conferita al
contratto instaurato nel primo periodo del rapporto.

3. Con il terzo motivo deduce violazione e falsa
applicazione degli artt. 2118 e 2119 cod. civ. censurando la sentenza impugnata
per avere ritenuto che l’esercizio del potere disciplinare da parte della
società configurasse giusta causa di dimissioni.

4. Con il quarto motivo deduce violazione e falsa
applicazione degli artt. 2935, 2948 e 2120 cod. civ.,
censurando la sentenza impugnata in punto di riconoscimento del diritto al tfr
in relazione al periodo 1993/2004 allorquando il rapporto in oggetto era stato
configurato come di autonoma collaborazione. In sintesi, premesso che le parti
in data 1 febbraio 2004 avevano stipulato un contratto di lavoro subordinato,
sostiene che l’emolumento in questione era soggetto al termine quinquennale di
prescrizione decorrente dalla data di inizio del rapporto di lavoro anche
formalmente configurato come subordinato , assistito, per come pacifico, dalla
garanzia della stabilità reale.

5. Il primo motivo è fondato nei termini di cui in
prosieguo.

5.1. Il tema della individuazione dell’ambito della
competenza funzionale inderogabile del tribunale fallimentare, prevista dall’art. 24 della legge fall., e
dall’art. 13 del d.lgs. n. 270
del 1999, è stato ripetutamente affrontato da questa Corte la quale è
pervenuta ad approdi che possono ritenersi consolidati.

5.2. Premessa di ordine generale è costituita
dall’affermazione che in materia di procedure concorsuali la competenza
funzionale inderogabile del tribunale fallimentare, prevista dall’art. 24 della legge fall, e
dall’art. 13 del d.lgs. n. 270
del 1999, suo omologo nell’amministrazione straordinaria, opera con
riferimento non solo alle controversie che traggono origine e fondamento dalla
dichiarazione dello stato d’insolvenza ma anche con riferimento a quelle
destinate ad incidere sulla procedura concorsuale in quanto l’accertamento del
credito verso il fallito costituisca premessa di una pretesa nei confronti
della massa dei creditori e, pertanto, tale da doversi dirimere necessariamente
in seno alla procedura concorsuale, onde assicurarne l’unità e garantire la
“par condicio creditorum” (cfr. Cass. 18/06/2018, n. 15982; Cass.
20/07/ 2004, n. 13496; Cass. 21/12/2001 n. 16183).

5.3. Con specifico riferimento alle controversie di
lavoro il discrimen tra le sfere di cognizione del giudice del lavoro e del
giudice fallimentare è stato individuato nelle rispettive speciali prerogative:
del primo, quale giudice del rapporto e del secondo, quale giudice del concorso
(Cass. Cass. 30/03/2018, n.
7990; Cass. 16/10/ 2017, n. 24363).

In definitiva, per quanto riguarda i rapporti di
lavoro occorre distinguere fra le azioni promosse dal dipendente all’unico
scopo di conseguire la soddisfazione di una pretesa meramente economica, dalle
azioni finalizzate ad ottenere una pronuncia di mero accertamento o costitutive
(ad es. l’accertamento della nullità o l’annullamento del licenziamento). Ciò
in considerazione della particolarità della disciplina lavoristica che è diretta
ad una finalità di tutela del lavoro che, per il suo specifico contenuto e per
il suo rilievo costituzionale, prevale sulle pur importanti finalità alle quali
è diretta la disciplina del fallimento.

Nel primo caso, infatti, viene in rilievo la strumentalità
dell’accertamento di diritti patrimoniali alla partecipazione al concorso sul
patrimonio del fallito laddove nel secondo caso viene in rilievo un interesse
del lavoratore alla tutela della propria posizione all’interno della impresa
sia in funzione di una possibile ripresa dell’attività, sia per la coesistenza
di diritti non patrimoniali e previdenziali, estranei alla realizzazione della
par condicio (Cass. 16/10/2017 n. 24363, in motivazione; Cass. 3/2/2017, n.
2975, Cass. 29/9/2016 n. 19308, Cass. 29/3/2011 n. 7129).

5.4. Muovendo da tale consolidata distinzione
occorre ora verificare con riferimento alle domande aventi ad oggetto
esclusivamente una pretesa economica e, quindi, in tesi, riconducibili
all’ambito della cognizione del giudice della procedura concorsuale, gli
effetti del sopravvenire alla sentenza di primo grado, della dichiarazione di
insolvenza della società (e del conseguente decreto di ammissione della società
alla procedura di amministrazione straordinaria).

Come sopra evidenziato (v. parag. 1) l’art. 96, comma 2, n. 3 legge fall,
prevede l’ammissione al passivo con riserva dei crediti accertati con sentenza
non passata in giudicato pronunziata prima della dichiarazione di fallimento (
o di insolvenza) e stabilisce la possibilità per il curatore di proporre o
proseguire il giudizio di impugnazione.

Da tanto deriva che il G., onde far valere nei
confronti della procedura il credito per le somme al pagamento delle quali
controparte era stata condannata dal giudice di primo grado, avrebbe dovuto
chiederne, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa dell’insolvenza della
società V.T., l’ammissione al passivo con conseguente facoltà per il curatore
(rectius commissario) ove non si ritenesse di ammettere al passivo il credito
in oggetto, di proporre o proseguire la eventuale impugnazione.

5.5. Nel caso di specie, ricordato che non è
allegato che vi sia stata istanza di ammissione al passivo in relazione ai
crediti azionati con il ricorso di primo grado, tutte le domande di condanna ad
una somma di danaro spiegate dal G. risultano improcedibili; quelle accolte con
la sentenza di primo grado in quanto il credito dalla stessa accertato doveva
essere fatto valere in sede concorsuale; quella non accolta in prime cure,
oggetto di appello principale del lavoratore in quanto, comunque, volta a far
valere una pretesa meramente economica.

Le domande in questione, aventi ad oggetto la
condanna al pagamento di somme a titolo di differenze retributive e tfr non
involgono, infatti, alcun profilo relativo allo status del lavoratore, ed il
relativo accoglimento è destinato a ripercuotersi direttamente sul riassetto
delle componenti patrimoniali accertate nell’ambito della procedura
concorsuale; esse sono improcedibili; la sentenza impugnata, errata in parte
qua, deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di
fatto, decisa nel merito con statuizione di improcedibilità.

5.6. All’accoglimento del primo motivo segue la
cassazione in parte qua della sentenza di appello. Non essendo necessari
ulteriori accertamenti di fatto la causa, ai sensi dell’art. 384, comma 2, cod. proc. civ., viene decisa
nel merito con statuizione di improcedibilità delle domande di condanna
formulate con il ricorso di primo grado.

6. L’accoglimento del primo motivo assorbe l’esame
del quarto motivo di ricorso.

7. E’ infondato il secondo motivo di ricorso.

7.1. Il giudice di appello, tenuto conto
dell’attività dedotta, consistente in prestazioni connesse all’esercizio della
professione medica, non richiedenti l’esercizio da parte del datore di lavoro
di un potere gerarchico concretizzantesi in ordini e direttive e nell’esercizio
del potere disciplinare, ha ritenuto che la esistenza della subordinazione
dovesse concretamente apprezzarsi in relazione alla intensità della
etero-organizzazione in quanto eccedente le esigenze di coordinamento per
dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse dell’impresa,
responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e
non della sola assicurazione di prestazioni altrui. In questa prospettiva ha
valorizzato il fatto che dal compendio probatorio era emerso che l’orario di
lavoro era stabilito dalla Casa di cura, che a questa appartenevano gli
strumenti e le apparecchiature utilizzate nonché la scelta se adibire il
sanitario alla sala operatoria, all’attività diagnostica o ambulatoriale; i
responsabili della Casa di cura, in caso di assenze non preventivate, operavano
le relative sostituzioni; eventuali permessi dovevano essere richiesti e
accordati dalla società.

7.2. I parametri ai quali il giudice del merito ha
ancorato la verifica della natura subordinata del rapporto sono coerenti con la
elaborazione giurisprudenziale di questa Corte.

Come è noto requisito fondamentale del rapporto di
lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro
autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo,
organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende
dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua
attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative.
L’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla
specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua
attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può
essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro
autonomo.

Non è idoneo a surrogare il criterio della
subordinazione nei precisati termini neanche il “nomen iuris” che al rapporto
di lavoro sia dato dalle sue stesse parti il quale, pur costituendo un elemento
dal quale non si può in generale prescindere, assume rilievo decisivo ove
l’autoqualificazione non risulti in contrasto con le concrete modalità del
rapporto medesimo” (v. Cass. 27 febbraio
2007, n. 4500). Del resto coi fini della qualificazione del rapporto di
lavoro, essendo l’iniziale contratto causa di un rapporto che si protrae nel
tempo, la volontà che esso esprime ed il “nomen iuris” che utilizza non
costituiscono fattori assorbenti, diventando l’esecuzione, per il suo
fondamento nella volontà inscritta in ogni atto di esecuzione, la sua inerenza
all’attuazione della causa contrattuale e la sua protrazione, non solo
strumento d’interpretazione della natura e della causa del rapporto di lavoro
(ai sensi dell’art. 1362 cod. civ., comma 2),
bensì anche espressione di una nuova eventuale volontà delle parti che, in
quanto posteriore, modifica la volontà iniziale conferendo, al rapporto, un
nuovo assetto negoziale>>(v. Cass. 5 luglio 2006, n. 15327).

Pertanto, “sia nell’ipotesi in cui le parti,
pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente
dichiarato di volere un rapporto di lavoro autonomo al fine di eludere la
disciplina legale inderogabile in materia, sia nel caso in cui l’espressione
verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi
in cui, dopo aver voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo
svolgimento del rapporto le parti stesse,attraverso fatti concludenti, mostrino
di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di
interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito,
cui compete di dare l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve a tal
fine attribuire valore prevalente – rispetto al “nomen iuris” adoperato in sede
di conclusione del contratto – al comportamento tenuto dalle parti
nell’attuazione del rapporto stesso” (v. Cass.
10 aprile 2000, n. 4533; Cass. 21 luglio 2000,
n. 9617; Cass. 26 giugno 2001, n. 8407).

E’ stato inoltre chiarito che quando l’elemento
dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente
apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della
loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del
rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari – come
quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni,
dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una
retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa
all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al
lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale – che, privi
ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi
probatori della subordinazione (Cass. 25/02/2019, n. 5436; Cass. 15/06/2009 n. 13858; Cass. 25/05/2004, n. 10043; Cass. 07/03/2003, n.
3471; Cass. 26/08/2000, n. 11182; Cass. Sez. Un. 30/06/1999, n. 379).

7.3 La decisione di appello risulta coerente con
tale impostazione sia laddove, rispetto alla qualificazione operata dalle
parti, riconosce come prevalenti le concrete modalità di svolgimento della prestazione
sia perché la valorizzazione dei cd. indici sussidiari è frutto della specifica
considerazione delle caratteristiche dell’attività dedotta la quale, per i suoi
elevati contenuti intellettuali i nonché per i connessi specifici profili di
responsabilità professionale facenti capo al sanitario, non si presta ad essere
oggetto di penetranti poteri conformativi della parte datoriale.

7.4. Le ulteriori deduzioni del ricorrente, intese a
contrastare la valenza probatoria degli elementi utilizzati dal giudice di
merito sulla base di un diverso apprezzamento degli stessi, sono inammissibili
in quanto la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro è censurabile in
sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi
di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto, mentre
l’accertamento degli elementi, che rivelino l’effettiva presenza del parametro
stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali
e che siano idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce
apprezzamento di fatto che, se immune da vizi giuridici e adeguatamente
motivato, resta insindacabile in Cassazione (v. Cass.
23/06/ 2014, n. 14160; Cass. 27/07 2007, n. 16681); le doglianze articolate
dalla ricorrente laddove pur denunziando formalmente violazione di legge.

8. Il terzo motivo di ricorso è da respingere.

8.1. La sentenza impugnata ha confermato la sentenza
di primo grado che aveva ritenuto sussistente la giusta causa di dimissioni in
ragione del susseguirsi di contestazioni disciplinari ripetutesi a distanza di
pochi giorni l’una dall’altra in un arco di tempo ristretto e quasi tutte non
seguite da irrogazione di sanzioni disciplinari <<tanto da essere correttamente
considerate strumentali e persecutorie>>.

La valutazione della giusta causa delle dimissioni
non è stata, quindi, ancorata, come prospetta parte ricorrente nel denunziare
l’errore di diritto della sentenza impugnata, al mero esercizio del potere
disciplinare cioè all’esercizio di una legittima facoltà datoriale – bensì
all’uso distorto di tale potere e, in definitiva al carattere pretestuoso e
strumentale dello stesso.

« 8.2. Da tanto deriva che le censure articolate non
sono attinenti con le effettive ragioni che sostengono l’accertamento della
giusta causa di dimissioni, dovendosi escludere, alla stregua della motivazione
sul punto esibita, l’errore logico giuridico ascritto alla Corte di merito per
avere affermato la sussistenza della giusta causa di dimissioni in presenza del
legittimo esercizio del potere disciplinare.

9. Atteso l’esito complessivo del giudizio e la
circostanza del sopravvenire alla sentenza di primo grado delle ragioni di
improcedibilità delle domande di condanna del lavoratore, si ritiene di
confermare il regolamento delle spese di lite di primo grado e di compensare le
spese del giudizio di appello e di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il secondo ed il terzo motivo, accoglie il
primo e dichiara assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione
al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara la improcedibilità delle
domande di condanna di cui al ricorso di primo grado.

Conferma il regolamento delle spese di lite di primo
grado e compensa le spese del giudizio di secondo grado e del giudizio di
legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 luglio 2020, n. 14975
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