Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 16 luglio 2020, n. 150

Licenziamento, Tutele crescenti, Illegittimità
costituzionale dell’art. 4 del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole «di importo
pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Con ordinanza del 18 aprile 2019, iscritta al n.
214 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Bari, in funzione di
giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, primo
comma, 35, primo comma, e 24 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4 del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione
della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella
parte in cui prevede un criterio legato alla sola anzianità di servizio per la
determinazione dell’indennità da corrispondere nell’ipotesi di licenziamento
viziato dal punto di vista formale o procedurale.

1.1.- Con sentenza non definitiva, il giudice a quo
ha escluso il ricorrere di ipotesi di nullità o di illegittimità sostanziale
del licenziamento e ha riscontrato soltanto vizi formali, consistenti nella
mancata contestazione di uno degli addebiti e, per tutte le violazioni,
nell’inosservanza della previsione del contratto collettivo, che impone, al
momento della contestazione degli addebiti, di comunicare per iscritto al
lavoratore il termine entro il quale potrà presentare gli argomenti a propria
difesa.

Il giudizio è proseguito unicamente per la
determinazione dell’indennità da corrispondere per il licenziamento viziato dal
punto di vista formale o procedurale e, in tale contesto, il rimettente ha
sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015,
che la disciplina.

La disposizione censurata – argomenta il rimettente
– non sarebbe stata travolta dalla sentenza n. 194
del 2018 di questa Corte, che ha dichiarato inammissibile per difetto di
rilevanza la questione di legittimità costituzionale sollevata a tale riguardo
dal Tribunale di Roma e ha scrutinato soltanto la distinta fattispecie del
licenziamento intimato senza giusta causa o senza giustificato motivo oggettivo
o soggettivo (art. 3 del d.lgs. n.
23 del 2015). Né si potrebbe sperimentare una interpretazione adeguatrice,
a fronte del tenore letterale inequivocabile della previsione censurata.

1.2.- In merito alla rilevanza della questione, il
rimettente evidenzia che la modesta anzianità di servizio della lavoratrice
implicherebbe il riconoscimento di un’indennità non superiore alla soglia
minima delle due mensilità. La declaratoria di illegittimità costituzionale
consentirebbe, per contro, di valutare altri fattori idonei «ad aumentare detta
misura», e, segnatamente, «le notevolissime dimensioni dell’impresa convenuta
in termini di fatturato e l’elevatissimo numero di dipendenti occupati
(nell’ordine di migliaia), nonché la non trascurabile entità della violazione
commessa dalla società datrice».

1.3.- In punto di non manifesta infondatezza, il
giudice a quo, nel richiamare diffusamente le motivazioni della sentenza n. 194 del 2018, assume che esse siano
pertinenti anche per l’omologo criterio di quantificazione dell’indennità
fissato dall’art. 4 del d.lgs. n.
23 del 2015.

Il meccanismo di determinazione dell’indennità
parametrato alla sola anzianità di servizio si porrebbe anzitutto in contrasto
con l’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo.

In violazione del principio di eguaglianza, una
siffatta predeterminazione dell’indennità omologherebbe situazioni che possono
essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse. Difatti, «anche le
violazioni procedurali possiedono diverse gradazioni di gravità, e anche un
licenziamento illegittimo per questioni di forma può produrre pregiudizi
differenziati in base alle condizioni delle parti, all’anzianità del
lavoratore, alle dimensioni dell’azienda».

Sarebbe violato anche il canone di ragionevolezza, in
quanto «il diritto a essere licenziati solo all’esito di un regolare
procedimento disciplinare, o comunque in virtù di un provvedimento chiaro,
espresso, specifico, motivato, non riceverebbe adeguata tutela da un meccanismo
risarcitorio che consentisse di predeterminare in maniera fissa l’importo
dell’indennità sulla base del solo criterio dell’anzianità del dipendente».
Tale rimedio non sarebbe neppure «congruo rispetto alla finalità di dissuadere
i datori di lavoro dal porre in essere licenziamenti affetti da vizi di forma».

Il giudice a quo denuncia la violazione degli artt. 4, primo comma, e 35,
primo comma, Cost., in quanto «una tutela inadeguata a fronte di un
licenziamento illegittimo sotto il profilo procedurale» si rivelerebbe «lesiva
del diritto al lavoro quanto l’analoga inadeguata tutela, ormai dichiarata
incostituzionale, prevista per i licenziamenti illegittimi sotto il profilo
sostanziale».

La disposizione censurata, nel prevedere una
«irragionevole modalità di calcolo dell’indennità», sarebbe lesiva anche dell’art. 24 Cost., che tutela le «garanzie procedurali
poste dall’ordinamento a presidio di un regolare e legittimo licenziamento
disciplinare».

2.- Con atto depositato il 20 dicembre 2019, si è
costituita la parte ricorrente nel giudizio principale, chiedendo di accogliere
la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Bari.

La parte ne sostiene l’ammissibilità, in quanto il
rimettente avrebbe descritto in maniera esaustiva la fattispecie concreta e
avrebbe offerto una motivazione plausibile sull’applicabilità dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015,
riguardante i vizi formali del licenziamento e caratterizzato da un tenore
letterale inequivocabile, che non si presta a un’interpretazione adeguatrice.

La questione, nel merito, sarebbe fondata, in quanto
«la misura fissa dell’indennità» impedirebbe al giudice di valutare l’effettivo
pregiudizio subito e di attribuire rilievo non solo all’anzianità di servizio,
ma anche al comportamento e alle condizioni delle parti.

Secondo la parte, la predeterminazione legislativa,
in contrasto con il principio di eguaglianza, equipara situazioni
oggettivamente diverse e, nel dar luogo a «una quantificazione tanto modesta ed
evanescente», lede «il diritto al lavoro, come strumento di realizzazione della
persona e mezzo di emancipazione sociale ed economico», irriducibile alla mera
dimensione economica e tutelato dalla Carta fondamentale come «principio di
struttura, necessario alla individuazione e definizione dell’ordinamento
italiano vigente», per il suo ruolo di «sintesi fra il principio personalistico
[…] e quello solidarista».

La parte ritiene viziata da contraddittorietà
intrinseca una disciplina che appiattisce il regime sanzionatorio sull’aspetto
dell’anzianità di servizio, senza tener conto della «situazione di bisogno» e
delle «caratteristiche individuali», relative ai carichi di famiglia e all’età,
e così penalizza proprio i «soggetti più deboli nel mercato del lavoro».

2.1.- In vista dell’udienza pubblica, la parte ha
depositato una memoria illustrativa e ha chiesto, in via preliminare, di
ammettere la discussione pubblica e, nel merito, di accogliere la questione,
estendendo la declaratoria di illegittimità costituzionale all’enunciato «non
superiore a dodici mensilità».

La parte segnala che, con decisione dell’11 febbraio
2020, il Comitato europeo dei diritti sociali ha ritenuto contraria all’art. 24
della Carta sociale europea riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3
maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30,
la fissazione di un tetto massimo che svincoli le indennità, come quella prevista
dal censurato art. 4 del d.lgs. n.
23 del 2015, dal danno subìto.

Secondo l’orientamento del Comitato europeo dei
diritti sociali, il rimedio compensatorio, ove previsto in alternativa rispetto
alla reintegrazione, rappresenta una adeguata forma di riparazione soltanto
quando assicura un ristoro tendenzialmente integrale del danno provocato dal
licenziamento illegittimo. Quanto alla legislazione italiana, il Comitato
europeo dei diritti sociali ha escluso che il meccanismo conciliativo e la
previsione della risarcibilità di danni ulteriori (danno morale o danno
biologico, arrecati dal licenziamento illegittimo) rendano dissuasivo il
sistema sanzionatorio.

Gli orientamenti del Comitato europeo dei diritti
sociali, proprio per la peculiare autorevolezza che anche questa Corte mostra
di riconoscere loro, ben potrebbero e dovrebbero «esercitare un proprio effetto
conformativo, per quanto soft, anche ai fini della determinazione del quantum
dell’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo».

La parte evidenzia che l’indennità per il
licenziamento affetto da vizi formali e procedurali si attesta sulle dodici
mensilità e non è stata modificata dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12
luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e
delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, che ha elevato a
trentasei mensilità l’ammontare massimo dell’indennità per il licenziamento
affetto da vizi sostanziali. Tale discrasia renderebbe ancor più irragionevole
la disparità di trattamento tra le due discipline.

La violazione dell’art.
3 Cost., oltre che sul piano dell’arbitraria disparità di trattamento con
la disciplina prevista dall’art. 3
del d.lgs. n. 23 del 2015, si coglierebbe sul versante
dell’irragionevolezza intrinseca di una disciplina che prevede un tetto massimo
di dodici mensilità per la violazione del fondamentale obbligo di motivazione
del licenziamento e delle altre regole di garanzia del lavoratore, che
prescrivono la pubblicità del codice disciplinare, la preventiva contestazione
degli addebiti, l’esercizio del diritto di difesa del lavoratore.

Sulla base di tali considerazioni e in linea con i
riferimenti dell’ordinanza di rimessione all’esigenza di adeguato ristoro del
pregiudizio subito, si chiede a questa Corte di dichiarare l’illegittimità
consequenziale dell’art. 4 del
d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui sancisce il tetto massimo di
dodici mensilità, anziché di trentasei mensilità. Ad avviso della parte,
difatti, l’accoglimento della questione, nei circoscritti termini prospettati
dal rimettente, implica che il sistema si ricomponga «in modo nuovamente
incostituzionale per persistente violazione dell’art.
3 Cost.».

3.- Con ordinanza del 9 agosto 2019, iscritta al n.
235 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di
giudice del lavoro, ha sollevato, per violazione degli artt. 3, 4, primo
comma, e 35, primo comma, Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art.
4 del d.lgs. n. 23 del 2015, «limitatamente alle parole “di importo pari a
una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”».

3.1.- Il rimettente espone che gli addebiti mossi al
lavoratore integrano grave violazione del rapporto fiduciario e degli obblighi
fondamentali inerenti al rapporto di lavoro e che, pertanto, in ragione della
loro gravità, giustificano il licenziamento intimato. Tale licenziamento,
tuttavia, sarebbe viziato dal punto di vista formale. Il datore di lavoro, in
violazione delle garanzie apprestate dall’art. 7 della legge 20 maggio 1970,
n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della
libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), avrebbe ignorato le difese del lavoratore, ritenendole
erroneamente tardive.

Secondo il giudice a quo, il caso di specie è
regolato dall’art. 4 del d.lgs. n.
23 del 2015, che prevede, al pari del precedente art.
3, dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 194 del 2018, «un criterio di
commisurazione dell’indennità automaticamente legato all’anzianità di servizio»
e non si presta a un’interpretazione costituzionalmente orientata.

3.2.- Il rimettente ritiene che l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015
incorra nelle medesime censure che questa Corte, con riguardo all’indennità dovuta
per i vizi sostanziali del licenziamento, ha accolto con la richiamata sentenza n. 194 del 2018.

Il licenziamento viziato sotto il profilo formale o
procedurale si tradurrebbe nell’inosservanza di disposizioni imperative,
preordinate a garantire il principio di civiltà giuridica “audiatur et altera
pars”, e si configurerebbe pur sempre come «un illecito che deve dar luogo ad
un risarcimento “adeguato e personalizzato”, ancorché forfettizzato».

Il rimettente denuncia la violazione dell’art. 3 Cost. e, in particolare, il contrasto con
il «principio di uguaglianza/ragionevolezza». La disposizione censurata
sanzionerebbe «in modo uguale violazioni non solo produttive di danni
differenti, ma di gravità che possono essere, a loro volta, del tutto
differenti» e, soprattutto nei casi di anzianità di servizio «assai modesta»,
non rappresenterebbe «una adeguata dissuasione del datore di lavoro dal
licenziare ingiustamente (o comunque in violazione di legge)» e neppure
garantirebbe un risarcimento adeguato e personalizzato, necessario anche nel
caso di violazione di norme imperative attinenti alla forma e alla procedura.

Il meccanismo di predeterminazione dell’indennità si
risolverebbe in un ristoro inadeguato del danno prodotto dal licenziamento e in
una dissuasione inefficace e pregiudicherebbe, pertanto, l’interesse del
lavoratore alla stabilità dell’occupazione, tutelato dalla Carta fondamentale.

4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non è
intervenuto nei giudizi.

5.- All’udienza pubblica, svoltasi in collegamento
da remoto ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020,
punto 1), lettere a) e d), la parte costituita nel giudizio di cui al reg. ord.
n. 214 del 2019 ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni di merito
formulate nella memoria illustrativa.

 

Considerato in diritto

 

1.- Il Tribunale ordinario di Bari (reg. ord. n. 214
del 2019) e il Tribunale ordinario di Roma (reg. ord. n. 235 del 2019), entrambi
in funzione di giudici del lavoro, dubitano, in riferimento complessivamente
agli artt. 3, 4,
primo comma, 24 e 35,
primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo 4
marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo
indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in
cui prevede, per il licenziamento intimato in violazione del requisito di
motivazione o della procedura di cui all’art. 7 della legge 20 maggio 1970,
n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della
libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento), la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità
non assoggettata a contribuzione previdenziale «di importo pari a una mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine
rapporto per ogni anno di servizio» e attribuisce così rilievo esclusivo, ai
fini della quantificazione dell’indennità, al criterio dell’anzianità di
servizio.

1.1.- Il Tribunale di Bari reputa il «congegno
automatico di quantificazione dell’indennità» lesivo dei «principi di
ragionevolezza e di uguaglianza sanciti dall’art. 3
Cost.». Un siffatto meccanismo, per un verso, non terrebbe conto delle
«diverse gradazioni di gravità» delle violazioni procedurali e dei diversi
pregiudizi che il licenziamento illegittimo per questioni di forma arreca «in
base alle condizioni delle parti, all’anzianità del lavoratore, alle dimensioni
dell’azienda». Per altro verso, il meccanismo automatico di calcolo non
garantirebbe una adeguata tutela al «diritto a essere licenziati solo all’esito
di un regolare procedimento disciplinare, o comunque in virtù di un
provvedimento chiaro, espresso, specifico, motivato» e neppure sarebbe congruo
«rispetto alla finalità di dissuadere i datori di lavoro dal porre in essere
licenziamenti affetti da vizi di forma».

Il giudice a quo denuncia la violazione degli artt. 4, primo comma, e 35,
primo comma, Cost., sul presupposto che «una tutela inadeguata a fronte di
un licenziamento illegittimo sotto il profilo procedurale è altrettanto lesiva
del diritto al lavoro quanto l’analoga inadeguata tutela, ormai dichiarata
incostituzionale, prevista per i licenziamenti illegittimi sotto il profilo
sostanziale».

Ad avviso del rimettente, «l’irragionevole modalità
di calcolo dell’indennità» contrasta anche con l’art.
24 Cost., che impone di apprestare idonee garanzie procedurali «a presidio
di un regolare e legittimo licenziamento disciplinare».

1.2.- Anche il Tribunale di Roma censura l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015,
poiché stabilisce «un criterio di commisurazione dell’indennità automaticamente
legato all’anzianità di servizio» e trascura di considerare «una pluralità di
fattori di correlazione al danno sofferto».

La commisurazione dell’indennità alla sola anzianità
di servizio contrasterebbe con il «principio di uguaglianza/ragionevolezza» (art. 3 Cost.), perché sanzionerebbe «in modo
uguale violazioni non solo produttive di danni differenti, ma di gravità che
possono essere, a loro volta, del tutto differenti» e, nei casi di anzianità di
servizio modesta, non rappresenterebbe «una adeguata dissuasione del datore di
lavoro dal licenziare ingiustamente (o comunque in violazione di legge)» e non
garantirebbe «un adeguato ristoro al concreto pregiudizio».

Per le medesime ragioni, l’indennità determinata in
modo «rigido e fisso» non sarebbe rispettosa neppure delle garanzie
riconosciute dagli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost.

1.3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non è
intervenuto nei giudizi.

2.- In ragione dell’identità della disposizione
censurata e dell’omogeneità delle censure, i giudizi devono essere riuniti, per
essere trattati congiuntamente e per essere decisi con un’unica sentenza.

3.- I rimettenti muovono dalla corretta premessa che
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015,
dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza con la sentenza n. 194 del 2018, possa essere riproposta
in un diverso giudizio, senza essere preclusa dalla pronuncia in rito di questa
Corte.

Con riguardo alla necessità di applicare la
previsione citata, i giudici a quibus svolgono un’argomentazione puntuale, che
consente di ricostruire la fattispecie concreta e di cogliere la rilevanza del
dubbio di costituzionalità.

3.1.- Il Tribunale di Bari, dopo aver escluso la
sussistenza di vizi sostanziali del licenziamento, ha ravvisato vizi di natura
esclusivamente formale e procedurale, consistenti nell’omessa contestazione di
un addebito e nell’omessa comunicazione al lavoratore del termine entro il
quale, per tutti gli addebiti, avrebbe potuto presentare le proprie difese.

Il rimettente ha accertato i vizi in esame con una
sentenza non definitiva e ha disposto la prosecuzione del giudizio per la
determinazione dell’indennità. In tale contesto, il giudice a quo ha sollevato
d’ufficio la questione di legittimità costituzionale della disciplina
applicabile, non senza illustrare le ragioni che – nell’ipotesi di accoglimento
delle censure – condurrebbero a riconoscere una indennità più cospicua rispetto
a quella parametrata alla sola anzianità di servizio (pari, nella specie, a un
anno).

3.2.- Il Tribunale di Roma, all’esito di una
delibazione sommaria, che riconosce di poter mutare re melius perpensa,
disattende l’eccezione pregiudiziale di decadenza dall’impugnazione del
licenziamento e reputa infondate le doglianze sui vizi sostanziali dedotti dal
lavoratore.

Il licenziamento, pur sorretto da giusta causa,
risulterebbe viziato sotto il profilo formale, in quanto il datore di lavoro
non avrebbe tenuto in alcun conto le difese del lavoratore, sull’erroneo
presupposto che fossero tardive. Il giudice a quo ritiene, pertanto, allo stato
degli atti, di dovere applicare la disciplina sui vizi formali del
licenziamento e di non poter definire la controversia indipendentemente dalla
risoluzione della questione di legittimità costituzionale.

La motivazione in punto di rilevanza non appare
implausibile e supera, pertanto, il vaglio di ammissibilità.

3.3.- Entrambi i rimettenti riferiscono di avere
esplorato la possibilità di una interpretazione adeguatrice e di averla
ritenuta impraticabile, alla luce dell’univoco dato testuale della disposizione
censurata.

Anche da questo punto di vista, la questione non
presenta profili di inammissibilità, poiché è stata consapevolmente esclusa –
da entrambi i rimettenti – la praticabilità di una interpretazione
costituzionalmente orientata.

4.- Al fine di delimitare il tema del decidere
devoluto all’esame di questa Corte, occorre rilevare che, nella memoria
illustrativa depositata in vista dell’udienza, la parte costituita nel giudizio
di cui al reg. ord. n. 214 del 2019 ha chiesto di dichiarare l’illegittimità
costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015,
nella parte in cui fissa l’indennità nell’ammontare massimo di dodici
mensilità. Anche per il licenziamento affetto da vizi formali o procedurali, si
dovrebbe incrementare la soglia massima fino alle trentasei mensilità che oggi
stabilisce, per il licenziamento intimato senza giusta causa o senza
giustificato motivo oggettivo o soggettivo, l’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015,
così come modificato dall’art. 3,
comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per
la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni,
nella legge 9 agosto 2018, n. 96.

Prospettata nei termini di una declaratoria di
illegittimità costituzionale in via consequenziale, la richiesta della parte,
ribadita anche nel corso dell’udienza di discussione pubblica da remoto,
adombra, in realtà, una diversa questione di legittimità costituzionale, che
verte sul trattamento difforme, quanto alle soglie, tra vizi formali e vizi
sostanziali. Né si può ritenere identica la questione sulla scorta del dato –
posto in risalto nel corso dell’udienza – che non mutano la disposizione
censurata e i parametri evocati e che viene pur sempre in rilievo il tema della
adeguatezza della tutela.

Se il Tribunale di Bari non contesta il trattamento
differenziato che il legislatore ha scelto di riservare ai vizi formali e
procedurali del licenziamento rispetto a quelli sostanziali e – su questo
presupposto – propone incidente di costituzionalità, la parte privata dubita
della conformità a Costituzione di tale disparità di trattamento e chiede a
questa Corte di assimilare, quanto alla tutela indennitaria, la disciplina dei
vizi formali e quella dei vizi sostanziali.

La diversa prospettiva in cui si collocano i dubbi
di costituzionalità avanzati dal rimettente e dalla parte privata avvalora la
novità delle censure che quest’ultima ha formulato nella memoria illustrativa.
Tali censure travalicano e tendono ad ampliare irritualmente il tema del
decidere, così come tracciato dall’ordinanza di rimessione, e, pertanto,
secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (fra le molte, sentenza n.
26 del 2020, punto 4.3. del Considerato in diritto), non devono essere prese in
considerazione.

Lo scrutinio di questa Corte è dunque circoscritto
ai profili di illegittimità costituzionale denunciati dai rimettenti.

5.- Le questioni sollevate da entrambi i rimettenti
sono fondate, con riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, e 35,
primo comma, Cost.

6.- Occorre, in primo luogo, raffigurare nella sua
evoluzione più recente il quadro normativo in cui si colloca la disciplina
censurata.

6.1.- La legge 28
giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del
lavoro in una prospettiva di crescita), ha riservato un’autonoma disciplina
alle conseguenze sanzionatorie dei vizi formali e ha modulato le tutele, in
ragione della diversa gravità di tali vizi.

Nell’intervenire sull’art. 18, primo e secondo comma,
della legge n. 300 del 1970, la legge citata ha conferito autonomo rilievo
al licenziamento intimato in forma orale, disponendo, a prescindere dal numero
di lavoratori occupati, la reintegrazione del lavoratore e il risarcimento del
danno, pari a «un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di
fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva
reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo
svolgimento di altre attività lavorative» e comunque non inferiore a cinque mensilità
della retribuzione globale di fatto.

L’art.
2, commi 1, ultimo periodo, e 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nel confermare
tale linea di tendenza, puntualizza che, per il licenziamento intimato in forma
orale, l’indennità è commisurata non più all’ultima retribuzione globale di
fatto, ma all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento
di fine rapporto.

Regole diverse vigono per gli altri vizi formali e,
in particolare, per l’ipotesi di «licenziamento dichiarato inefficace per
violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge
15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui
all’articolo 7 della
presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio
1966, n. 604, e successive modificazioni», prevista nel caso di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La legge
n. 92 del 2012 (art. 1, comma 42, lettera b), nel modificare l’art. 18, sesto comma, dello
statuto dei lavoratori, ha previsto una tutela prettamente indennitaria, che ha
carattere residuale, in quanto si applica soltanto quando il giudice non
accerti anche il difetto di giustificazione del licenziamento.

Il giudice, in tale fattispecie, dichiara risolto il
rapporto di lavoro e attribuisce al lavoratore «un’indennità risarcitoria
onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale
o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo
di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di
specifica motivazione a tale riguardo».

La tutela indennitaria definita dallo statuto dei
lavoratori è applicabile, dal punto di vista soggettivo, «al datore di lavoro,
imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale,
ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa
alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di
imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non
imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici
dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa
più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente
considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro,
imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti» (art. 18, ottavo comma, della
legge n. 300 del 1970).

Nell’assetto della legge
n. 92 del 2012, il datore di lavoro che non raggiunga le dimensioni di cui
all’art. 18, ottavo comma,
dello statuto dei lavoratori, e sia assoggettato, pertanto, al regime della
tutela obbligatoria, dovrà corrispondere, nell’ipotesi di vizi formali diversi
dall’inosservanza della forma scritta del licenziamento, una indennità
determinata secondo le regole dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966,
in un «importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei
dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio
del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti»,
accresciuto in rapporto all’anzianità di servizio (Corte
di cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 settembre 2016, n. 17589).

6.2.- L’art.
4 del d.lgs. n. 23 del 2015, applicabile agli operai, agli impiegati o
quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a
decorrere dal 7 marzo 2015, riproduce in gran parte le disposizioni dell’art.
18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, così come novellato dalla legge n. 92 del 2012.

La tutela, anche nel nuovo regime, ha carattere
residuale e non si applica quando il giudice ravvisi i presupposti del
licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale o carente di
giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo.

La previsione regola la sola ipotesi del
licenziamento «intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge
n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 300 del
1970».

Ove riscontri i vizi indicati, il giudice dichiara
estinto il rapporto di lavoro e condanna «il datore di lavoro al pagamento di
un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a
una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non
inferiore a due e non superiore a dodici mensilità».

L’art.
9 del d.lgs. n. 23 del 2015 dispone che l’importo della indennità sia
dimezzato, nel caso di «piccole imprese», che non raggiungano i requisiti
dimensionali dell’art. 18,
ottavo e nono comma, dello statuto dei lavoratori.

7.- Le prescrizioni formali, la cui violazione la
disposizione censurata ha inteso sanzionare con la tutela indennitaria,
rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà
giuridica. Nell’ambito della disciplina dei licenziamenti, il rispetto della
forma e delle procedure assume un rilievo ancora più pregnante, poiché segna le
tappe di un lungo cammino nella progressiva attuazione dei principi
costituzionali.

L’obbligo di motivazione, inizialmente subordinato a
una specifica richiesta del lavoratore, ha assunto caratteri più stringenti, in
séguito alle novità introdotte dall’art.
1, comma 37, della legge n. 92 del 2012. Il datore di lavoro è, infatti,
obbligato a dar conto in maniera sollecita e circostanziata delle
giustificazioni per l’applicazione della sanzione più grave, secondo il
principio di buona fede che permea ogni rapporto obbligatorio e vincola le
parti a comportamenti univoci e trasparenti.

L’obbligo di motivazione, che ha il suo corollario
nella immutabilità delle ragioni del licenziamento, è tratto qualificante di
una disciplina volta a delimitare il potere unilaterale del datore di lavoro,
al fine di comprimere ogni manifestazione arbitraria dello stesso.

Le previsioni dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970,
richiamate dalla disposizione oggi censurata, assegnano un ruolo centrale al
principio del contraddittorio, più che mai cruciale nell’esercizio di un potere
privato che si spinge fino a irrogare la sanzione espulsiva (sentenza n. 204 del 1982, punto 11.1. del
Considerato in diritto). La conoscibilità delle norme disciplinari, la
preventiva contestazione dell’addebito, il diritto del lavoratore di essere
sentito, non sono vuote prescrizioni formali, ma concorrono a tutelare la
dignità del lavoratore, come traspare anche dalla collocazione sistematica
della norma nel Titolo I dello statuto dei lavoratori, denominato «Della
libertà e dignità del lavoratore». Dopo questo intervento del legislatore, il
potere disciplinare, nient’affatto dimidiato né tanto meno sospeso, assume le
cadenze di un procedimento: esso si estrinseca nel rispetto di precise regole e
si snoda attraverso fasi successive (sentenza n.
204 del 1982, punto 11.1. del Considerato in diritto).

Le garanzie sancite dall’art. 2 della legge n. 604 del 1966
e dall’art. 7 dello statuto dei
lavoratori, consistono nell’imporre alle parti di esternare le contrapposte
ragioni, al fine di chiarire i punti controversi e favorire, ove possibile,
composizioni stragiudiziali. Tali garanzie preludono a un esercizio più
efficace del diritto di difesa nel corso della fase giudiziale che il
lavoratore può scegliere di instaurare successivamente.

La violazione delle prescrizioni formali e
procedurali, all’origine di un possibile e più ampio contenzioso riferito al
recesso del datore di lavoro, rischia di disperdere gli elementi di prova che
si possono acquisire nell’immediatezza dei fatti e attraverso un sollecito
contraddittorio e incide, pertanto, sull’effettività del diritto di difesa del
lavoratore.

8.- L’obbligo di motivazione e la regola del
contraddittorio sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato
dagli artt. 4 e 35
Cost., che impone al legislatore di circondare di «doverose garanzie» e di
«opportuni temperamenti» il recesso del datore di lavoro (sentenza n. 45 del 1965, punto 4. del Considerato
in diritto), come questa Corte ha ribadito da ultimo nella sentenza n. 194 del 2018 (punto 9.1. del
Considerato in diritto).

Anche i vincoli di forma e di procedura rientrano
nell’ambito delle garanzie prescritte dalle norme ora richiamate, lette
congiuntamente, proprio perché volte ad ampliare il perimetro delle tutele che
circonda la persona del lavoratore.

Questa Corte ha affermato, sin da epoca risalente,
che l’inosservanza del principio del contraddittorio e delle scansioni
procedurali imposte dall’art. 7
dello statuto dei lavoratori «può incidere sulla sfera morale e
professionale del lavoratore e crea ostacoli o addirittura impedimenti alle
nuove occasioni di lavoro che il licenziato deve poi necessariamente trovare.
Tanto più grave è il pregiudizio che si verifica se il licenziato non sia posto
in grado di difendersi e fare accertare l’insussistenza dei motivi
“disciplinari”, peraltro unilateralmente mossi e addebitati dal datore di
lavoro» (sentenza n. 427 del 1989).

Il contraddittorio «esprime un valore essenziale per
la persona del lavoratore» (sentenza n. 364 del 1991, punto 2. del Considerato
in diritto) e anche l’obbligo di motivazione risponde ad analoghe esigenze di
tutela. La violazione di tale obbligo, difatti, non solo preclude in radice il
dispiegarsi del contraddittorio, ma reca offesa alla dignità del lavoratore,
esposto all’irrogazione della sanzione espulsiva senza avere adeguata
cognizione delle ragioni che la giustificano.

9.- La disciplina del licenziamento affetto da vizi
di forma e di procedura, proprio per gli interessi di rilievo costituzionale
che sono stati richiamati, deve essere incardinata nel rispetto dei principi di
eguaglianza e di ragionevolezza, così da garantire una tutela adeguata.

La prudente discrezionalità del legislatore, pur
potendo modulare la tutela in chiave eminentemente monetaria, attraverso la
predeterminazione dell’importo spettante al lavoratore, non può trascurare la
valutazione della specificità del caso concreto. Si tratta di una valutazione
tutt’altro che marginale, se solo si considera la vasta gamma di variabili che
vedono direttamente implicata la persona del lavoratore. Nel rispetto del
dettato costituzionale, la predeterminazione dell’indennità deve tendere, con
ragionevole approssimazione, a rispecchiare tale specificità e non può
discostarsene in misura apprezzabile, come avviene quando si adotta un
meccanismo rigido e uniforme.

10.- La disciplina censurata non attua un
equilibrato contemperamento tra i diversi interessi in gioco.

11.- Entrambi i rimettenti prendono le mosse dalla sentenza n. 194 del 2018, con cui questa Corte ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del
2015, nella parte in cui determinava l’indennità per il licenziamento
intimato senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo
in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per
il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».

Le censure ricalcano in gran parte le argomentazioni
svolte nella citata sentenza di questa Corte circa il carattere rigido
dell’indennità, lesivo dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.),
tutelato dalla Costituzione in tutte le sue forme e applicazioni.

11.1.- Le ragioni su cui questa Corte ha fondato la
declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015
devono essere ripercorse lungo una linea di continuità, al fine di esaminare la
disciplina dell’indennità dovuta per il licenziamento affetto da vizi formali e
procedurali.

11.2.- Anche la fattispecie oggi scrutinata si
caratterizza per un criterio di determinazione dell’indennità commisurato alla
sola anzianità di servizio e oscillante tra un limite minimo di due mensilità e
un insuperabile limite massimo di dodici mensilità.

11.3.- Al dato significativo dell’identità del
criterio congegnato dal legislatore, si affianca la considerazione della ratio
decidendi della pronuncia di questa Corte, che serve a orientare la soluzione
dell’odierno dubbio di costituzionalità.

Nel giudizio deciso con la sentenza n. 194 del 2018, le censure non
riguardavano le soglie fissate dal legislatore, ma il «meccanismo di determinazione»
dell’indennità, in quanto «rigido e automatico» (punto 3. del Considerato in
diritto). Partendo da tali premesse, questa Corte ha ritenuto ininfluenti le
innovazioni introdotte dal d.l. n. 87 del 2018,
come convertito, giacché esse si limitavano ad apportare correttivi alle soglie
stabilite dal legislatore (innalzate da quattro a sei mensilità nel minimo e da
ventiquattro a trentasei mensilità nel massimo), senza incidere sul meccanismo
denunciato dal rimettente e senza mutare, pertanto, i termini essenziali delle
questioni proposte.

La carenza di giustificazione del licenziamento sul
piano sostanziale rende più stridenti i profili di contrasto con i parametri
costituzionali evocati e fa emergere, con ancor maggiore evidenza,
l’irragionevolezza intrinseca del criterio adottato dal legislatore, per la
rigidità che lo caratterizza.

11.4.- Non può condurre a diverse conclusioni la
differenza che intercorre tra i vizi meramente formali o procedurali e i vizi
sostanziali del licenziamento. Essa, difatti, si riverbera sulla diversa
modulazione dell’indennità sancita dalla legge, ma non vale a rendere
ragionevole e adeguato un criterio che si presta a censure di irragionevolezza
intrinseca. Un sistema che, solo per i vizi formali, lasci inalterato un
criterio di determinazione dell’indennità imperniato sulla sola anzianità di
servizio non potrebbe che accentuare le sperequazioni e la frammentarietà di
una disciplina dei licenziamenti, già attraversata da molteplici distinzioni.

12.- L’anzianità di servizio, svincolata da ogni
criterio correttivo, è inidonea a esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni
licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore e non
presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del
licenziamento affetto da vizi formali e procedurali, che il legislatore ha
inteso sanzionare. Tale disvalore non può esaurirsi nel mero calcolo aritmetico
della anzianità di servizio.

La disciplina censurata prescinde da altri fattori
non meno significativi, già presi in considerazione dal legislatore, come la
diversa gravità delle violazioni ascrivibili al datore di lavoro, valorizzata
dalla legislazione del 2012 nell’area della tutela reale (art. 18, sesto comma, dello
statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge
n. 92 del 2012), o i più flessibili criteri del numero degli occupati,
delle dimensioni dell’impresa, del comportamento e delle condizioni delle parti
(art. 8 della legge n. 604 del
1966), applicabili nell’ambito della tutela obbligatoria, così come
definito dalla stessa legge n. 92 del 2012.

Nell’appiattire la valutazione del giudice sulla
verifica della sola anzianità di servizio, la disposizione in esame determina
un’indebita omologazione di situazioni che, nell’esperienza concreta, sono
profondamente diverse e così entra in conflitto con il principio di
eguaglianza.

13.- L’art. 3 Cost.
è violato anche sotto il profilo della ragionevolezza, che questa Corte,
nell’ambito della disciplina dei licenziamenti, ha declinato come necessaria
adeguatezza dei rimedi, nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi
interessi in gioco e della specialità dell’apparato di tutele previsto dal
diritto del lavoro (sentenza n. 194 del 2018,
punti 12.1. e 12.2. del Considerato in diritto).

Il legislatore, pur potendo adattare secondo una
pluralità di criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche, i
rimedi contro i licenziamenti illegittimi, è chiamato a salvaguardarne la
complessiva adeguatezza, che consenta di attribuire il doveroso rilievo al
fatto, in sé sempre traumatico, dell’espulsione del lavoratore.

L’adeguatezza deve essere valutata alla luce della
molteplicità di funzioni che contraddistinguono l’indennità disciplinata dalla
legge. Alla funzione di ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento
illegittimo si affianca, infatti, anche quella sanzionatoria e dissuasiva (sentenza n. 194 del 2018, punto 12.3. del
Considerato in diritto).

In un prudente bilanciamento tra gli interessi
costituzionalmente rilevanti, l’esigenza di uniformità di trattamento e di
prevedibilità dei costi di un atto, che l’ordinamento qualifica pur sempre come
illecito, non può sacrificare in maniera sproporzionata l’apprezzamento delle
particolarità del caso concreto, peraltro accompagnato da vincoli e garanzie
dirette ad assicurarne la trasparenza e il fondamento razionale.

13.1.- La disposizione censurata entra in collisione
con tali principi.

Sul versante dei licenziamenti viziati dal punto di
vista formale, all’arretrare della tutela riferita alla reintegrazione del
lavoratore licenziato corrisponde un progressivo affievolirsi della tutela
indennitaria, che non basta ad attuare un equilibrato contemperamento degli
interessi in conflitto. Nel disegno complessivo prospettato dal legislatore un
criterio ancorato in via esclusiva all’anzianità di servizio non fa che
accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor più
la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati
alla tutela della dignità della persona del lavoratore.

L’incongruenza di una misura uniforme e immutabile
si coglie in maniera ancor più evidente nei casi di un’anzianità modesta, come
quelli esaminati nei giudizi principali. In queste ipotesi, si riducono in modo
apprezzabile sia la funzione compensativa sia l’efficacia deterrente della
tutela indennitaria. Né all’inadeguatezza del ristoro riconosciuto dalla legge
può porre sempre rimedio la misura minima dell’indennità, fissata in due
mensilità.

Un meccanismo di tal fatta, pertanto, non compensa
il pregiudizio arrecato dall’inosservanza di garanzie fondamentali e neppure
rappresenta una sanzione efficace, atta a dissuadere il datore di lavoro dal
violare le garanzie prescritte dalla legge. Proprio perché strutturalmente
inadeguato, il congegno delineato dal legislatore lede il canone di
ragionevolezza.

14.- I rimedi previsti dalla disposizione censurata,
in ragione dell’inadeguatezza che li contraddistingue, si rivelano lesivi anche
della tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (artt. 4, primo comma, e 35,
primo comma, Cost.). Tali principi costituzionali, già richiamati da questa
Corte nella sentenza n. 194 del 2018 (punto
13. del Considerato in diritto), devono essere ribaditi anche per la giusta
procedura di licenziamento, diretta a salvaguardare pienamente la dignità della
persona del lavoratore.

15.- Si deve, pertanto, dichiarare l’illegittimità
costituzionale dell’art. 4 del
d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «di importo pari a una
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento
di fine rapporto per ogni anno di servizio».

Restano assorbite le censure di violazione dell’art. 24 Cost., formulate dal solo Tribunale di
Bari.

16.- Nel rispetto dei limiti minimo e massimo oggi
fissati dal legislatore, il giudice, nella determinazione dell’indennità, terrà
conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, che rappresenta la base di
partenza della valutazione. In chiave correttiva, con apprezzamento
congruamente motivato, il giudice potrà ponderare anche altri criteri
desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione
dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto.

Ben potranno venire in rilievo, a tale riguardo, la
gravità delle violazioni, enucleata dall’art. 18, sesto comma, dello
statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge
n. 92 del 2012, e anche il numero degli occupati, le dimensioni
dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, richiamati dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966,
previsione applicabile ai vizi formali nell’ambito della tutela obbligatoria
ridefinita dalla stessa legge n. 92 del 2012.

17.- Spetta alla responsabilità del legislatore,
anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte,
ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che
vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi
frammentari.

 

P.Q.M.

 

Riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 4 del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione
della legge 10 dicembre 2014, n. 183),
limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio».

Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 16 luglio 2020, n. 150
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