Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 luglio 2020, n. 15411

INPGI, Risarcimento indennità mancato preavviso, Accordo
transattivo per la risoluzione del rapporto di lavoro

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con ricorso al Tribunale di Roma la società
E.C.N. s.p.a. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso in
favore dell’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani “G.A.”
(INPGI) per l’importo di euro 258.999,00, oltre interessi e spese, per
contributi e sanzioni di legge dovuti in riferimento a:

a) Contributi sulle somme erogate a titolo di
“risarcimento indennità mancato preavviso”;

b) Contributi sulla somma versata alla giornalista
G. nell’ambito di accordo transattivo per la risoluzione del rapporto di
lavoro;

c) Contributi in relazione al rapporto di lavoro dei
dipendenti B., P., Z., inquadrati — ai fini retributivi e previdenziali — con
rapporto di lavoro ai sensi del CCNL Grafici Editoriali e da ritenersi invece
come dipendenti che espletavano mansioni giornalistiche;

d) Contributi dovuti in relazione al rapporto di
lavoro subordinato tra la predetta azienda editoriale e i giornalisti L., A. e
O., per i quali deduceva l’opponente la natura di collaborazione autonoma del
rapporto.

2. Il Tribunale rigettava l’opposizione con sentenza
del 23.10.2006.

3. Avverso la citata sentenza di prime cure la
società proponeva impugnazione dinanzi alla Corte di appello di Roma,
limitatamente ai crediti suindicati sotto le lettere b), c) e d). L’INPGI si
costituiva per resistere all’impugnazione.

4. Con sentenza pubblicata il 12.9.2013 la Corte
territoriale, constatato il passaggio in giudicato delle statuizioni della
decisione di prime cure in relazione ai crediti suindicati sotto la lettera a),
in riforma dell’impugnata sentenza revocava il decreto ingiuntivo emesso in
favore dell’INPGI; condannava la società appellante al pagamento in favore
dell’INPGI, a titolo di contributi e sanzioni dovuti fino alla data del
15.10.2003 — per le inadempienze specificate in motivazione – della complessiva
somma di euro 126.519,00, oltre ulteriori sanzioni dalla predetta data, nonché
al pagamento di V2 delle spese del doppio grado di giudizio.

5. Per quanto qui ancora interessa, la Corte
territoriale accoglieva il gravame della società in relazione ai crediti sub
b), e, in parte, sub c).

6. In ordine ai primi, cioè quelli inerenti ai
contributi sulla somma versata alla giornalista G. nell’ambito di accordo
transattivo per la risoluzione del rapporto di lavoro, la Corte territoriale
osservava che l’erogazione litigiosa rientrava nell’ipotesi di esclusione dalla
contribuzione, anche se erogata dopo il licenziamento, avendo le parti con
transazione novativa risolto consensualmente il rapporto con decorrenza
pregressa e non risultando inoltre che vi fossero tra le parti questioni
ulteriori e diverse rispetto a quella della cessazione del rapporto di lavoro,
per cui la rinuncia ad ogni eventuale pretesa era da stimarsi alla stregua di
una clausola di stile, e riferendosi la norma applicabile, l’art. 6 del D.Lgs. n. 314 del 1997,
che aveva novellato l’art. 12
della l. n. 153 del 1969, nella sua ampia accezione, a qualsiasi genere di
erogazioni traenti origine dalla cessazione del rapporto.

7. Relativamente ai secondi, il gravame della
società veniva accolto esclusivamente in ordine alla posizione della dipendente
Z.P. Sul punto la Corte territoriale rilevava che l’unica testimonianza che
sorreggeva la motivazione della decisione di prime cure sulla natura
giornalistica dell’attività lavorativa era quella dell’ispettore verbalizzante,
che tuttavia riferiva, con giudizi valutativi, notizie apprese da terzi, mentre
a tale deposizione si contrapponeva quella della teste Ilari, che descriveva i
compiti di questa dipendente come attività di segreteria, per cui la situazione
di incertezza e conflitto delle fonti di prova imponeva il rigetto della
domanda dell’INPGI.

8. Avverso la predetta sentenza della Corte di
appello di Roma l’INPGI propone ricorso per cassazione affidato a quattro
motivi illustrati da memoria, la società E.C.N. s.p.a. non ha notificato un
controricorso, ma ha depositato prima procura notarile speciale il 22.5.2015 e
poi memoria ai sensi dell’art. 380 bis
cod.proc.civ.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2. L’Istituto ricorrente eccepisce l’inammissibilità
della memoria depositata dalla parte intimata, pur ammettendo che la più
recente giurisprudenza di questa Corte, in tema di rito camerale di legittimità
di cui all’art. 1 bis del d.l. n.
168 del 2016, convertito, con modificazioni, nella l. n. 197 del 2016, e in ordine ai ricorsi
depositati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del
detto decreto-legge, riconosce all’intimato che abbia depositato procura
speciale prima di quest’ultima data la facoltà di depositare memoria ai sensi
dell’art. 380 bis cod.proc.civ.

3. Il principio, richiamato dallo stesso Istituto
ricorrente, è stato affermato in particolare da Cass. n. 7701 del 2017 (ord.).
In questa decisione la Corte ha osservato come la parte che abbia depositato la
sola procura notarile, senza notificare alcun controricorso, ma tanto prima
della novella del 2016 del rito di legittimità, in un tempo in cui tanto le
avrebbe pur sempre consentito – alla stregua se non altro della giurisprudenza consolidata
fino a quel momento (fin da Cass. n. 822 del 1968) – di prendere almeno parte
appunto alla discussione orale, ove la causa fosse stata trattata in pubblica
udienza, o al suo difensore di essere sentito in Z1 camera di consiglio, ove la
causa fosse stata trattata con il rito della camera di consiglio secondo la
disciplina vigente al momento in cui la costituzione era avvenuta, in entrambi
i casi depositando in cancelleria memoria scritta in tempo anteriore; e però,
con la novella sopravvenuta ed immediatamente applicabile anche al ricorso già
pendente (o depositato, siccome per esso non era stata ancora fissata l’udienza
o l’adunanza in camera di consiglio), evenienza che certo non poteva essere
prevista al momento in cui la parte intimata aveva scelto di non notificare
controricorso ma di optare per la linea difensiva di depositare la sola procura
notarile fidando sulla giurisprudenza che ad essa avrebbe consentito
l’estrinsecazione di quelle minime facoltà difensive, queste ultime sono state
ulteriormente ridotte alla sola interlocuzione scritta della possibilità di
depositare memoria ai sensi del novellato art. 380
bis cod.proc.civ.. In conseguenza, ha opinato la Corte, in questo contesto
è allora giocoforza riconoscere, al fine di non conculcare del tutto il diritto
di difesa della parte e quanto meno nella presente fase a subire una repentina
ed imprevista benché in sé, ovverosia a regime, perfettamente legittima (Cass.
n. 395 del 2017 (ord.); n. 4541 del 2017 (ord.) – riduzione delle modalità di
estrinsecazione di quello, quanto meno il diritto appunto ad interloquire,
nelle forme ancora consentite e quindi egualmente per iscritto con la memoria
anche in (e nonostante il) difetto di previa notifica di alcun controricorso.

4. A tale giurisprudenza il Collegio intende dare
continuità. Ne segue, vista la data già richiamata del deposito della procura
speciale notarile nella cancelleria di questa Corte, che la memoria depositata
dalla parte intimata deve ritenersi ammissibile.

5. Quanto alle doglianze fatte valere nel ricorso, i
primi due motivi attengono alla questione della sottoposizione a contribuzione
previdenziale INPGI della somma corrisposta a seguito di transazione raggiunta
dalla società E.C.N. con la giornalista E.G., e gli altri due attengono alla
statuizione della sentenza impugnata inerente al tipo di attività svolto dalla
dipendente Z.

6. Con il primo motivo l’Istituto ricorre per
violazione dell’art. 12 legge
n. 153 del 1969, degli art. 1362 e ss. 2113 e 2115 cod.civ.,
nonché vizi della motivazione, in relazione all’art.
360, comma 1, n. 3 e 5 cod.proc.civ., nella nuova formulazione per avere la
Corte territoriale escluso ogni obbligo contributivo in capo alla società con
riferimento all’importo di 183.000.000,00 di lire italiane corrisposto alla
dipendente E. G. a titolo d’incentivo all’esodo.

7. Con il secondo motivo l’INPGI si duole
dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ., nonché
della violazione e falsa applicazione degli art.
112, 115, 132
n. 4 e 277 cod.proc.civ. ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e 4 cod.proc.civ. per
avere i giudici di appello mancato di considerare che, da un lato, nella
conciliazione fosse indicata una data di risoluzione consensuale del rapporto
di lavoro risalente a cinque mesi prima del giorno della sottoscrizione e,
dall’altro, che l’accordo litigioso si concludeva con una clausola finale con
cui la G. dichiarava di non aver “null’altro a pretendere nei confronti della
Società”, ivi comprese eventuali pretese retributive, e si deduce anche
l’assenza di una specifica motivazione su tale ultimo punto.

8. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la
violazione e falsa applicazione degli art.
1 e seguenti del CCNL del settore giornalistico, degli art. 1362 e seguenti cod.civ., oltre che nullità
della sentenza in relazione agli art. 112, 132 n. 4 e 277
cod.proc.civ. ai sensi dell’art. 360, comma 1,
n. 3, 4 e 5 cod.proc.civ. nella sua nuova formulazione, per aver la Corte
territoriale ritenuto non dovuti i contributi previdenziali richiesti per la
posizione della dipendente Z.P. non risultando provata la natura giornalistica
dell’attività dalla stessa svolta. Oltre a ciò, l’Istituto ricorrente, quanto
alla dedotta nullità della sentenza, deduce che la sentenza non avrebbe
spiegato per quale ragione la posizione delle dipendenti B. e P. fossero state
decise in maniera difforme da quella della Z.P.

9. Con il quarto motivo “in estremo subordine” si
deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli
421, 437, 118 e
seguenti cod.proc.civ. in relazione all’art.
360, comma 1, n. 3 e 4 cod.proc.civ. per non aver il giudice di appello
disposto i necessari approfondimenti, eventualmente richiesti dalle risultanze
istruttorie.

10. Il primo motivo di ricorso, che inerisce
all’assoggettabilità a contribuzione previdenziale INPGI della somma
corrisposta a seguito di transazione raggiunta dalla società E.C.N. con la
giornalista E. G., individua quattro distinte ragioni del decidere della
sentenza impugnata quanto a questa posizione, e procede alla critica di
ciascuna di esse.

11. Tali ragioni vengono così individuate:

– Esistenza di una transazione novativa — con
risoluzione consensuale del rapporto di lavoro alla data del licenziamento,
cioè 17.2.1998 e corresponsione della somma litigiosa a titolo di incentivo
all’esodo – che escludeva qualsiasi obbligo contributivo a carico della datrice
di lavoro (in mancanza di collegamento con il rapporto di lavoro);

– Irrilevanza della data della corresponsione in
presenza di transazione novativa che risolveva consensualmente il rapporto, con
effetto retroattivo;

– Inesistenza di pregresse questioni di carattere
retributivo;

– Ampia accezione della norma (comma 4 lettera b
dell’art. 12 l. n. 153 del
1969 nel testo vigente ratione temporis ) la quale stabilisce che tutte le
erogazioni che traggono comunque origine dalla cessazione del rapporto sono
esenti da contribuzione.

12. Sotto il primo profilo l’INPGI fa valere che la
giurisprudenza di legittimità riterrebbe l’irrilevanza di una transazione tra
datore di lavoro e lavoratore ai fini di affermare la sussistenza o
l’insussistenza di un obbligo contributivo.

13. In realtà i principi affermati nell’invocata
giurisprudenza, se sono effettivamente fermi nel ritenere l’irrilevanza di una
transazione tra datore di lavoro e lavoratore al fine di affermare la
sussistenza o l’insussistenza di un obbligo contributivo, non eliminano l’onere
per l’ente creditore di allegare e provare quali siano nell’accordo transattivo
le poste di sicura natura retributiva e collegate intrinsecamente al
sottostante rapporto di lavoro.

14. Va, infatti, premesso che questa Corte (Cass. sez. lav. n. 20146 del 23.9.2010) ha già
avuto modo di affermare in caso analogo che “in tema di obblighi
previdenziali, qualora sia intervenuta una conciliazione giudiziale relativa
alla definizione delle pendenze riconducibili alla cessazione ed estinzione del
rapporto di lavoro subordinato sottostante, il negozio transattivo stipulato
tra le parti ha natura novativa in quanto costituisce l’unica ed originaria
fonte dei diritti e degli obblighi successivi alla risoluzione. Ne consegue che
le somme dovute al lavoratore, ancorché aventi natura retributiva, sono
disancorate dal preesistente rapporto, con l’ulteriore conseguenza che, nella
vigenza dell’art. 12 della
legge n. 153 del 1969, tale importo non può essere computato per la
determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di
previdenza ed assistenza sociale.” (in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 13717 del 14.6.2006). Si è,
altresì, statuito (Cass. sez. lav. n. 17495 del
28.7.2009) che “le somme corrisposte dal datore di lavoro al
dipendente in esecuzione di un contratto di transazione non sono, ai sensi e
per gli effetti dell’art. 12
della legge n. 153 del 1969 – nel testo anteriore alla sostituzione operata
dall’art. 6 del d.lgs. n. 314 del
1997 – dovute in dipendenza del contratto, appunto, di lavoro, ma del
contratto di transazione. Ne consegue che, rimanendo l’obbligazione
contributiva insensibile agli effetti della transazione, l’INPS può azionare il
credito contributivo provando – con qualsiasi mezzo ed anche in via presuntiva,
dallo stesso contratto di transazione e dal contesto dei fatti in cui è
inserito – quali siano le somme assoggettabili a contribuzione spettanti al
lavoratore. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito sul
presupposto che il giudice avesse erroneamente ritenuto che le somme erogate in
esecuzione di un contratto di transazione fossero comunque soggette a
contribuzione ed avesse, perciò, omesso di verificare eventuali rinunce da
parte dei dipendenti a crediti realmente sussistenti).”

15. In sostanza, anche in presenza di una
transazione intervenuta a seguito di lite giudiziaria, l’indagine del giudice
sulla natura retributiva o meno di determinate somme erogate al lavoratore non
trova alcun limite nel titolo formale di tali erogazioni, anche perché le
stesse potrebbero trovarsi in nesso non di dipendenza ma di occasionalità con
il rapporto di lavoro e quindi non assoggettabili a contribuzione.

16. In effetti, la estraneità della transazione
intervenuta tra datore di lavoro e lavoratore nei riguardi del rapporto
contributivo discende dal principio che, alla base del calcolo dei contributi
previdenziali, deve essere posta la retribuzione dovuta per legge o per
contratto individuale o collettivo e non quella di fatto corrisposta, in quanto
l’espressione usata dalla L.
n. 153 del 1969, art. 12, per indicare la retribuzione imponibile
(“tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro…”) va
intesa nel senso di “tutto ciò che ha diritto di ricevere”, ove si
consideri che il rapporto assicurativo e l’obbligo contributivo ad esso
connesso sorgono con l’instaurarsi del rapporto di lavoro, ma sono del tutto
autonomi e distinti, nel senso che l’obbligo contributivo del datore di lavoro
verso l’istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi
retributivi nei confronti del prestatore d’opera siano stati in tutto o in
parte soddisfatti, ovvero che il lavoratore abbia rinunciato ai suoi diritti
(cfr. tra le numerose decisioni, Cass. 15 maggio 1993, n. 5547; 13 aprile 1999,
n. 3630).

17. Dal complesso di questi principi discende che le
somme pagate a titolo di transazione “dipendono” da questo contratto
e non dal (diverso) contratto di lavoro, posto che la funzione del contratto di
transazione, ai sensi dell’art. 1965 c.c., è,
in ogni caso, di precludere alle parti stipulanti l’accertamento giudiziale del
rapporto o delle sue regole, cosicché la sua esecuzione non è esecuzione delle
obbligazioni derivanti dal rapporto oggetto della controversia (v. in tal senso
Cass. sez. lav. n. 17495 del 2009 sopra
citata).

18. Tra l’altro, il decreto
legislativo 2 settembre 1997, n. 314, in vigore dall’1.1.1998, all’art. 6 (Determinazione del
reddito da lavoro dipendente ai fini contributivi), nel novellare il citato art. 12 della legge n. 153/1969,
applicabile al caso in esame, prevede al punto 4 l’esclusione dalla base
imponibile di numerosi emolumenti, tra i quali, ad esempio, oltre alle somme
corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di
incentivare l’esodo dei lavoratori, cioè la categoria nella quale la Corte
territoriale ha inquadrato la fattispecie litigiosa, le somme corrisposte a
titolo di trattamento di fine rapporto, quelle la cui erogazione trae origine
dalla predetta cessazione, i proventi e le indennità conseguite, anche in forma
assicurativa, a titolo di risarcimento danni, i proventi derivanti da polizze
assicurative, i compensi erogati per conto di terzi non aventi attinenza con la
prestazione lavorativa, le erogazioni previste dai contratti collettivi
aziendali, ovvero di secondo livello, i contributi e le somme a carico del
datore di lavoro, versate o accantonate, sotto qualsiasi forma, a finanziamento
delle forme pensionistiche complementari.

19. Alla luce di tale nuova disposizione risulta,
quindi, rafforzata la necessità di dover provare e distinguere all’interno di
un accordo transattivo quelle che sono le poste di sicura natura retributiva e
di collegamento intrinseco al sottostante rapporto di lavoro al fine del loro
assoggettamento ad imposizione contributiva (Cass.
sez. lavoro n. 27933 del 23.11.2017).

20. Orbene, la Corte d’appello di Roma si è attenuta
a tali principi e con motivazione adeguata ha considerato che la somma
litigiosa rientrava nell’ipotesi di esclusione della contribuzione, anche se
erogata dopo il licenziamento, avendo le parti con transazione novativa risolto
consensualmente il rapporto con decorrenza pregressa, non risultando che vi
fossero tra le parti questioni ulteriori e diverse rispetto a quella della
cessazione del rapporto di lavoro, per cui la rinunzia ad ogni eventuale
pretesa era da stimarsi alla stregua di una clausola di stile.

21. Né può darsi seguito alla censura mossa alla
sentenza impugnata perché essa avrebbe considerato irrilevante la data delle
transazione, assumendo che si trattava di transazione novativa che risolveva
consensualmente il rapporto con effetto retroattivo “nonostante le precise
indicazioni risultanti dal verbale di conciliazione sottoscritto dalle parti”,
per cui si deduce la violazione degli art. 1362
e 1363 cod.civ., ma tali “precise indicazioni”
non vengono precisate né trascritte nel ricorso, che difetta così di
autosufficienza. Del tutto generica è la censura di omessa motivazione che pure
viene sollevata in questo contesto. Di qui l’inammissibilità di questo profilo.

22. Quanto al profilo di questo motivo relativo alla
dedotta violazione delle norme di ermeneutica contrattuale, avendo i giudici di
appello in tesi erroneamente attribuito alla clausola dell’accordo transattivo
secondo la quale la G. “non avrà null’altro a pretendere nei confronti della
società” la mera valenza di una clausola di stile, esso è pure infondato.

23. Ritiene il Collegio che la doglianza non
critichi efficacemente la lettura della clausola litigiosa ritenuta dalla
sentenza impugnata.

24. La doglianza consiste, infatti, in una diversa
interpretazione della clausola in questione e quindi del risultato
interpretativo in sé. Ma esso spetta esclusivamente al giudice di merito ed è
pertanto insindacabile in sede di legittimità, qualora sorretto da congrua
motivazione, esente da vizi logici o giuridici (Cass. 16 dicembre 2011, n.
27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), come
appunto nel caso di specie (per le ragioni illustrate a pag. 3 della sentenza
impugnata), nel quale la Corte territoriale, nel pieno rispetto delle norme di
ermeneutica, in particolare ricercando la comune intenzione delle parti ai
sensi dell’art. 1362, primo e secondo comma,
cod.civ., ha collegato la sua interpretazione all’assenza tra le parti di
questioni ulteriori e diverse rispetto a quelle della cessazione del rapporto
di lavoro. Né, d’altro canto, in presenza di un’interpretazione ben plausibile
del giudice di merito neppure essendo necessario che essa sia l’unica possibile
o la migliore in astratto (Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178), può darsi ingresso
ad una sostanziale sollecitazione a revisione del merito, discendente dalla
contrapposizione di una interpretazione dei fatti propria della parte a quella
della Corte territoriale (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 19 marzo
2009, n. 6694).

25. Non essendo stata efficacemente censurata la
statuizione della sentenza impugnata secondo cui la somma litigiosa non era
assoggettabile a contribuzione essendo stata corrisposta a titolo di incentivo
all’esodo, non c’è luogo ad esaminare l’ultimo profilo del primo motivo,
relativo alla, in tesi, troppo ampia interpretazione dell’art. 12 citato assunta dalla
Corte di appello, con una distinta ed autonoma ragione del decidere,
trattandosi di profilo evidentemente inammissibile non potendo il suo eventuale
accoglimento comunque condurre alla cassazione della sentenza impugnata.

26. Il secondo motivo, sempre inerente alla
posizione della giornalista E. G., non individua fatti non esaminati dal
giudice di appello avendo la Corte romana esaminato rispettivamente sia la
posteriorità della data della transazione rispetto a quella del licenziamento
sia la clausola finale. Sotto il profilo della violazione di norme di diritto —
melius, error in procedendo – l’Istituto ricorrente denuncia una carenza
assoluta di motivazione, ma in realtà, come è apparso anche in occasione dell’esame
del primo motivo di ricorso, l’iter logico seguito dalla Corte territoriale è
perfettamente ricostruibile dalla lettura della sentenza impugnata sia per
quanto riguarda la questione della ritenuta retroattività dell’accordo novativo
raggiunto dalle parti sia sul significato della clausola finale dell’accordo,
ritenuta motivatamente una “clausola di stile”. Anche questa doglianza è perciò
infondata.

27. Passando ora alle doglianze che riguardano la
posizione della dipendente Z.P., con il terzo motivo non vengono in realtà
individuate violazioni di legge. La doglianza si risolve in una richiesta di
riconsiderazione del materiale probatorio. La sentenza impugnata ha spiegato
che l’incertezza del quadro probatorio, in particolare in considerazione della
deposizione della teste Ilari, che aveva riferito che questa dipendente
svolgeva mansioni di segreteria, impediva di concludere nel senso che la Z.P.
svolgesse lavoro giornalistico. A questo l’INPGI contrappone la deposizione
dell’ispettore verbalizzante, che fa riferimento, secondo la Corte
territoriale, con suoi giudizi valutativi, a dichiarazioni rese da terzi. Non
si può dar peso al rilievo della sostanziale analogia della posizione di questa
lavoratrice rispetto a quelle delle dipendenti B. e P., per i quali la Corte
territoriale ha confermato la sentenza di prime cure favorevole all’Istituto
ricorrente.

28. A questo proposito vengono invocati gli art. 112, 132 n. 4
e 277 cod.proc.civ. per aver la Corte di
appello omesso di spiegare “per quale ragione la posizione della B. e della P.
fosse stata decisa in maniera difforme” nonostante il Tribunale di Roma avesse
in primo grado affermato che “nella fattispecie la natura giornalistica del
rapporto di lavoro delle dipendenti dell’opponente A.B., L.Z. P., R.P. emerge
dal complesso delle deposizioni dei testi”. Si tratta di un profilo
inammissibile, perché volto a censurare statuizioni della sentenza impugnata non
rilevanti quanto alla posizione della dipendente Z.P.

29. Le censure di violazione dell’art. 112 e 277
cod.proc.civ. non vengono esplicitate, così come quella di nullità della
sentenza impugnata per assenza di motivazione (art.
132 n. 4 cod.proc.civ.). In ogni caso le ragioni poste dalla sentenza
impugnata a base del rigetto della pretesa dell’Istituto ricorrente sono
chiaramente esposte. Come più sopra indicato, la Corte romana rilevava che
l’unica testimonianza che sorreggeva la motivazione della decisione di prime
cure sulla natura giornalistica dell’attività lavorativa era quella
dell’ispettore verbalizzante, che tuttavia riferiva, con giudizi valutativi,
notizie apprese da terzi, mentre a tale deposizione si contrapponeva quella
della teste I., che descriveva i compiti di questa dipendente come attività di
segreteria, per cui la situazione di incertezza e conflitto delle fonti di
prova imponeva il rigetto della domanda dell’INPGI.

30. Nemmeno è conferente l’invocazione del CCNL
giornalisti, avente portata erga omnes. Sotto questo profilo la doglianza si
riduce alla deduzione secondo la quale l’inquadramento della Z.P. nella figura
del redattore delineata dall’art. 2 del CCNL giornalisti, che distingue tale
posizione da altre figure di giornalisti stabilendo l’imprescindibilità del
requisito della quotidianità della prestazione in contrapposizione alla
semplice sua continuità, caratterizzante la figura del collaboratore fisso. Ma
evidentemente non può essere il requisito della quotidianità della prestazione
a fungere da discrimine tra il lavoro giornalistico ed altre attività. Di qui,
l’infondatezza anche di questo profilo.

31. Infine, nell’ambito di questa doglianza, l’INPGI
lamenta il mancato esame della documentazione prodotta dall’Istituto (gli
articoli redatti dalla Z. e la sua deposizione all’ispettore).
Indipendentemente dal mancato rispetto del principio di autosufficienza del
ricorso, giacché gli atti in questione non vengono trascritti, è inammissibile
la deduzione del vizio di cui all’art. 360, comma
1, n. 5 cod.proc.civ. per sostenere semplicemente il mancato esame di
deduzioni istruttorie, ovvero di documenti, da parte del giudice del merito
(tra molte, Cass. n. 21210 del 2019).

32. Il motivo è dunque infondato sotto tutti i
profili sollevati.

33. Quanto al quarto e ultimo motivo, relativo al
mancato uso da parte della Corte di appello dei poteri istruttori officiosi, in
particolare quanto alla mancata acquisizione da parte del giudice di merito –
attraverso un ordine d’ispezione – di copie delle riviste alle quali la Z.P.
aveva collaborato, il ricorso non precisa l’eventuale sollecitazione da parte
dell’Istituto ricorrente dell’uso di tali poteri.

34. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui
il Collegio intende dare continuità (v. p.es. n.
25374 del 2017), anche se, nel rito del lavoro, l’uso dei poteri istruttori
da parte del giudice ex artt. 421 e 437 c.p.c., non ha carattere discrezionale, ma
costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio questi è
tenuto a dar conto, “…tuttavia, al fine di censurare idoneamente in sede di
ricorso per cassazione l’inesistenza o la lacunosità della motivazione sulla
mancata attivazione di detti poteri, occorre dimostrare di averne sollecitato
l’esercizio, in quanto diversamente si introdurrebbe per la prima volta in sede
di legittimità un tema del contendere totalmente nuovo rispetto a quelli già
dibattuti nelle precedenti fasi di merito. Con la successiva decisione n. 22628 del 2019 (ord.), si è statuito che “nel
rito del lavoro, il ricorrente che denunci in cassazione il mancato esercizio
dei poteri istruttori di ufficio nel giudizio di merito, deve riportare in
ricorso gli atti processuali dai quali emerge l’esistenza di una “pista
probatoria” qualificata, ossia l’esistenza di fatti o mezzi di prova,
idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività, rispetto ai
quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l’officiosa attività di integrazione
istruttoria demandata al giudice di merito, ed allegare, altresì, di avere espressamente
e specificamente richiesto tale intervento nel predetto giudizio.

35. L’Istituto ricorrente si limita a riferirsi alla
richiesta di sentire i testimoni indicati e non escussi formulata “alla udienza
del 14.11.2005”, cioè in primo grado, e, a proposito delle riviste, a un non
meglio precisato “doc. 9 fascicolo di parte INPGI”, mentre nessuna menzione di
eventuali sollecitazioni rivolte al giudice di appello risulta dal ricorso. Di
qui, l’infondatezza anche di questo motivo.

36. Alla luce delle considerazioni che precedono, il
ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

37. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

38. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte dell’Istituto ricorrente, di un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma
del comma 1 -bis dello stesso art.
13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente
al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00
per esborsi, euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 luglio 2020, n. 15411
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