Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 luglio 2020, n. 15812

Ingiustificato rifiuto all’assunzione di lavoratore avviato
obbligatoriamente al lavoro, Risarcimento del danno, Retribuzioni non
percepite dalla costituzione in mora, Già coperta l’aliquota riservata alla
categoria protetta dei profughi

 

Rileva che

 

La Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 3955/ sei
– otto maggio 2015, in riforma della gravata pronuncia (appellata il tre maggio
2011 da C. S.r.l. in liquidazione) – che aveva ritenuto ingiustificato il
rifiuto opposto dalla società convenuta all’assunzione di M.A.M., avviata
obbligatoriamente al lavoro con atto del 12 dicembre 2000 quale profuga
iscritta nelle liste di collocamento, condannando quindi la stessa C. al
risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non percepite
dall’interessata durante il periodo compreso tra la costituzione in mora
risalente al 17 gennaio 2001 sino alla decisione del 16 febbraio 2010-
rigettava la domanda di parte attrice (ricorso introduttivo del giudizio
depositato il 10 febbraio 2006). Poneva, quindi, definitivamente le spese di
c.t.u., già separatamente liquidate, a carico delle parti tra loro in solido e,
nei rapporti interni alle stesse, ad esclusivo carico dell’appellata
(precisando, tra l’altro in motivazione, che le restanti spese di lite,
relative ad entrambi i gradi del giudizio, venivano compensate per le ragioni a
tal uopo indicate). In sintesi, la Corte capitolina giudicava fondato il
secondo motivo d’appello, relativo alla questione circa la dedotta legittimità
del rifiuto di assunzione, risultando all’epoca dell’avviamento già coperta
l’aliquota (1%), riservata alla categoria protetta dei profughi, in base a
quanto emerso dalla c.t.u. disposta in secondo grado, che poteva attivare anche
d’ufficio l’accertamento, richiamando altresì giurisprudenza in tema di
avviamento obbligatorio al lavoro;

avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso
per cassazione la sig.ra M.A.M. come da dato in data 9-13 luglio 2015, affidato
a quattro motivi, cui ha resistito la S.r.l. C. in liquidazione in concordato
preventivo mediante controricorso del 17 – 18 – 24 agosto 2015, poi seguito da
memoria illustrativa, previo avviso ad entrambe le parti come da messaggi di
posta elettronica certificata consegnati il 29 maggio 2019 per l’adunanza
fissata in camera di consiglio all’undici settembre 2019.

 

Considerato che

 

Con il primo motivo ex art.
360 n. 4 c.p.c. la ricorrente ha dedotto la nullità della sentenza
impugnata o del procedimento per violazione degli artt.
2697 c.c., nonché 62, 115, 194, 437 e 441 c.p.c.,
avuto riguardo al carattere esplorativo dell’espletata c.t.u., laddove
attraverso il disposto accertamento tecnico d’ufficio avevano trovato ingresso
fatti, informazioni e documenti acquisiti dall’ausiliare, però rimediandosi a
quelle insufficienze probatorie che il primo giudicante aveva già posto in
risalto con la sentenza in seguito appellata; con la seconda censura, ex art. 360 n. 4 c.p.c. è stata denunciata la
violazione della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112 e 434 c.p.c.,
osservando che nella sentenza qui impugnata si era ritenuto che essa ricorrente
avesse del tutto omesso qualsivoglia allegazione in merito alla fattispecie
dello scorrimento. <<Tuttavia, da una lettura superficiale dell’atto
d’appello, si evince(va) che nulla di ciò è (era) stato prospettato
dall’appellante entro i motivi d’appello formulati, sicché la relativa
decisione é (era) affetta da ultra-petizione>>. A tal riguardo la
ricorrente ha citato risalente giurisprudenza di legittimità circa l’esigenza
di specifici e pertinenti motivi di gravame, orientamento poi confermato
dall’attuale formulazione dell’art. 434 c.p.c.
in ordine alla necessità di una approfondita e accurata disamina di quelle
specifiche censure, dalle quali il giudice di appello non può di certo
esorbitare, richiamando sul punto Cass. 28.4.2015 n. 8562;

con il terzo motivo, formulato ex art. 360 n. 5 c.p.c., è stato dedotto l’omesso
esame di un fatto decisivo che aveva formato oggetto di discussione tra le
parti, poiché quanto alla fattispecie di scorrimento, a parte la violazione
degli artt. 99, 112,
342 e 434 c.p.c.
di cui all’anzidetta seconda doglianza, la sentenza d’appello era affetta da
una carenza assoluta di motivazione, in quanto l’unico riferimento in proposito
riguardava una pronuncia di questa Corte risalente al 1992, che tuttavia
risultava irrilevante rispetto al caso qui in esame, essendo stato detto
precedente relativo ad una censura d’illegittimità del provvedimento di
assunzione obbligatoria emanato dall’U.P.L.M.O., censura che tuttavia non era
stata mai avanzata nei due precedenti gradi di giudizio, infine, con il quarto
motivo la ricorrente ai sensi dell’art. 360 n. 5
c.p.c. ha lamentato la nullità della sentenza impugnata o del procedimento
per violazione degli artt. 101 e 112 c.p.c., in quanto nella specie la rilevata,
d’ufficio, illegittimità del provvedimento dell’UPLMO integrava violazione del
principio del contraddittorio e del cit. art. 101,
co. 2, non essendo consentito al giudice, soprattutto poi a quello
d’appello, porre a sostegno della decisione questioni in precedenza non
sottoposte al contraddittorio delle parti, donde la nullità della sentenza.
Invero, poi, l’eccezione d’illegittimità di un provvedimento amministrativo era
rilevabile esclusivamente su istanza della parte interessata a sollevarla,
trattandosi di eccezione in senso stretto, donde la violazione del suddetto
art. 112. Pertanto, nel caso di specie la censura d’illegittimità di un
provvedimento ammnistrativo andava proposta nelle apposite sedi e davanti al
giudice amministrativo da parte interessata. Di conseguenza, l’eventuale
invalidità del provvedimento avrebbe dovuto essere eccepita all’atto della
tempestiva costituzione della società convenuta nel giudizio di primo grado;
tanto premesso, le anzidette doglianze vanno disattese in forza delle seguenti ragioni,
dovendosi in via preliminare e assorbente rilevare che la ratio decidendi della
sentenza impugnata consiste essenzialmente nell’accertamento di merito,
peraltro nemmeno specificamente confutato nella sua veridicità da parte
ricorrente, secondo cui alla luce della espletata c.t.u. all’atto
dell’avviamento in questione risultava già coperta l’aliquota riservata alla
categoria protetta dei profughi, giusta l’assunto a tal riguardo già
prontamente opposto dalla società resistente, sicché anche sotto tale profilo
la Corte di merito riteneva di poter disporre, di ufficio, apposita consulenza
tecnica. Quindi, l’ausiliare incaricato aveva verificato che effettivamente
all’atto dell’avviamento la società aveva provveduto all’assunzione di due
soggetti appartenenti alla stessa categoria della M., sicché il rifiuto era
stato del tutto legittimo. Peraltro, la Corte capitolina osservava che nella
specie la sussistenza dello scorrimento, necessitante d’iniziativa formalmente
vincolata della p.a., non era stata nemmeno allegata, inoltre per completezza
di motivazione richiamando anche il principio affermato da Cass. lav. n. 2665
del 5/3/1992 (secondo cui il provvedimento dell’U.P.L.M.O. di avviamento
obbligatorio per scorrimento – previsto dagli artt. 9, ultimo comma, e 17 lett. c della legge n. 482 del
1968 sulle assunzioni obbligatorie e consistente nella possibilità – ove
manchino i beneficiari di alcune categorie protette – che subentrino
proporzionalmente i riservatari di altre categorie – deve essere
necessariamente preceduto da apposita delibera della commissione provinciale
competente che deve consentire la decisione adottata, anche se non caso per
caso, non solo con riferimento alle categorie interessate allo scorrimento, ma
anche alla graduatoria interna a tali categorie con predeterminazione dei
criteri preferenziali stabiliti dalla legge, rimanendo all’ufficio provinciale
del lavoro l’attuazione meramente esecutiva dell’avviamento. Pertanto, ove
detta delibera manchi o non contenga l’indicazione dei criteri predetti o gli
stessi non siano comunque osservati, l’imprenditore cui il lavoratore è stato
avviato può legittimamente rifiutarne l’assunzione e, ove contenuto in
giudizio, può denunciare il vizio di legittimità dell’atto – o della procedura-
di avviamento, ai fini della sua disapplicazione ex art. 5 all. E legge 20 marzo 1865
n. 2248).

Aggiungeva, infine, testualmente la Corte di merito:
<<Ovviamente, nella fattispecie non v’è traccia delle, né dibattute
sulle, richiamate condizioni. Inoltre, dalla prima delle ipotesi formulate
dall’ausiliare risulta anche la copertura della quota prevista per i soggetti invalidi>>;
chiariti, pertanto, i termini in cui risolta decisa la controversia dalla Corte
di merito, il primo ricorso è infondato, oltre che inammissibile per omessa
esauriente riproduzione degli atti processuali (specialmente la memoria
difensiva per la resistente in prime cure e successivo ricorso d’appello) ex art. 366 co. 1 nn. 3 e 6 c.p.c., del giudizio di
merito circa l’asserita violazione dei denunciati errores in procedendo, da cui
possa evincersi la prospettata ultroneità dell’accertamento istruttorio
disposto in appello e, quindi, il preteso carattere esplorativo della espletata
c.t.u., laddove d’altro canto nemmeno emerge una indebita inversione dell’onere
probatorio ex art. 2697 c.c. in danno
dell’attrice – appellata (v. peraltro anche Cass. IlI civ. n. 20836 del 14/02 –
21/08/2018, secondo cui nel processo civile d’appello, la struttura devolutiva
del giudizio di impugnazione non determina alcuna inversione dell’onere della
prova a carico del convenuto soccombente in primo grado, il quale, proponendo
appello, non deve provare l’insussistenza dei fatti costitutivi della domanda
attorea, ma è tenuto soltanto a dimostrare la fondatezza dei propri motivi di
gravame mediante una precisa e ben argomentata critica della decisione
impugnata, formulando pertinenti ragioni di dissenso in relazione alla operata
ricostruzione dei fatti ovvero alle questioni di diritto trattate.

Cfr. altresì Cass. lav. n. 18924 del 5/11/2012,
secondo cui nel rito del lavoro, il verificarsi di preclusioni o decadenze in
danno delle parti non osta all’ammissione d’ufficio delle prove, trattandosi di
potere diretto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie,
ritualmente acquisite agli atti del giudizio di primo grado. Ne consegue che,
essendo la “prova nuova” disposta d’ufficio funzionale al solo
indispensabile approfondimento degli elementi già obbiettivamente presenti nel
processo, non si pone una questione di preclusione o decadenza processuale a carico
della parte. V. pure Cass. lav. n. 19305 del
29/09/2016, secondo cui nel c.d. rito lavoro il potere istruttorio
d’ufficio ex artt. 421 e 437 c.p.c., non è meramente discrezionale, ma
costituisce un potere-dovere da esercitare contemperando il principio
dispositivo con quello della ricerca della verità, sicché il giudice – anche di
appello, qualora reputi insufficienti le prove già acquisite e le risultanze di
causa offrano significativi dati d’indagine, non può arrestarsi al rilievo
formale del difetto di prova ma deve provvedere d’ufficio agli atti istruttori
sollecitati dal materiale probatorio idonei a superare l’incertezza sui fatti
in contestazione, senza che, in tal caso, si verifichi alcun aggiramento di
eventuali preclusioni e decadenze processuali già prodottesi a carico delle
parti, in quanto la prova disposta d’ufficio è solo un approfondimento,
ritenuto indispensabile ai fini del decidere, di elementi probatori già
obiettivamente presenti nella realtà del processo. In senso analogo anche Cass.
lav. n. 278 del 10/01/2005.

V. inoltre Cass. sez. un. civ. n. 11353 del
17/06/2004, per la parte in cui si affermava, ai sensi di quanto disposto dagli
artt. 421 e 437
cod. proc. civ., che l’esercizio del potere d’ufficio del giudice, pur in
presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una
esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si
presenta come un potere – dovere, sicché il giudice del lavoro non può
limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio
fondata sull’onere della prova, avendo l’obbligo – in ossequio a quanto
prescritto dall’art. 134 cod. proc. civ., ed al
disposto di cui all’art. 111, primo comma, Cost.
sul “giusto processo regolato dalla legge” – di esplicitare le
ragioni per le quali reputi di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o,
nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non
farvi ricorso.

V. ancora Cass. sez. un. n. 8202 del 20/04/2005,
laddove pur affermandosi, in base al combinato disposto degli artt. 416, terzo comma, cod. proc. civ. e 437, secondo comma, dello stesso codice, che
l’irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta
al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto
stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello, ciò nondimeno è
stato rilevato un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della
“verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del
lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei
diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio
del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato
art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., ove
essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri,
peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti
ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse.
Nell’ottica descritta va ricordato ancora l’orientamento espresso da questa
Corte sulla questione della ammissibilità dei mezzi istruttori in appello e
sulla definizione della nozione di indispensabilità della prova – Cass. sez.
un. civ. n. 10790 del 7/3/ – 4/05/2017- che ampiamente riprende e conferma i
principi già affermati nell’arresto di Cass. s.u. 8202/05, pervenendo alla
conclusione che il giudizio di indispensabilità implica una valutazione sull’idoneità
del mezzo istruttorio a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti
controversi smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio.
D’altro canto, a riprova dei persistenti spazi di ricerca della verità
materiale anche in appello Cass. sez. un. n. 10790/17 ha osservato come ben
possa il giudice del gravame, oltre che deferire il giuramento decisorio,
disporre d’ufficio non solo una consulenza deducente, ma anche una percipiente
(cfr. Cass. n. 6155/09; Cass. n. 3990/06; Cass. n. 27002/05; Cass. Sez. U. n.
9522/96), che – in quanto tale – ha natura di prova);

d’altro canto, il rilevato difetto di
autosufficienza non consente nemmeno di comprendere se le doglianze prospettate
con il primo motivo di ricorso fossero state tempestivamente già dedotte in
sede di merito, almeno in seguito al deposito della relazione, di guisa che le
relative questioni devono anche ritenersi precluse in questa sede (cfr. Cass. I
civ. n. 10870 – 01/10/1999, secondo cui tutte le nullità relative all’espletamento
della consulenza tecnica hanno carattere relativo e devono essere fatte valere
nella prima udienza successiva al deposito della relazione, restando altrimenti
sanate. In senso analogo Cass. n. 3340 del 18/04/1997. Parimenti, secondo Cass.
IlI civ. n. 6822 del 18/05/2001, la nullità relativa di un atto processuale
deve esser opposta, a pena di decadenza, nella prima udienza, istanza o difesa
successiva all’atto o alla notizia di esso, e, pertanto, se il predetto vizio è
denunciato con ricorso per cassazione, deve esser indicato, a pena di
inammissibilità, il rispetto di tale termine.

Cass. II civ. n. 5422 del 15/04/2002: tutte le
ipotesi di nullità della consulenza tecnica – ivi ricompresa quella dovuta
all’eventuale allargamento dell’indagine tecnica oltre i limiti delineati dal
giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente – hanno
carattere relativo e devono essere fatte valere nella prima udienza successiva
al deposito della relazione, restando altrimenti sanate. In senso conforme
Cass. IlI civ. n. 746 del 14/01/2011 e n. 15747 del 15/06/2018.

Cass. n. 12231 del 19/08/2002: il consulente tecnico
di ufficio può tener conto di documenti non ritualmente prodotti in causa solo
con il consenso delle parti, in mancanza del quale la suddetta attività
dell’ausiliare è, al pari di ogni altro vizio della consulenza tecnica, fonte
di nullità relativa soggetta al regime di cui all’art.
157 cod. proc. civ., con la conseguenza che il difetto deve ritenersi sanato
se non è fatto valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della
relazione peritale.

Cfr. inoltre Cass. I civ. n. 24323 del 22/11/2007,
secondo cui il c.t.u., nell’espletamento del mandato ricevuto, può acquisire ai
sensi dell’art. 194 cod. proc. civ. – che
consente di chiedere chiarimenti alle parti ed assumere informazioni dai terzi
– circostanze di fatto relative alla controversia e all’oggetto dell’incarico.
Tali circostanze di fatto, se accompagnate dall’indicazione delle fonti e se
non contestate nella prima difesa utile, costituiscono fatti accessori
validamente acquisiti al processo che possono concorrere con le altre
risultanze di causa alla formazione del convincimento del giudice ed essere da
questi posti a base della decisione unitamente ai fatti principali.

Cass. IlI civ. n. 4448 del 25/02/2014: le
contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono
eccezioni rispetto al suo contenuto, sicché sono soggette al termine di preclusione
di cui al secondo comma dell’art. 157 cod. proc.
civ., dovendo, pertanto, dedursi – a pena di decadenza – nella prima
istanza o difesa successiva al suo deposito); il secondo motivo è in primo
luogo non pertinente all’anzidetta effettiva ratio decidendi dell’impugnata
sentenza, inerente all’accertamento di merito circa la legittimità del rifiuto
opposto nello specifico dalla società, in quanto all’atto dell’avviamento era
già coperta l’aliquota dell’1%, riservata alla categoria protetta, di cui
faceva parte l’attrice – appellata, così come tempestivamente dedotto anche in
prime cure da parte resistente, mentre del tutto marginale e per mera
completezza di argomentazione appare l’ulteriore riferimento allo scorrimento,
fattispecie infatti <<neppure allegata>>, come puntualizzato a tal
riguardo dalla sentenza de qua, sicché la Corte capitolina si preoccupava
soltanto di chiarire ulteriormente, a conforto della decisione di riformare la
gravata pronuncia con il rigetto della domanda per l’anzidetta principale
ragione, che dagli atti di causa la questione inerente allo scorrimento non
risultava nemmeno dibattuta, mentre dalla c.t.u. (la cui relazione, tra
l’altro, nemmeno è stata debitamente riportata in misura sufficiente ai sensi e
per gli effetti dell’art. 366, co. I, n. 6 c.p.c.)
risultava anche la copertura della quota prevista per la categoria degli
invalidi, sicché anche sotto questo profilo doveva escludersi la possibilità
dello scorrimento, accertamento questo però neanche specificamente impugnato da
parte ricorrente;

ne deriva, per quanto sopra osservato, anche la non
pertinenza del terzo motivo, anch’esso per di più vagamente formulato in
relazione alla “fattispecie di scorrimento” (senza quindi neanche
chiarire se nella fattispecie ne ricorressero in concreto le condizioni),
laddove inoltre del tutto fuori luogo appare il riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c., confondendosi in effetti
l’omesso esame di una circostanza di fatto decisiva (la cui allegazione nello
specifico tuttavia è stata esclusa dalla medesima ricorrente) con l’obbligo
della motivazione, però nei limiti del c.d. minimo costituzionale occorrente a
norma degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4 c.p.c.(cfr. Cass.
sez. un. nn. 8053 e 8054 del 2014 e conforme ulteriore giurisprudenza di
legittimità), vizio quest’ultimo censurabile univocamente in termini di nullità
ex art. 360 n. 4 c.p.c., da escludersi però nel
caso in esame, risultando invero del tutto sufficiente il lineare percorso
argomentativo seguito dalla Corte di merito con l’operato accertamento,
preliminare ed assorbente, della copertura delle quote di riserva per
l’assunzione obbligatoria di categorie protette, donde la legittimità del
rifiuto opposto all’avviamento della sig.ra M. presso C., anche nel caso di
eventuale scorrimento, fattispecie questa peraltro nemmeno allegata,
evidentemente soprattutto da parte della parte più direttamente interessata;

di conseguenza, per analoghe ragioni nei sensi di
cui sopra va altresì disattesa la quarta censura, anch’essa genericamente
riferita alla questione dello scorrimento, sicché, a parte l’erroneo
riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c. in ordine
alla prospettata violazione del principio del contraddittorio (error in
procedendo denunciabile, ma ritualmente nei sensi in precedenza indicati, a
norma dell’art. 360 n. 4 c.p.c.), pure con
questa doglianza in effetti parte ricorrente non coglie la differenza tra
l’anzidetta vera ratio decidendi della pronuncia de qua ed il rilievo
incidentale (obiter) e quindi pressoché irrilevante al succitato principio
affermato da Cass. n. 2665/92 (circa la necessità di apposita previa delibera
da parte della compente commissioni ai fini del valido e legittimo avviamento
per scorrimento a cura dell’Ufficio del Lavoro e della Massima Occupazione),
visto che la relativa fattispecie non era stata nemmeno allegata e che ad ogni
modo doveva altresì escludersi in base alla c.t.u., da cui emergeva anche la
copertura della quota di riserva per i soggetti invalidi. Non si vede, pertanto,
come nella specie possa risultare in concreto leso il principio del
contraddittorio in danno dell’appellata – attrice, che non avendo neanche
dedotto l’eventuale possibile scorrimento a lei favorevole non avrebbe potuto
di certo rammaricarsi se in ipotesi la Corte di merito, nell’accertamento
d’ufficio della verità dei fatti di causa ai fini della giusta e valida
applicazione della corrispondente normativa di legge, avesse riscontrato quote
di riserva colmabili mediante scorrimento favorevoli alla stessa M. Dunque,
quanto allo scorrimento rileva in primo luogo l’accertata e preliminare
copertura di tutte le quote di riserva presso C., in secondo luogo la
riscontrata mancata allegazione dalle parti, e segnatamente alla lavoratrice
direttamente interessata ad ottenere positivo esito del proprio avviamento, del
medesimo scorrimento, mentre del tutto incidentale e anche superfluo, quindi,
si palesa l’ultroneo riferimento al principio di diritto secondo cui è
necessaria la menzionata previa delibera, la cui mancanza o il cui difetto di
contenuto legittima il rifiuto dell’assunzione obbligatoria, con conseguente
possibile incidentale disapplicazione, da parte dell’adito giudice ordinario,
dell’avviamento, in quanto illegittimamente disposto;

atteso, dunque, l’esito negativo dell’impugnazione
qui proposta, che va integralmente respinta, la parte rimasta soccombente deve
essere condannata al rimborso delle relative spese, risultando peraltro anche i
presupposti di cui all’art. 13, co.
1 quater, d.P.R. n. 115/2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente in
complessivi euro #4000,00# per compensi professionali ed in euro #200,00# per
esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, in
relazione a questo giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 luglio 2020, n. 15812
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