Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 luglio 2020, n. 15231

Riconoscimento, a fini giuridici ed economici, dell’anzianità
di servizio, Plurimi rapporti di lavoro a termine, Differenze retributive,
Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE
– Esposizione sommaria dei fatti di causa, Non necessaria la pedissequa
riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali,
Sufficiente una sintesi della vicenda funzionale alla piena comprensione e valutazione
delle censure mosse alla sentenza impugnata

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’ Appello di Bari, in riforma della
sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso, ha
rigettato le domande proposte nei confronti del Consiglio Nazionale delle
Ricerche da S.G., il quale aveva agito in giudizio per ottenere il
riconoscimento, a fini giuridici ed economici, dell’anzianità di servizio
maturata sulla base di rapporti di lavoro a termine intercorsi fra le parti e
la condanna dell’amministrazione convenuta a corrispondere, nei limiti della
prescrizione quinquennale, le differenze retributive conseguenti alla
ricostruzione della carriera.

2. La Corte territoriale ha ritenuto preliminare ed
assorbente il motivo d’appello con il quale il CNR aveva dedotto che i rapporti
a termine intercorsi fra le parti non potevano essere fatti valere ai fini
dell’applicazione della clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE perché risalenti ad epoca
antecedente il 10 luglio 2001.

3. Il giudice d’appello ha richiamato giurisprudenza
della Corte di giustizia per sostenere che le norme comunitarie di diritto
sostanziale si possono applicare a situazioni createsi anteriormente alla loro
entrata in vigore soltanto qualora dalla lettera, dallo scopo o dallo spirito
di tali disposizioni risulti con chiarezza che alle stesse debba essere
attribuita efficacia retroattiva.

4. Ha precisato che tale retroattività non è stata
prevista per la direttiva sul lavoro a tempo determinato, che, pertanto, non
poteva essere invocata dall’appellato il quale, immesso definitivamente in
ruolo il 16 dicembre 1997, pretendeva di far valere contratti a termine
risalenti a periodi di gran lunga antecedenti l’entrata in vigore della normativa
comunitaria.

5. Infine la Corte territoriale ha rilevato che,
sebbene l’anzianità di servizio non costituisca uno status né un distinto bene
della vita oggetto di autonomo diritto, nel caso di specie non poteva non
spiegare effetti la circostanza che i fatti generatori del preteso diritto alla
ricostruzione della carriera si collocassero in un momento temporale in cui la
disciplina legittimamente escludeva l’effetto utile invocato.

6. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso S.G. sulla base di tre motivi, ai quali ha opposto difese con
tempestivo controricorso il Consiglio Nazionale delle Ricerche.

6. La causa, dapprima avviata alla trattazione
camerale dinanzi alla VI Sezione, con ordinanza n. 6200/2019 è stata rimessa a
questa Sezione ex art. 380 bis, comma 3, cod. proc.
civ., in ragione dell’importanza delle questioni giuridiche coinvolte.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia
«violazione e falsa applicazione dell’art. 329
c.p.c. – acquiescenza alla sentenza del Tribunale di Bari – giudicato
implicito – violazione di legge anche in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.» e sostiene, in sintesi, che
l’ente aveva prestato tacita acquiescenza alle statuizioni della sentenza del
Tribunale di Bari ponendo in essere atti dai quali era possibile desumere
l’univoca volontà di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia di
primo grado. Precisa al riguardo che il Tribunale aveva emesso una sentenza
meramente dichiarativa del diritto ed aveva precisato, in motivazione, che il
passaggio da una posizione stipendiale all’altra, seppure connesso alla
maggiore anzianità di servizio, è subordinato anche ad una valutazione positiva
dell’operato del dipendente nell’arco temporale in considerazione, valutazione
che nella specie non era stata espressa con la conseguenza che non poteva il
giudice esprimere il giudizio in luogo del datore di lavoro.

All’esito della pronuncia, sebbene il ricorrente non
avesse in alcun modo sollecitato l’ottemperanza alla stessa, il CNR,
spontaneamente, aveva dato corso alla verifica delle attività svolte dal
ricercatore e, in considerazione del giudizio positivo, aveva provveduto al
pagamento delle differenze retributive non prescritte e a riconoscere lo
stipendio base previsto per la 6a fascia stipendiale.

Addebita alla Corte territoriale di non avere in
alcun modo considerato l’eccezione proposta e di avere ignorato la
documentazione, tempestivamente prodotta, che attestava la pacifica e spontanea
accettazione del decisum.

2. La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., imputa alla
sentenza impugnata la «violazione e falsa applicazione della Direttiva del
Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa
all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, così come
interpretata dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea». Il ricorrente
sostiene, in sintesi, che ha errato la Corte territoriale nell’escludere ogni
rilevanza dell’anzianità maturata sulla base di rapporti a termine intercorsi
fra le parti in data antecedente all’entrata in vigore della direttiva,
innanzitutto perché il contratto a tempo indeterminato, del quale era stata
eccepita la nullità parziale, era stato sottoscritto il 28 dicembre 2001 in
piena vigenza della direttiva e lo stesso, disconoscendo l’anzianità maturata,
aveva realizzato una discriminazione ingiustificata, protrattasi
ininterrottamente sino alla spontanea esecuzione della sentenza del Tribunale
di Bari avvenuta nel giugno 2015. Richiama le ragioni per le quali la Corte di
Giustizia, in plurime decisioni, ha ribadito che, qualora l’anzianità di
servizio incida sull’ammontare della retribuzione, occorre tener conto anche
della prestazione lavorativa resa sulla base di contratti a tempo determinato,
se comparabile all’attività del dipendente a tempo indeterminato, e nel
giudizio di comparazione si deve tener conto solo della natura delle mansioni
espletate, nella specie rimasta sempre immutata.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., «omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti e segnatamente in ordine al requisito dell’esistenza del contratto di
lavoro a tempo indeterminato come primo ricercatore con decorrenza dal 28
dicembre 2001…» nonché violazione del CCNL 1998/2001 per i dipendenti del
comparto della ricerca, artt. 1 e 20, e dell’art.
132 cod. proc.civ.. Ribadisce che l’inquadramento contestato nel profilo di
primo ricercatore, secondo livello professionale, era stato disposto il 28
dicembre 2001 a seguito di partecipazione al concorso pubblico per titoli e
colloquio bandito nell’anno 2000, perché in precedenza egli era stato assunto,
sempre all’esito di procedura concorsuale, quale ricercatore di III livello.
Richiama i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte per sostenere
l’autonomia del successivo contratto rispetto al precedente, pur nella
continuità del rapporto di lavoro intercorso fra le parti. Infine sottolinea
che il principio di non discriminazione è stato fatto proprio anche dalle parti
collettive le quali hanno previsto che al personale assunto a tempo determinato
debba applicarsi il medesimo trattamento economico e normativo previsto per i
dipendenti a tempo indeterminato, compatibilmente con la durata del contratto a
termine.

4. E’ infondata l’eccezione di inammissibilità del
ricorso, sollevata dal controricorrente in relazione all’asserita mancanza o
insufficienza dell’esposizione dei fatti di causa.

L’art. 366, comma 1 n. 3
cod. proc. civ. risponde non ad una esigenza di mero formalismo, bensì a
quella di consentire una conoscenza chiara dei fatti di causa, in modo da
permettere alla Corte di Cassazione di intendere il significato e la portata
delle censure rivolte al provvedimento impugnato.

Il requisito, quindi, è soddisfatto ogniqualvolta
l’atto fornisca gli elementi indispensabili per una precisa cognizione della
vicenda processuale, sicché la valutazione sulla completezza della esposizione
dei fatti contenuta nell’atto introduttivo deve essere effettuata considerando
il fine che il requisito stesso mira ad assicurare e contemperando l’esigenza
di fornire alla Corte tutti gli elementi necessari ai fini della decisione con
quella della necessaria sinteticità degli atti processuali.

Ne discende che, come evidenziato dalle Sezioni
Unite di questa Corte, la “esposizione sommaria dei fatti di causa”
non richiede né la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto
degli atti processuali né che “si dia meticoloso conto di tutti i momenti
nei quali la vicenda processuale s’è articolata” (così in motivazione
Cass. S.U. 11.4.2012 n. 5698), essendo sufficiente una sintesi della vicenda
“funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla
sentenza impugnata”. Le Sezioni Unite nella citata pronuncia hanno anche
significativamente aggiunto che “il ricorso non può dirsi inammissibile
quand’anche difetti una parte formalmente dedicata all’esposizione sommaria del
fatto, se l’esposizione dei motivi sia di per sé autosufficiente e consenta di
cogliere gli aspetti funzionalmente utili della vicenda sottostante al ricorso
stesso” (in questi stessi termini, fra le più recenti, Cass. n.
17036/2018).

Dai richiamati principi discende che nella
fattispecie non è ravvisabile l’eccepito difetto del requisito di cui all’art. 366 n. 3 cod. proc. civ. perché il
ricorrente, oltre a trascrivere nel ricorso la sintesi della vicenda
processuale effettuata dalla Corte territoriale nella sentenza gravata, alle
pagine da 3 a 6 ha indicato tutti gli elementi di fatto rilevanti,
ripercorrendo la sua storia lavorativa, ed ha riassunto gli argomenti sulla
base dei quali era stata domandata una ricostruzione della carriera che tenesse
conto dell’anzianità pregressa maturata in forza di rapporti a termine,
argomenti poi ripresi ed ulteriormente sviluppati nel corpo dei motivi.

5. La prima censura è infondata.

L’acquiescenza alla sentenza impugnata consiste
nell’accettazione della decisione, ovvero nella manifestazione da parte del
soccombente della volontà di rinunciare all’impugnazione, la quale può avvenire
in forma, oltre che espressa, anche tacita. In questo caso, tuttavia,
l’acquiescenza può ritenersi sussistente solo allorquando l’interessato abbia
posto in essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed
univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia,
evenienza, questa, che si realizza qualora gli atti stessi siano assolutamente
incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione (Cass. S.U. n.
9687/2013).

E’ stato precisato al riguardo che l’incompatibilità
deve essere assoluta, sotto il profilo logico e giuridico, con la conseguenza
che l’acquiescenza va esclusa ogniqualvolta non sia possibile ravvisare una
volontà abdicativa, perché ai comportamenti del soggetto possono essere
attribuite finalità diverse ed obiettivamente giustificabili (Cass. S.U. n. 10503/2012).

Sviluppando i richiamati principi si è evidenziato
che dalla spontanea ottemperanza alla sentenza esecutiva non si può desumere la
volontà di non impugnare la decisione, giacché si è in presenza di una condotta
che ben può essere finalizzata ad evitare gli ulteriori effetti pregiudizievoli
dell’azione esecutiva che la parte potrebbe intraprendere ( cfr. fra le più
recenti Cass. nn. 34548, 14417, 8462 del
2019).

5.1. Nel caso di specie risulta dalla sentenza
impugnata, nonché dal ricorso che alla stessa rinvia quanto allo svolgimento
dei fatti di causa, che il Tribunale, dichiarato il diritto di S.G. al
riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata sulla base di contratti a
tempo determinato, aveva condannato il CNR «a corrispondere alla parte attrice
le differenze tra il trattamento retributivo spettante in dipendenza
dell’anzianità come sopra riconosciuta e quello in effetti corrisposto, nei
limiti della prescrizione quinquennale…» ( pag. 2 della sentenza e pag. 2 del
ricorso).

Tutte le considerazioni svolte nel corpo del motivo
sulla natura meramente dichiarativa della decisione si fondano sulla sola
motivazione della pronuncia di primo grado nella parte in

cui, quanto all’inquadramento nella fascia
stipendiale superiore, evidenzia che lo stesso presuppone una valutazione, riservata
al datore di lavoro, dell’attività svolta dal dipendente.

Il ricorrente non considera affatto il comando
giudiziale contenuto nel dispositivo, alla luce del quale la condotta tenuta
dall’ente non si rivela idonea a manifestare la volontà di prestare
acquiescenza alla decisione.

Al riguardo va anche sottolineato che, sebbene
l’avvio del procedimento, disposto con nota dell’11 maggio 2015, si collochi in
un momento di poco antecedente il deposito del ricorso in appello, risalente al
15 giugno 2015, il pagamento delle differenze retributive derivanti dal
riconoscimento dell’anzianità pregressa è collocato temporalmente nel mese di
dicembre 2015 ( pag. 8 e 9 del ricorso), quando già l’impugnazione era stata
proposta, e ciò non consente di desumere dal compimento delle attività, volte
ad ottemperare al dispositivo della pronuncia di primo grado, l’asserita
accettazione delle statuizioni.

6. Il secondo ed il terzo motivo, da trattare
unitariamente in ragione della loro connessione logico-giuridica, sono fondati.

Questa Corte ha già esaminato la questione inerente
il riconoscimento dell’anzianità maturata sulla base di contratti a termine dai
dipendenti del C.N.R. e di altri enti di ricerca ed ha affermato, in
fattispecie nelle quali venivano in rilievo le procedure di stabilizzazione di
cui alla legge n. 296/2006, che al lavoratore
«deve essere riconosciuta l’anzianità di servizio maturata precedentemente
all’acquisizione dello status di lavoratore a tempo indeterminato, allorché le
funzioni svolte siano identiche a quelle precedentemente esercitate nell’ambito
del contratto a termine, non potendo ritenersi, in applicazione del principio
di non discriminazione, che lo stesso si trovasse in una situazione differente
a causa del mancato superamento del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli
della P.A., mirando le condizioni di stabilizzazione fissate dal legislatore
proprio a consentire l’assunzione dei soli lavoratori a tempo determinato la
cui situazione poteva essere assimilata a quella dei dipendenti di ruolo»
(Cass. n. 27950/2017; negli stessi termini Cass. n. 7118/2018 e Cass. nn. 3473
e 6146 del 2019 queste ultime in tema di personale stabilizzato alle dipendenze
dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica).

6.1. Il principio di diritto è stato fondato sulla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale, anche nelle pronunce
successive agli arresti di questa Corte (Corte di Giustizia 20.6.2019, causa
C-72/18 Ustariz Arostegui; 11.4.2019, causa C- 29/18, Cobra Servizios
Auxiliares; 21.11.2018, causa C- 619/17, De Diego Porras; 5.6.2018, causa C –
677/16, Montero Mateos), ha dato continuità alla propria interpretazione della
clausola 4 dell’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato
allegato alla direttiva 1999/70/CE ribadendo
che:

a) la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed
in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente
giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicché la stessa
ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al
giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di
tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario,
qualsiasi contraria disposizione del diritto interno(Corte Giustizia 15.4.2008, causa C- 268/06,
Impact; 13.9.2007, causa C-307/05, Del Cerro
Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado
Santana);

b) il principio di non discriminazione non può
essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di
retribuzioni contenuta nell’art.
137 n. 5 del Trattato ( oggi 153 n. 5), “non può impedire ad un
lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di
discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli
lavoratori a tempo indeterminato, allorché proprio l’applicazione di tale
principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” ( Del
Cerro Alonso, cit., punto 42);

c) le maggiorazioni retributive che derivano
dall’anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego
ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere
legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una
giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia
9.7.2015, in causa C177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza ivi
richiamata);

d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di
trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di
contratto, né rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione
fra impiego di ruolo e non di ruolo, perché la diversità di trattamento può
essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che
contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle
caratteristiche delle mansioni espletate ( Regojo Dans, cit., punto 55 e con
riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C-302/11 e
C-305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C393/11, Bertazzi).

6.2. La Corte di Giustizia ha precisato, inoltre, ed
il principio è stato ripreso da questa Corte con le recenti sentenze nn. 31149
e 31150 del 2019 in tema di ricostruzione della carriera del personale della
scuola, che l’applicabilità della clausola 4 dell’Accordo quadro CES, UNICE e
CEEP sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva
1999/70/CE non può essere esclusa nei casi in cui il rapporto abbia
acquisito stabilità attraverso la definitiva immissione in ruolo. Della
disposizione, infatti, si deve fornire un’interpretazione non restrittiva
perché l’esigenza di vietare discriminazioni dei lavoratori a termine rispetto
a quelli a tempo indeterminato viene in rilievo anche qualora il rapporto a
termine, seppure non più in essere, venga fatto valere ai fini dell’anzianità
di servizio ( cfr. Corte di Giustizia 8.11.2011 in
causa C- 177/10 Rosado Santana punto 43; Corte
di Giustizia 18.10.2012 in cause riunite da C- 302/11 a C-305/11, Valenza
ed altri, punto 36).

6.3. E’ stata altresì affrontata la questione della
prescrittibilità del diritto alla ricostruzione della carriera e si è
affermato, in linea con un orientamento già consolidatosi nell’ambito
dell’impiego privato, che l’anzianità di servizio non è uno status né un
distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, rappresentando
piuttosto la dimensione temporale del rapporto di lavoro di cui integra il
presupposto di fatto di specifici diritti, e, pertanto, «l’effettiva anzianità
di servizio può essere sempre accertata anche ai fini del riconoscimento del
diritto ad una maggiore retribuzione per effetto del computo di un più alto
numero di anni di anzianità salvo, in ordine al quantum della somma dovuta al
lavoratore, il limite derivante dalla prescrizione quinquennale cui soggiace il
diritto alla retribuzione» ( Cass. n. 2232/2020).

6.4. I richiamati principi, ai quali il Collegio
intende dare continuità, orientano anche nella soluzione della questione che
qui viene più specificamente in rilievo, ossia quella della computabilità, ai
fini del calcolo dell’anzianità complessiva dell’assunto a tempo indeterminato,
dei rapporti a termine che si collocano temporalmente in data antecedente l’entrata
in vigore della direttiva 1999/70/CE.

Sul punto questa Corte si è già incidentalmente
pronunciata (Cass. n. 31149/2019 punto 10 della motivazione) pervenendo alla
conclusione che ai fini dell’applicabilità della direttiva, quanto alla
rilevanza dell’anzianità pregressa, occorre avere riguardo all’epoca in cui
sorge il diritto del quale l’anzianità stessa costituisce un presupposto di
fatto.

Il principio deve essere qui ribadito, perché non
sono condivisibili gli argomenti sui quali la Corte territoriale ha fondato il
rigetto della domanda, asserendo che la stessa implicasse un’applicazione
retroattiva della direttiva.

Va detto subito che la Corte di Giustizia, ai punti
89 e 90 della sentenza 22.10.2010 in cause riunite
C-444/09 e C-456/09, richiamata dal giudice d’appello, si è limitata ad
affermare che «il beneficio delle indennità per anzianità di servizio, come
quelle triennali oggetto della causa principale» deve essere riconosciuto,
fatta salva l’applicazione delle norme interne sul regime di prescrizione, solo
per il periodo successivo alla scadenza del termine fissato per la
trasposizione della direttiva. Non è, però, questa la questione che qui viene
in rilievo, perché il ricorrente non domanda una modifica delle condizioni di
impiego in relazione al periodo antecedente l’entrata in vigore dell’accordo
quadro, bensì invoca quest’ultimo per ottenere la parificazione agli assunti ab
origine a tempo indeterminato nei successivi sviluppi di carriera ed in
particolare in relazione all’anzianità riconosciuta al momento della
sottoscrizione del contratto di lavoro del 28 dicembre 2001, stipulato, in
piena vigenza della direttiva, all’esito del superamento della procedura
concorsuale alla quale aveva partecipato per acquisire la qualifica di primo
ricercatore di II livello.

Può, pertanto, essere esteso alla fattispecie il
medesimo principio affermato dalla Corte di Giustizia con riferimento
all’applicazione della clausola 4 dell’accordo quadro 97/81/CE sul lavoro a
tempo parziale, principio secondo cui il diritto alla parità di trattamento può
essere fatto valere, facendo leva su contratti stipulati in data antecedente
l’entrata in vigore della direttiva, per ottenere la parificazione in ordine ad
un trattamento spettante in data successiva. Ciò perché «secondo una
giurisprudenza costante, una nuova norma si applica, salvo deroghe,
immediatamente agli effetti futuri delle situazioni sorte sotto l’impero della
vecchia legge (v., in tal senso, in particolare, sentenze 14 aprile 1970, causa
68/69, Brock, Racc. pag. 171, punto 7; 10 luglio 1986, causa 270/84,
Licata/CES, Racc. pag. 2305, punto 31; 18 aprile 2002, causa C-290/00, Duchon,
Racc. pag. 1-3567, punto 21; 11 dicembre 2008,
causa C-334/07 P, Commissione/Freistaat Sachsen, Racc. pag. 1-9465, punto
43, nonché 22 dicembre 2008, causa C-443/07 P, Centeno Mediavilla e
a./Commissione, Racc. pag. 1-10945, punto 61)» (Corte
di Giustizia 10.6.2010 in cause riunite c-395/08 e c- 396/08, INPS, punto
53; negli stessi termini Corte di Giustizia
12.9.2013 in causa C- 614/11, Kuso).

Nessuna espressa deroga a detto principio, proprio
dell’ordinamento eurounitario, è contenuta nella clausola 4 dell’accordo quadro
allegato alla direttiva 99/10/CE, che sostanzialmente ricalca quella
interpretata dalla Corte di Giustizia nei termini sopra indicati.

Non occorre, pertanto, fare ricorso allo strumento
del rinvio pregiudiziale, perché lo stesso presuppone il dubbio interpretativo
su una norma del diritto dell’Unione, dubbio che non ricorre, oltre che nei
casi in cui il senso della disposizione sia evidente, qualora sulla stessa, o
su norme analoghe, la Corte di Giustizia si sia già pronunciata (Cass. n.
15041/2017 che richiama Cass. S.U. n. 12067/2007).

6.5. La Corte territoriale ha ritenuto infondata la
domanda sul presupposto, assorbente ma erroneo, che il ricorrente in nessun
caso potesse fare valere l’anzianità maturata in forza di rapporti a termine
stipulati prima dell’entrata in vigore della direttiva. La sentenza, pertanto,
deve essere cassata con rinvio al giudice d’appello indicato in dispositivo che
procederà ad un nuovo esame, anche delle questioni assorbite e qui riproposte
dal CNR, attenendosi ai principi di diritto sopra richiamati nonché a quello
che qui si enuncia nei termini che seguono: “La clausola 4 dell’Accordo
quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva 99/70/CE, di diretta applicazione,
impone al datore di lavoro pubblico di riconoscere, ai fini della progressione
stipendiale e degli sviluppi di carriera successivi al 10 luglio 2001,
l’anzianità di servizio maturata sulla base di contratti a tempo determinato,
nella medesima misura prevista per il dipendente comparabile assunto ab origine
a tempo indeterminato, fatta salva la ricorrenza di ragioni oggettive che
giustifichino la diversità di trattamento. Il principio è applicabile anche nell’ipotesi
in cui il rapporto a termine sia antecedente alla data sopra indicata, di
entrata in vigore della direttiva, perché, in assenza di espressa deroga, il
diritto * dell’Unione si applica agli effetti futuri delle situazioni sorte
nella vigenza della precedente disciplina.»

7. Alla Corte territoriale è demandato anche di
provvedere sul regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

Non sussistono le condizioni processuali richieste
per il raddoppio del contributo unificato dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla I. n. 228/2012.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso e
rigetta il primo.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte
d’Appello di Bari in diversa composizione alla quale demanda di provvedere
anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 luglio 2020, n. 15231
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