Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 29 luglio 2020, n. 173

Art. 4, c. 1°,
lett. b), della legge 04/11/2010, n. 183, sostitutivo dell’art. 3, c. 4°, del decreto-legge
22/02/2002, n. 12, convertito, con modificazioni, in legge 23/04/2002, n. 73, Articolo già modificato
dall’art. 36 bis, c. 7°, del
decreto-legge 04/07/2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 04/08/2006, n. 248.

 

Ritenuto in fatto

 

1. – Con ordinanza del 3 luglio 2019, la Corte
d’appello di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo
comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 49 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma
1, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in
materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di
incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro), che sostituisce il comma 4 dell’art. 3 del decreto-legge 22 febbraio
2002, n. 12 (Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di
emersione di attività detenute all’estero e di lavoro irregolare), convertito,
con modificazioni, in legge 23 aprile 2002, n. 73
– articolo già modificato dall’art.
36-bis, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate
e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248 -, nella parte in cui
non prevede che la disposizione da esso introdotta si applichi anche ai fatti
commessi anteriormente alla sua entrata in vigore.

1.1. – La Corte rimettente riferisce di essere
investita, in grado di appello, del giudizio di opposizione avverso
l’ordinanza-ingiunzione della Direzione provinciale del lavoro di Napoli, con
la quale era stata irrogata all’opponente, quale amministratrice di una società
in accomandita semplice, la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 6.150,
per violazione dell’art. 3, comma
3, del d.l. n. 12 del 2002, convertito, con modificazioni, in legge n. 73 del 2002, nel testo risultante a
seguito della sostituzione operata dall’art. 36-bis, comma 7, del d.l. n. 223
del 2006, convertito, con modificazioni, in legge
n. 248 del 2006, per aver impiegato un lavoratore non risultante dalle
scritture o da altra documentazione obbligatoria; violazione accertata l’8
febbraio 2007.

L’opposizione veniva accolta dal giudice di primo
grado, in ragione del fatto, emerso nel corso del giudizio, che in data
antecedente all’ispezione dalla quale era conseguita l’irrogazione della
sanzione, l’opponente aveva effettuato la denuncia nominativa obbligatoria del
lavoratore all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul
lavoro (INAIL).

Avverso la sentenza proponeva appello il Ministero
del lavoro e delle politiche sociali – Direzione provinciale di Napoli,
sostenendo che la comunicazione all’INAIL era stata effettuata il giorno
successivo all’ispezione e che, pertanto, la sanzione era stata correttamente
irrogata. Rilevava, altresì, che la società aveva eseguito un versamento di
euro 366,75 al fine di sanare le violazioni, riconoscendo così la propria
responsabilità.

La società e la sua amministratrice resistevano
all’appello e spiegavano appello incidentale, con il quale chiedevano
l’accoglimento del motivo di opposizione relativo alla violazione degli artt. 14, 17 e 18 della legge 24 novembre
1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) e della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in
materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi): motivo sul quale il giudice di primo grado non si era
pronunciato, ritenendolo verosimilmente assorbito. Nel merito, deducevano di
aver effettuato la comunicazione obbligatoria all’INAIL il giorno prima
dell’ispezione e che il pagamento della somma indicata dall’appellante era
stato eseguito in relazione ad altre violazioni accertate nel corso
dell’ispezione, e non a quella oggetto del giudizio.

1.2. – Ciò premesso, la Corte rimettente rileva come
il giudice di primo grado abbia accolto l’opposizione sul presupposto che la
previsione sanzionatoria dell’art.
3, comma 3, del d.l. n. 12 del 2002, come sostituito dall’art. 36-bis, comma 7, del d.l. n. 223
del 2006, relativa all’«impiego di lavoratori non risultanti dalle
scritture o da altra documentazione obbligatoria», debba ritenersi riferita al
personale totalmente sconosciuto alla pubblica amministrazione, in quanto non
iscritto nella documentazione obbligatoria, né oggetto di alcuna comunicazione
prescritta dalla normativa in materia di lavoro e previdenziale: comunicazione
che, nella specie, risultava invece effettuata dalla parte opponente, nella
forma della denuncia nominativa obbligatoria all’INAIL.

Ad avviso della Corte partenopea, questa
interpretazione in senso favorevole all’autore della violazione non sarebbe
«sorretta da adeguata motivazione». Essa avrebbe trovato, tuttavia, un
«espresso aggancio normativo» in una disposizione successiva al fatto oggetto
di giudizio: vale a dire nell’art.
4, comma 1, lettera b), della legge n. 183 del 2010, che ha sostituito il
comma 4 dell’art. 3 del d.l. n.
12 del 2002, prevedendo che «[l]e sanzioni di cui al comma 3» – quelle,
appunto, per il lavoro “in nero” – «non trovano applicazione qualora, dagli
adempimenti di carattere contributivo precedentemente assolti, si evidenzi
comunque la volontà di non occultare il rapporto, anche se trattasi di
differente qualificazione».

La Corte rimettente ritiene, quindi, di dover
sollevare questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo
comma, Cost., del citato art.
4, comma 1, lettera b), della legge n. 183 del 2010, nella parte in cui non
prevede che la disposizione da esso introdotta si applichi anche ai fatti
commessi prima della sua entrata in vigore.

1.3. – Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio
a quo.

Risulterebbe, infatti, infondato il motivo di
appello incidentale formulato dalla società e dalla sua amministratrice, avendo
le sezioni unite della Corte di cassazione escluso che – contrariamente a
quanto sostenuto dalle appellanti incidentali – il procedimento per
l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, di cui all’art. 18 della legge n. 689 del
1981, si debba concludere necessariamente nel termine di trenta (indi
novanta) giorni, previsto in via generale per la conclusione del procedimento
amministrativo dall’art. 2 della
legge n. 241 del 1990 (è citata Corte di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 aprile 2006, n. 9591).

Per altro verso, poi, la parte appellata ha provato
documentalmente di aver presentato la denuncia nominativa all’INAIL il 7
febbraio 2007 e, quindi, in data anteriore a quella dell’ispezione.
L’accoglimento delle questioni permetterebbe, pertanto, di non applicare la
sanzione ai sensi dell’art. 3,
comma 4, del d.l. n. 12 del 2002, come sostituito dalla norma censurata.

1.4. – Quanto alla non manifesta infondatezza delle
questioni, la Corte rimettente rileva come, alla luce di un consolidato
orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
inaugurato dalla sentenza 8 giugno 1976, Engel contro Paesi Bassi, le garanzie
previste in materia penale dalla CEDU si applichino a tutte le misure di
carattere afflittivo, a prescindere dalla loro qualificazione come sanzioni
penali nell’ordinamento nazionale.

La natura penale di una violazione, agli effetti
della Convenzione, va determinata, in specie – secondo la giurisprudenza della
Corte EDU – sulla base di tre criteri, applicabili anche in via alternativa: la
classificazione dell’illecito nell’ordinamento nazionale, la natura intrinseca
dell’illecito e la gravità della sanzione alla quale l’autore della violazione
si trova esposto.

Alla stregua degli ultimi due criteri, la sanzione
prevista dall’art. 3, comma 3,
del d.l. n. 12 del 2012, già modificato dall’art. 36-bis, comma 7, del d.l. n. 223
del 2006, benché qualificata come amministrativa, si connoterebbe come
sostanzialmente penale.

Essa avrebbe, infatti, una funzione punitiva e
deterrente, e non già meramente preventiva, rispetto a condotte di particolare
disvalore nel comune apprezzamento, rispondendo ad esigenze di tutela «di
beni-interessi riferibili alla collettività e in particolare […] della
persona e posizione giuridica del lavoratore».

Per la sua entità, d’altro canto, la sanzione in
questione – determinata in modo proporzionale al numero dei lavoratori occupati
irregolarmente e ai giorni di lavoro svolto – risulterebbe paragonabile, una
volta convertita la pena detentiva in pena pecuniaria, alla sanzione penale
stabilita dall’art. 37, comma
1, della legge n. 689 del 1981 per l’omissione o la falsità di
registrazioni o denunce obbligatorie a fini di evasione dei contributi o premi
previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie (reclusione
fino a due anni). Stante il meccanismo di computo, la sanzione amministrativa
risulta, peraltro, tanto più elevata quanto maggiore è il numero dei
lavoratori, quando, invece, la sanzione penale non solo rimane fissa nella sua
entità massima, ma può anche non essere in concreto eseguita, nel caso di
concessione della sospensione condizionale.

La sanzione in esame rimarrebbe, di conseguenza,
soggetta al principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU, il quale – alla luce
dell’interpretazione offertane dalla Corte EDU con le sentenze 17 settembre
2009, Scoppola contro Italia e 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania –
implica non soltanto il principio di irretroattività delle leggi penali più
severe, ma anche, implicitamente, quello di retroattività della legge penale
più favorevole.

Omettendo di rendere applicabile la disposizione da
esso introdotta anche ai fatti pregressi, l’art. 4, comma 1, lettera b), della
legge n. 183 del 2010 si porrebbe, dunque, in contrasto con la citata norma
convenzionale e, di riflesso, con l’art. 117, primo
comma, Cost.

1.5. – La norma censurata, stante la sua natura
sostanzialmente penale, violerebbe anche, in parte qua, l’art. 3 Cost., per contrasto con i principi di
eguaglianza e di ragionevolezza.

La Corte costituzionale – argomenta il giudice
rimettente – ha infatti chiarito che, sebbene il principio di retroattività
della lex mitior in materia penale non abbia carattere assoluto, la sua deroga
deve essere giustificata da gravi motivi di interesse generale, rimanendo
quindi soggetta a un vaglio positivo di ragionevolezza, e non ad un mero vaglio
negativo di non manifesta irragionevolezza. In particolare, secondo la sentenza n. 393 del 2006, «[i]l livello di
rilevanza dell’interesse preservato dal principio di retroattività della lex
mitior – quale emerge dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno,
oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal diritto comunitario –
impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una
legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo».

Nella specie, non sarebbe ravvisabile alcun
interesse, e tanto meno un interesse di rango costituzionale, atto a
giustificare l’inapplicabilità ai fatti anteriori del trattamento più
favorevole previsto dall’art. 4,
comma 1, lettera b), della legge n. 183 del 2010.

1.6. – I dubbi di costituzionalità non potrebbero
essere, d’altra parte, superati tramite una interpretazione conforme alla CEDU
e ai parametri costituzionali.

Sebbene nel caso di specie – diversamente che in
quello esaminato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 63 del 2019
(dichiarativa dell’incostituzionalità della norma sanzionatoria amministrativa
in materia di abuso di informazioni privilegiate) – la norma censurata non
preveda espressamente la sua inapplicabilità ai fatti anteriori, tale risultato
consegue, comunque sia, dal fatto che l’art. 1 della legge n. 689 del 1981
si limita a prevedere il solo principio di irretroattività delle norme
sanzionatorie. Secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza di
legittimità, il principio di matrice penalistica di retroattività della lex
mitior, in quanto non recepito dal citato art. 1, resta inapplicabile
nel campo degli illeciti amministrativi, per i quali vale, invece, il distinto
principio tempus regit actum. Non sussisterebbero, infatti, i presupposti per
una applicazione analogica dell’art. 2, secondo
comma, del codice penale o delle disposizioni che prevedono la
retroattività della lex mitior relativamente agli illeciti amministrativi in
particolari settori: disposizioni non estensibili oltre il loro ristretto
ambito di applicazione.

1.7. – La Corte rimettente assume, da ultimo, che la
norma censurata, una volta riconosciutane la natura sostanzialmente penale,
verrebbe a porsi in contrasto anche con l’art. 49 CDFUE, il quale stabilisce
che «[s]e, successivamente alla commissione del reato, la legge prevedere
l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».

2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.

L’interveniente contesta, in specie, che la sanzione
amministrativa di cui si discute debba essere realmente qualificata come
sanzione penale, in base ai cosiddetti criteri Engel elaborati dalla Corte EDU.

Tali criteri sarebbero, infatti, «coordinabili […]
con la tesi che fonda la distinzione tra sanzioni penali e sanzioni
amministrative in ragione della relativa funzione»: prospettiva nella quale la
sanzione dovrebbe essere ritenuta di natura amministrativa quando
«salvaguard[a] interessi pubblici affidati alla pubblica amministrazione» e di
natura penale, invece, «quando salvaguard[a] interessi di ordine generale
dell’ordine sociale».

Nella specie, la sanzione prevista dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 12 del
2002 sarebbe diretta a realizzare l’interesse pubblico al corretto
svolgimento del rapporto di lavoro, impedendo forme di impiego di lavoratori
sottratte agli oneri imposti a carico del datore di lavoro. La previsione di
una maggiorazione della sanzione in ragione delle giornate di lavoro
effettivamente svolte dal lavoratore irregolare avrebbe, poi, una chiara
finalità dissuasiva rispetto alla protrazione della condotta illecita,
incentivando così l’emersione del lavoro “in nero”.

L’importo della sanzione – con forbice da 1.500 a
12.000 euro per ciascun lavoratore – non sarebbe, d’altro canto, di tale entità
da connotare la sanzione stessa come penale.

Non gioverebbe, in senso contrario, la comparazione
fra tale sanzione e la pena detentiva prevista per il reato di cui all’art. 37, comma 1, della legge n.
689 del 1981. La maggiore gravità dell’una o dell’altra non potrebbe
essere, infatti, determinata sulla base dei risultati della conversione della
pena detentiva prevista dalla norma penale in pena pecuniaria, secondo i
criteri di cui all’art. 135 cod. pen. Dovrebbe,
invece, fondarsi sulla considerazione che la pena detentiva presenta un grado
di afflittività certamente maggiore rispetto a una sanzione amministrativa
pecuniaria, a testimonianza del maggior disvalore che il legislatore annette
alla condotta penalmente sanzionata.

L’esclusione della natura penale della sanzione
considerata renderebbe manifestamente infondate le questioni in rapporto a
entrambi i parametri evocati. Come rilevato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 193 del 2016, in materia di sanzioni
amministrative non è dato rinvenire un vincolo costituzionale all’applicazione
in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella
discrezionalità del legislatore, nel rispetto del limite della ragionevolezza,
modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore
in base a materia e oggetto di disciplina.

 

Considerato in diritto

 

1. – La Corte d’appello di Napoli dubita della
legittimità costituzionale dell’art.
4, comma 1, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al
Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di
incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro), che sostituisce il comma 4 dell’art. 3 del decreto-legge 22 febbraio
2002, n. 12 (Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di
emersione di attività detenute all’estero e di lavoro irregolare), convertito,
con modificazioni, in legge 23 aprile 2002, n. 73:
articolo già modificato dall’art.
36-bis, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate
e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248.

La norma è censurata nella parte in cui – nel
prevedere che le sanzioni amministrative pecuniarie di cui al comma 3 dello
stesso art. 3 del d.l. n. 12 del
2002, concernenti l’impiego di lavoratori subordinati senza preventiva
comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di
lavoro privato, «non trovano applicazione qualora, dagli adempimenti di
carattere contributivo precedentemente assolti, si evidenzi comunque la volontà
di non occultare il rapporto, anche se trattasi di differente qualificazione» –
non stabilisce che tale disposizione si applichi anche ai fatti commessi
anteriormente alla sua entrata in vigore.

Ad avviso della Corte rimettente, la sanzione
amministrativa considerata avrebbe natura sostanzialmente penale, alla stregua
dei cosiddetti criteri Engel elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo.

La norma censurata violerebbe, di conseguenza, l’art. 117, primo comma, della Costituzione,
ponendosi in contrasto con il principio di retroattività della legge penale più
favorevole, sancito, sia dall’art. 7
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 –
secondo l’interpretazione offertane dalla stessa Corte EDU -, sia dall’art. 49 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

Essa violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., in quanto – posta la natura
sostanzialmente penale della sanzione – l’inapplicabilità della disposizione
censurata, benché più favorevole, ai fatti anteriormente commessi, risulterebbe
irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza, non trovando
giustificazione in esigenze di salvaguardia di valori di pari rango, rispetto a
quello tutelato dal principio di retroattività della lex mitior.

2. – L’analisi delle questioni deve necessariamente
muovere da una sintetica ricostruzione – per gli aspetti che qui più
interessano – della genesi e dell’evoluzione della disciplina sanzionatoria
amministrativa relativa al cosiddetto lavoro irregolare o “sommerso”.

L’art.
4 della legge n. 183 del 2010 – recante la rubrica «Misure contro il lavoro
sommerso» – rappresenta, infatti, la tappa intermedia di un tormentato
percorso, che ha visto succedersi, a distanza di pochi anni, plurimi interventi
legislativi, sollecitati dall’esigenza di eliminare, a volta a volta, i profili
di criticità riscontrati nelle precedenti formulazioni della disciplina
considerata.

2.1. – La metafora lavoro “sommerso”, o “nero”,
designa, in via di prima approssimazione, il fenomeno dell’occultamento del rapporto
di lavoro agli occhi del diritto, così da eludere o distorcere l’applicazione
di una serie di norme collegate a tale rapporto, con conseguente compressione
dei diritti del lavoratore e distorsione della libera concorrenza (stante la
maggiore competitività delle imprese che impiegano lavoratori “in nero”
rispetto alle imprese “virtuose”).

A fronte delle allarmanti dimensioni assunte dal
fenomeno, il legislatore ha ritenuto, sul principio degli anni 2000, di dover
introdurre misure di contrasto particolarmente incisive, consistenti,
anzitutto, nell’applicazione di rilevanti sanzioni nei confronti dei datori di
lavoro che occupino lavoratori non “regolarizzati”.

Il processo ha preso avvio con l’art. 3, comma 3, del d.l. n. 12 del
2002, convertito, con modificazioni, in legge
n. 73 del 2002, in forza del quale – ferma restando l’applicazione delle
sanzioni già previste dalle leggi in vigore – «l’impiego di lavoratori dipendenti
non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatorie» veniva
«altresì punito con la sanzione amministrativa dal 200 al 400 per cento
dell’importo, per ciascun lavoratore irregolare, del costo del lavoro calcolato
sulla base dei vigenti contratti collettivi nazionali, per il periodo compreso
tra l’inizio dell’anno e la data di constatazione della violazione».

La neointrodotta previsione sanzionatoria palesava,
peraltro, ben presto rilevanti profili di criticità, connessi soprattutto alla
difficoltà di computo della sanzione e al fatto che la disposizione introduceva
una presunzione iuris et de iure in ordine all’inizio del lavoro irregolare:
presunzione che appariva lesiva del diritto di difesa dell’incolpato e
generatrice di sperequazioni nella risposta sanzionatoria a fatti analoghi.
Profilo, questo secondo, che dava luogo a una declaratoria di illegittimità
costituzionale parziale ad opera di questa Corte (sentenza
n. 144 del 2005).

2.2. – Di seguito a tale pronuncia, il legislatore
provvedeva a riscrivere la disposizione con l’art. 36-bis, comma 7, del d.l. n. 223
del 2006, convertito, con modificazioni, in legge
n. 248 del 2006. Ed è in questa versione che la norma sanzionatoria vigeva
all’epoca del fatto di cui si discute nel giudizio a quo.

Lasciando inalterata la descrizione della condotta
sanzionata – consistente sempre nell’«impiego di lavoratori non risultanti
dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria» – la novella del 2006
modificava, in specie, i criteri di determinazione della sanzione. La
quantificazione in base al «costo del lavoro» veniva sostituita con la
previsione di una sanzione a carattere composito: una sanzione amministrativa
pecuniaria da 1.500 a 12.000 euro per ciascun lavoratore irregolarmente
impiegato, cui si aggiungeva una sanzione fissa progressiva di 150 euro «per
ciascuna giornata di lavoro effettivo» (rimanendo esclusa, con ciò, ogni
presunzione – anche solo relativa – riguardo alla durata del lavoro
irregolare).

Pure in tale nuova versione, la previsione
sanzionatoria dava, peraltro, adito a problemi e criticità, anche in
conseguenza di sopravvenute modifiche del panorama normativo di riferimento.

Difficoltà erano sorte, anzitutto, in ordine
all’identificazione della «documentazione obbligatoria», sulla cui base si
doveva accertare la presenza o meno di un lavoratore irregolare. Quanto al
concorrente riferimento alle «scritture obbligatorie», esso evocava, in
origine, precipuamente i libri di matricola e di paga, nei quali, ai sensi
dell’art. 20 del d.P.R. 30
giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), dovevano essere
iscritti – prima dell’ammissione al lavoro (almeno quanto al libro di
matricola) – i nominativi e le informazioni relative ai singoli dipendenti.

Per effetto, tuttavia, dell’art. 39 del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, i libri di matricola
e di paga sono stati sostituiti dal libro unico del lavoro: il che generava
problemi di coordinamento con la fattispecie sanzionatoria in esame.
Diversamente, infatti, da quanto avveniva per i libri soppressi, non era
obbligatorio iscrivere il lavoratore nel libro unico prima di adibirlo al
lavoro (le scritturazioni dovevano essere, infatti, eseguite entro il giorno 16
del mese successivo ai fatti da iscrivere), né era obbligatorio tenere il libro
sul posto di lavoro, così da consentirne l’immediata verifica da parte degli
organi accertatori.

2.3. – Tali criticità inducevano il legislatore a
riscrivere di nuovo la previsione sanzionatoria con l’art. 4, comma 1, della legge n. 183
del 2010.

La novità di spicco – anche agli odierni fini – è
rappresentata dalla ridefinizione della nozione di “lavoro sommerso”, contro la
quale si rivolge la sanzione: nozione che è collegata, non più
all’utilizzazione di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra
documentazione obbligatoria, ma, in modo puntuale e specifico, all’impiego di
lavoratori subordinati «senza preventiva comunicazione di instaurazione del
rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato».

La condotta integrativa dell’illecito è ora
costituita, dunque, dall’utilizzazione di dipendenti senza aver effettuato
preventivamente la comunicazione di assunzione al centro per l’impiego,
prescritta dall’art. 9-bis,
comma 2, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510 (Disposizioni urgenti in
materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel
settore previdenziale), convertito, con modificazioni, in legge 28 novembre 1996, n. 608, come sostituito
dall’art. 1, comma 1180, della
legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)»:
comunicazione che deve essere eseguita entro il giorno precedente a quello di
instaurazione del rapporto.

Al tempo stesso, però – ed è da qui che trae origine
l’incidente di costituzionalità – l’art.
4, comma 1, lettera b), della legge n. 183 del 2010, sostituendo l’art. 3, comma 4, del d.l. n. 12 del
2002, stabilisce che «[l]e sanzioni di cui al comma 3 non trovano
applicazione qualora, dagli adempimenti di carattere contributivo
precedentemente assolti, si evidenzi comunque la volontà di non occultare il
rapporto, anche se trattasi di differente qualificazione».

Nell’ottica di limitare la rilevante sanzione
comminata (usualmente qualificata, sin dalle origini, come “maxisanzione”) agli
illeciti di carattere sostanziale, e non meramente formale, si prevede, dunque,
che, in difetto della comunicazione obbligatoria al centro per l’impiego, la
preventiva effettuazione di adempimenti di tipo contributivo valga, comunque
sia, a rendere inoperante la sanzione stessa, in quanto rivelatrice della
volontà del datore di lavoro di non tenere celato il rapporto lavorativo.

2.4. – Dopo la legge n.
183 del 2010, la disciplina sanzionatoria in esame è stata ritoccata ancora
varie volte. Di tali ulteriori modifiche – consistite principalmente in
ondivaghe variazioni dell’entità delle sanzioni e dei relativi criteri di
computo – non occorre, peraltro, dar conto in questa sede, in quanto non
significative ai fini dell’odierno scrutinio.

3. – Venendo ora, sulla scorta dell’excursus
condotto, all’esame delle questioni, le stesse si rivelano inammissibili.

3.1. – La rimettente Corte d’appello di Napoli è
chiamata a pronunciarsi sull’opposizione all’ordinanza-ingiunzione con la
quale, a seguito di ispezione eseguita l’8 febbraio 2007, era stata inflitta
all’amministratrice di una società la sanzione amministrativa di 6.150 euro per
aver impiegato un lavoratore irregolare: opposizione a sostegno della quale
l’opponente aveva dedotto – e dimostrato, secondo la stessa Corte rimettente –
di aver effettuato, prima dell’ispezione (e dell’avvio al lavoro del
dipendente), la denuncia nominativa di quest’ultimo all’Istituto nazionale per
l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) (adempimento richiesto,
all’epoca dei fatti, dall’art. 14
del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, recante «Disposizioni in
materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali, a norma dell’articolo
55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144»).

I dubbi di costituzionalità prospettati dalla Corte
d’appello poggiano, dunque, su una premessa: quella per cui l’effettuazione di
comunicazioni prescritte a fini contributivi e previdenziali – quale, nella
specie, la denuncia nominativa del lavoratore assicurato all’INAIL – non fosse
sufficiente ad escludere la configurabilità dell’illecito di impiego di
lavoratori irregolari, nella versione delineata dal d.l.
n. 223 del 2006, in quel momento vigente. Questo risultato – di non
punibilità – lo si potrebbe ottenere, in assunto, solo tramite l’applicazione
retroattiva della disposizione successivamente introdotta dall’art. 4, comma 1, lettera b), della
legge n. 183 del 2010: applicazione retroattiva che la norma censurata non
prevede, donde il suo denunciato contrasto con gli artt.
3 e 117, primo comma, Cost.

3.2. – La premessa fondante i quesiti resta,
tuttavia, indimostrata.

Al riguardo, la Corte rimettente si limita, infatti,
ad affermare che la contraria convinzione espressa in prime cure dal Tribunale
ordinario di Napoli – secondo la quale la previsione sanzionatoria in parola
doveva intendersi riferita solo al «personale totalmente sconosciuto alla P.A.,
in quanto non iscritto nella documentazione obbligatoria né oggetto di alcuna
comunicazione prescritta dalla normativa lavoristica o previdenziale» – «non
[sarebbe] sorretta da adeguata motivazione».

La Corte partenopea non spiega, però, in fatto,
quali ragioni impediscano di aderire alla soluzione interpretativa del giudice
di primo grado.

Come si è visto, alla stregua della norma
dell’epoca, il lavoratore, per poter essere considerato «irregolare», non
doveva «risultare» come tale né dalle «scritture» obbligatorie – formula
riferibile essenzialmente ai libri di matricola e di paga (poi sostituiti dal
libro unico del lavoro) – né da «altra documentazione obbligatoria».

Tanto la Corte di cassazione, quanto la
giurisprudenza di merito – sia pur pronunciando su ipotesi diverse da quella
oggetto del giudizio a quo – hanno ritenuto che, alla luce di tale formula
legislativa e della ratio legis («contrastare alla radice il fenomeno del c.d.
“lavoro nero” che arreca danno ai diritti dei lavoratori e agli interessi delle
aziende in regola, con violazione della libera concorrenza»), la norma punisse,
in effetti, «solo i datori di lavoro che impiegano lavoratori assolutamente
sconosciuti all’amministrazione» (in questo senso, Corte di cassazione, sezione
quinta civile, sentenza 28 maggio 2014, n. 11953).

La tesi – sostenuta, in quest’ottica, nella
giurisprudenza di merito – per cui, già prima della legge
n. 183 del 2010, la “maxisanzione” non poteva essere applicata ove da
adempimenti obbligatori, precedentemente assolti, emergesse la volontà di non
occultare i rapporti di lavoro, risulta, d’altra parte, recepita – anche con
specifico riguardo alla denuncia nominativa dell’assicurato all’INAIL – in
circolari del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali
recanti istruzioni per il personale ispettivo (si vedano, in specie, la
circolare n. 25/SEGR/4024 del 29 marzo 2007 e, in modo ancor più esplicito, la circolare
n. 25/SEGR/0011469 del 21 agosto 2008). Tutto ciò, peraltro, con ampia
condivisione da parte della dottrina.

Appare significativo, del resto, che, nel giudizio a
quo, lo stesso Ministero del lavoro, proponendo appello avverso la sentenza del
Tribunale ordinario di Napoli, non abbia affatto contestato, in punto di
diritto, l’interpretazione adottata dal giudice di primo grado, ma abbia
imperniato le sue difese solo su una circostanza di fatto, ossia l’asserito
difetto di anteriorità della denuncia all’INAIL rispetto all’ispezione.

Né gioverebbe obiettare che, se l’effettuazione
delle comunicazioni a fini contributivi escludeva la natura irregolare del
lavoro già nel vigore della norma precedente, non si comprenderebbe perché il
legislatore della legge n. 183 del 2010 abbia
ritenuto necessario stabilire espressamente tale regola.

Come già posto in evidenza, con la novella del 2010
la formula descrittiva dell’illecito è cambiata: la sanzione è ora collegata in
modo specifico alla mancata effettuazione della comunicazione di instaurazione
del rapporto di lavoro, e non più genericamente al fatto che il lavoratore non
risulti da «scritture o altra documentazione obbligatoria». Se non vi fosse la
norma censurata, le comunicazioni a fini contributivi – benché rivelatrici
della volontà di non occultare il rapporto di lavoro – non varrebbero, perciò,
più ad escludere l’applicabilità della sanzione: esito che il legislatore del
2010 ha voluto invece evitare.

4. – In questa prospettiva, le questioni vanno
dichiarate dunque inammissibili, per non avere il giudice a quo adeguatamente
motivato la premessa ermeneutica che fonda i quesiti.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma
1, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in
materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di
incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro), che sostituisce il comma 4 dell’art. 3 del decreto-legge 22 febbraio
2002, n. 12 (Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di
emersione di attività detenute all’estero e di lavoro irregolare), convertito,
con modificazioni, in legge 23 aprile 2002, n. 73
– articolo già modificato dall’art.
36-bis, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate
e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248 – sollevate, in
riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione –
quest’ultimo in relazione all’art. 7
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e
all’art. 49 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – dalla Corte d’appello di
Napoli con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 5
agosto 2020, n. 32.

Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 29 luglio 2020, n. 173
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