Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 luglio 2020, n. 15108

Contributi Inps omessi e somme aggiuntive, Verbale ispettivo
– Genuini e legittimi rapporti di lavoro a progetto, Controllo di logicità del
giudizio del giudice di merito

 

Rileva che

 

Il giudice del lavoro di Firenze con sentenza del 20
giugno 2013 accoglieva la domanda di accertamento negativo proposta da
ristorante B. di P.A. & C. S.a.s., statuendo quindi la insussistenza del
credito vantato dall’I.N.P.S. per contributi omessi e somme aggiuntive
relativamente alla posizione dei lavoratori B.B. e L.L. per il periodo novembre
2004 – febbraio 2008. In particolare, il giudice adito, negando rilevanza
decisiva ai fatti accertati nel verbale ispettivo dell’8 aprile 2008, aveva
ritenuto genuini e legittimi i rapporti di lavoro a progetto instaurati dalla
società istante con i suddetti collaboratori;

avverso la succitata pronuncia interponeva gravame
l’Inps mediante ricorso del 20 dicembre 2013 e la Corte d’Appello di Firenze
con sentenza del 15 gennaio 2015, in riforma della gravata pronuncia, rigettava
la domanda proposta dall’anzidetta S.a.s. Ristorante B. di P.A. & C., con
la condanna della stessa al rimborso delle spese relative ad entrambi gradi del
giudizio liquidate in favore dell’Istituto; contro la sentenza d’appello,
notificata il 3 febbraio 2015, ha proposto ricorso per cassazione la S.a.s. con
atto del 13 marzo 2015, affidato a nove motivi. L’I.N.P.S. è rimasto intimato,
avendo soltanto depositato procura speciale a seguito del ricorso
notificatogli.

 

Considerato che

 

con il primo motivo è stata denunciata la nullità
della sentenza impugnata e o del relativo procedimento ex articolo 360 n. 4 c.p.c., reiterando l’eccezione
di inammissibilità ovvero di nullità dell’appello a suo proposto dall’Istituto
per violazione degli articoli 342 e 434 c.p.c., sulla quale la corte d’appello non si
era minimamente pronuncia; con il secondo motivo, ex articolo
360 n. 4 c.p.c. è stata lamentata la nullità della sentenza impugnata per
violazione dell’articolo 132 dello stesso
codice di rito e contestualmente degli articoli 115
e 116 c.p.c., sostenendosi l’invalidità della
motivazione della sentenza d’appello nei limiti in cui aveva completamente
trascurato, senza fornire alcun supporto motivazionale rispetto a tale opzione
ricostruttiva, tutta una serie di prove e/o di indici indiziari, ampiamente
emersi in sede istruttoria, che avrebbero accreditato una soluzione decisoria
completamente opposta a quella poi adottata in punto di simulazione di rapporti
collaborativi a progetto e loro asserita natura di rapporti di lavoro
subordinato. In particolare, non era stata minimamente considerata la
circostanza per cui in sede di accertamento gli ispettori dell’Inps non
contestarono una eventuale analoga situazione dei contratti di collaborazione a
progetto della signora M.E., contratto peraltro espressamente menzionato nel
verbale di accertamento dell’8 aprile 2008, il cui contenuto era
sostanzialmente identico a quello della signora B., donde la totale
irrazionalità del contestato accertamento ispettivo. Inoltre, era stata
completamente trascurata la circostanza per cui l’impugnato verbale di
accertamento non conteneva alcuna traccia di verifiche circa l’effettiva
subordinazione dei rapporti collaborativi contestati in termini di soggezione dei
suddetti B. e L. al potere direttivo e / o disciplinare del committente, ciò in
palese violazione della giurisprudenza di legittimità in punto di elementi
discretivi tra lavoro subordinato e autonomo. Era stato, altresì, completamente
trascurato il contenuto della testimonianza resa dalla sig.ra M.E., escussa
all’udienza del 15 febbraio 2010, la quale aveva infatti pienamente confermato
le circostanze di fatto di cui al ricorso introduttivo del giudizio di primo
grado. Parimenti, era stato completamente trascurato il contenuto della
testimonianza resa dalla ispettrice S.B., la quale in realtà aveva confermato
che l’accertamento era stato di durata limitata nel tempo allorché non
intravide differenze qualitative tra il lavoro della signora B. e quello delle
altre banconiste. Nulla peraltro la teste aveva riferito in ordine alla
sussistenza o meno di indici di subordinazione. Era stato completamente
trascurato il contenuto della testimonianza resa all’udienza del 11 gennaio
2012 dal signor L.L., il quale fu sentito nella sua duplice veste di testimone,
riguardo ai fatti concernenti la posizione della B., ed in sede di libero
interrogatorio sulle circostanze inerenti alla propria prestazione
collaborativa. Inoltre, si era completamente trascurato sede motivazionale il
contenuto della testimonianza resa l’11 gennaio 2012 dalla signora B. B.,
anch’essa escussa nella duplice veste di teste e di persona liberamente
sentita, la quale aveva confermato le riunioni periodiche effettuate con il
signor P. unitamente al signor L..

Era stata, altresì, completamente trascurata la
testimonianza resa dal signor V.S.. La Corte d’Appello aveva poi del tutto
travisato la deposizione testimoniale resa dalla signora M.; con il terzo
motivo, ex art. 360 n. 4 c.p.c., è stata
denunciata la nullità della sentenza impugnata per violazione degli articoli 132, 115,
116 e 221 c.p.c.
nonché 2702 c.c., per aver l’impugnata sentenza
fondato essenzialmente la propria motivazione sulle dichiarazioni
stragiudiziali rese dai suddetti collaboratori B. e L. agli ispettori
dell’Inps, svalutando contemporaneamente le rispettive dichiarazioni
testimoniali, non prendendone atto, senza nulla dire riguardo all’altrettanto
chiara dichiarazione resa dalla signora M., che invece aveva confortato
l’assetto difensivo di parte ricorrente, con evidente vizio logico di motivazione,
perché non veniva dato conto della valenza probatoria della dichiarazione
stragiudiziale resa dalla M. e senza fornire alcuna spiegazione in merito,
offrendo una valutazione palesemente sperequata di atti analoghi. Inoltre, le
menzionate dichiarazioni stragiudiziali dovevano ritenersi per ogni effetto
prove atipiche, aventi perciò al più un mero valore indiziario, di modo che
come tali non potevano prevalere sul contenuto della prova testimoniale
ritualmente raccolta in giudizio e sotto giuramento, specie ove si fosse
valutato il complessivo contesto probatorio e documentale in atti.

Peraltro, risultava erroneo e logicamente
contraddittorio ritenere che le dichiarazioni stragiudiziali della B. e del L.
fossero la ritenersi prevalenti ai fini del convincimento del giudice rispetto
ad ogni altra acquisizione istruttoria, tenuto conto che i due collaboratori
avevano uno specifico interesse patrimoniale a sostenere una tesi piuttosto che
un’altra, tant’è che in primo grado furono sentiti in sede di libero
interrogatorio e non come testi quando erano stati chiamati a riferire circa la
propria posizione collaborativa. In sostanza, il primo giudicante aveva
correttamente rilevato una incapacità a testimoniare dei predetti ex articolo 246 c.p.c. e sul punto la sentenza di
primo grado non era stata specificamente impugnata con conseguente formazione
di giudicato, quanto meno implicito, sulla incapacità a testimoniare dei
predetti B. e, L.. Era evidente l’incongruenza del ragionamento che sorreggeva
la motivazione dell’impugnata sentenza laddove si screditava a priori la
valenza probatoria di tutto il materiale istruttorio acquisito, con esaltazione
per contro della prova atipica resa da soggetti non indifferenti alla lite, pregiudizio
metodico che aveva determinato l’esito decisorio dove traspariva evidente un
implicito e pregiudiziale scetticismo del giudice di secondo grado rispetto
all’effettività dei rapporti collaborativi a progetto. Peraltro, anche
verificando analiticamente l’effettiva portata delle dichiarazioni rese in sede
ispettiva, le stesse risultavano in realtà assai poco proficue sotto il profilo
probatorio (dichiarazioni rese agli ispettori 20 febbraio 2008 dalla B. e dal
L., nonché il 14 febbraio 2008 dal socio accomandatario signor A.P.);

con il quarto motivo ex articolo
360 n. 3 c.p.c. è stata denunciata la violazione degli articoli 2094 c.c., 409
c.p.c., 61, 62, 63 e 69 del decreto legislativo n. 276 del
2003, avendo la Corte d’Appello erroneamente applicato nel caso di specie i
principi normativi in materia di subordinazione nonché di rapporti
collaborativi coordinati e continuativa. In particolare, il progetto
contrattualmente dedotto per entrambi i rapporti collaborativi in questione
doveva considerarsi chiaro, coerente e perfettamente lecito, in quanto esso poteva
inerire, quantomeno all’epoca dei fatti, al normale ciclo produttivo aziendale
ovvero ad una fase di esso. Il progetto conteneva oltretutto una espressa
“delega di poteri direttivi” nei confronti di altri dipendenti in
organico e le prove raccolte avevano tutte concordemente confermato il concreto
esercizio, sia da parte della signora B. che del signor L., di tale
prerogativa, mentre non era emersa la soggezione di detti collaboratori al
potere gerarchico del signor P., il quale, sebbene sovrintendesse a tutta
l’azienda, tuttavia non aveva mai fatto uso di un potere direttivo o
disciplinare nei confronti dei due collaboratori;

con il quinto motivo (erroneamente indicato a pagina
48 del ricorso con il n. 4) è stata denunciata la violazione e l’errata applicazione
degli articoli 2094 c.c., 409 c.p.c., 61 del decreto legislativo n.
276/2003, 2222 c.c. nonché contestuale
vizio di motivazione rilevante ex articolo 132
c.p.c. ai sensi dell’art. 360 n. 4 dello
stesso codice di rito, in quanto, pur restando provate le direttive di
carattere generale impartite dal signor A.P. nelle riunioni periodiche di cui
avevano fatto cenno tutti i testi escussi, non erano stati provati più
pregnanti ordini, specifici e reiterati occorrenti ai fini della
subordinazione, né tantomeno la soggezione al potere disciplinare. Inoltre, era
stato violato il principio secondo cui nel caso di situazione oggettiva di
incertezza probatoria il giudice deve ritenere che il relativo onere a carico
di parte attrice non sia stato assolto, e non già propendere per la natura
subordinata del rapporto. D’altra parte, siffatto vizio di legittimità si
rifletteva anche in una evidente una carenza motivazionale, che non solo non
aveva dato conto dell’applicazione nella specie dei succitati criteri decisori,
ma aveva trascurato palesemente e senza alcuna giustificazione risultanze
probatorie opposte;

– con il sesto motivo (erroneamente indicato con il
numero 5 a pagina 50 del ricorso), ex articolo 360
n. 3 c.p.c., è stata denunciata violazione ed errata applicazione degli articoli 2094 c.c. e 69 del decreto legislativo n.
276/2003, laddove l’impugnata pronuncia non aveva minimamente verificato la
possibilità di ricondurre i contratti a progetto in questione nell’alveo
residuale del contratto d’opera ex art. 2222 c.c.
correlato anche al carattere non assoluto della presunzione di cui ai commi 1 e 2 del succitato articolo 69,
sostenendosi inoltre che nella specie ratione temporis risultava inapplicabile
l’interpretazione autentica di cui all’art. 1, co. 24, della legge
28.12.2012 n. 92 con riferimento all’art. 69 del d.lgs. n. 276/2003,
in quanto il successivo comma 25 espressamente differiva l’operatività dei
commi 23 e 24 ai contratti di collaborazione stipulati successivamente alla
data di entrata in vigore della novella. Di conseguenza, secondo la società
ricorrente nel caso di specie, trattandosi di contratti sottoscritti prima
della L. n. 92/2012, la presunzione di
subordinazione era da intendersi relativa, con ogni conseguente onere
probatorio, inoltre, ex art. 2697 c.c. a carico
dell’I.N.P.S., pure nel caso di azione di accertamento negativo, tenuto conto,
per altro verso anche del principio della c.d. indisponibilità del tipo
contrattuale;

– con il settimo motivo (erroneamente indicato con
il n. 6 a pag. 53 del ricorso) è stata inoltre denunciata la violazione e/o
falsa applicazione degli artt. 2094 c.c., 61 d.lgs. n. 276/2003, 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c.,
contestandosi l’iter logico-argomentativo dell’impugnata sentenza, che non
aveva tenuto conto, da un lato, dei principi di diritto in punto di valenza del
nomen juris adottato dalle parti e, dall’altro, non aveva minimamente indagato
se l’attuazione del rapporto collaborativo si fosse di fatto discostata dal
programma negoziale inizialmente pattuito;

– con l’ottava censura (erroneamente con il n. 7 a
pag. 58 del ricorso) è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli
artt. 61 e 62 del dl.vo n.
276/2003 (secondo il testo ratione temporis applicabile nella specie) in
correlazione con gli artt. 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c., laddove la Corte d’Appello aveva
ritenuto l’irregolarità e/o invalidità del progetto contrattuale, perché non
conforme al contenuto previsto dai suddetti artt. 61 e 62. Infatti, la
definizione dei progetti de quibus risultava perfettamente compatibile con le
disposizioni di legge vigenti all’epoca delle stipulazioni in data due novembre
(B.) e primo dicembre 2004 (L.), per cui la definizione di progetto poteva
all’epoca qualificarsi come “programma di lavoro o fase di esso”,
mentre l’impugnata sentenza aveva palesemente omesso di considerare siffatta
prospettiva ermeneutica del progetto contrattualmente concluso in quanto
riconducibile ad un legittimo programma o fase di lavoro, perfettamente
legittimo ante Legge Fornero;

infine, con il nono motivo (per errore materiale di
numerazione indicato come 8 a pag. 62 del ricorso), è stato lamentato l’omesso
esamine circa un fatto decisivo del giudizio, già oggetto di discussione tra le
parti, ex art. 360 n. 5 c.p.c. in relazione
agli artt. 2094 c.c. e 69 d.lgs. n. 276/2003, con
riferimento alla circostanza, pacifica tra le parti e comunque provata dai
documenti nn. 3 e 4 allegati alla produzione di primo grado, costituita dalla
specifica articolazione ed ampiezza del ristorante B., costituito da vari
settori distinti ubicati su diversi piani (sala ristorante e cucina al primo
piano, self-service con relativi tavoli al pian terreno, pizzeria,
bar-pasticceria con locali interrati ad uso laboratorio, rivendita tabacchi e
attività collaterale di affittacamere). Tutto ciò era stato completamente
trascurato nella motivazione della sentenza impugnata, assumendo invece rilievo
per comprendere come fosse del tutto inverosimile che il sig. P. potesse
controllare e dare specifiche direttive al personale di ogni reparto e/
articolazione produttiva, donde l’insussistenza di alcun effettivo esercizio di
potere direttivo e/o disciplinare nei riguardi dei due suddetti collaboratori a
progetto, sicché anche sotto tale profilo vi era stata una erronea, incongrua
e/o omessa valutazione delle prove raccolte in tanto premesso, vanno disattese
le anzidette censure per le seguenti ragioni, risultando per contro corrette le
argomentazioni in diritto sulle quali si fonda la pronuncia qui impugnata,
mentre ne risultano insindacabili in questa sede di legittimità le valutazioni
di merito, peraltro sufficientemente motivate e comunque in misura non inferiore
al minimo costituzionale occorrente a norma degli artt.
111 Cost. e 132 n. 4 c.p.c.(cfr. sul punto Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014,
nonché la conforme giurisprudenza di questa Corte al riguardo);

in particolare, la Corte d’Appello, dopo aver
riportato le rilevanti dichiarazioni rese in sede di accertamento ispettivo da
A.P., B. B. e L.L., osservava che la sentenza impugnata risultava censurabile
in quanto aveva completamente omesso l’esame delle anzidette dichiarazioni
rilasciate al momento dell’accesso sul posto, allorché gli ispettori
(richiamando altresì la testimonianza B.) trovarono la B. che svolgeva le
comuni mansioni di banconiera e non potè poi negare che ella era solita servire
il pubblico e riscuotere il prezzo delle consumazioni. Inoltre, non andava
trascurato che B. e L. dopo l’accesso ispettivo avevano ottenuto la
regolarizzazione come dipendenti del bar ristorante, per cui era palese il loro
successivo tentativo di sminuire le dichiarazioni rese nell’immediatezza dei
fatti. Ad ogni modo, L. e B. avevano anche dichiarato in giudizio, come da
verbali di udienza, di “confermare integralmente” le dichiarazioni
rese in sede ispettiva. Ciò posto, già l’esame dei contratti 2 novembre 2004 e
23 ottobre 2006 per la B. nonché 1 dicembre 2004 e 20 novembre 2006 per il L.,
prodotti in atti, denotavano che le pattuizioni intervenute non contenevano un
adeguato progetto secondo il significato richiesto dagli articoli 61 e seguenti del decreto
legislativo n. 276 nel 2003, secondo il testo all’epoca vigente, laddove la
richiesta specificità del progetto (rispetto al funzionamento ordinario dell’attività
commerciale o produttiva), doveva coincidere con una originalità connessa alla
realizzazione di un circoscritto programma per l’esecuzione del quale il
collaboratore doveva poter disporre anche di una certa autonomia di mezzi e di
iniziativa. Siffatti caratteri non potevano farsi coincidere con la mera
flessibilità dell’orario di lavoro nell’ambito di determinate fasce temporali
ovvero con i minimi margini di autonomia e di inventiva ricompresi nelle comuni
mansioni di un pasticcere, di un pizzaiolo ovvero di una commessa che dispone i
pezzi dolci e salati nella vetrina di un bar (attività manuale quest’ultima, di
cui pur non negandosi l’aspetto creativo, comunque non assurgeva fino al
connotati del “progetto”). Quanto alla B., l’Ideazione e la consulenza
per la preparazione di vetrine risultavano essere un programma eccessivamente
generico se riferito ad un bar ristorante di limitate dimensioni e ad un arco
temporale protrattosi dal 2004 il 2008. Infatti, il progetto stesso, per come
era stato attuato in concreto, riguardava in pratica il mero rifornimento degli
alimenti stessi da prelevare In cucina e trasportare fino alle vetrine e al
banco, e la somministrazione degli stessi alla clientela con mansioni effettive
di banconiera da parte della B.. L’asserita autonomia si risolveva quindi in
una certa qual e elasticità di orario (anche se la lavoratrice aveva comunque
riferito di aver sempre lavorato per lo più al mattino e di aver concordato via
via qualche sostituzione per la sera ovvero per il pomeriggio). Non vi era in
questo caso alcun effettivo progetto programma da realizzare con margini di
autonomia, se non lo scopo di assicurare il servizio di ristorazione e del bar.
La teste M., d’altro canto, aveva riferito che il titolare A.P. era costantemente
presente nel locale e sovrintendeva e controllava tutta l’attività produttiva e
commerciale, come da verbale di udienza 15 febbraio 2010. Dal canto suo, il L.
– assunto come esperto pasticcere già ultracinquantenne – apportava ovviamente
la propria esperienza professionale nell’espletare le sue mansioni, ma ciò non
valeva di per sé ad individuarlo come titolare di un progetto o di un programma
nel significato di cui ai succitato articolo
61. Egli stesso aveva riferito di aver sempre preparato i dolci e salati
necessari per il bar e di aver lavorato normalmente quattro ore al mattino a
partire dalle ore 6:00 – 6:30, orario che aveva mantenuto anche dopo la
regolare assunzione come dipendente. Ed il teste V.S. aveva dichiarato che gli
acquisti delle materie prime venivano decisi dal titolare, il quale dava
disposizioni a L.. Secondo la Corte territoriale, quindi, non valeva certo a
realizzare un programma il fatto che i L., per la sua esperienza maturata nelle
mansioni, suggerisse di realizzare un dolce piuttosto che un altro. Sia per B.
che per L. l’asserito progetto si risolveva nella mera enfatizzazione da parte
dell’ appellata delle comuni mansioni rispettivamente di banconiera e di
pasticcere. Del tutto marginale, se non inesistente, era stata l’attività
formativa che L. avrebbe svolto nei confronti del suddetto V.. Quest’ultimo
aveva lealmente ammesso di non aver mai conseguito la qualifica di pasticcere e
di fare soltanto le mansioni di pizzaiolo. Anche per il L., dunque, si rivelava
inesistente il progetto nel significato richiesto dalla legge, mancando
qualsiasi autonomia di iniziativa e di originalità di programma, che non fosse
quella della preparazione quotidiana di pezzi dolci e salati per il bar ristorante
secondo il fabbisogno giornaliero. Né si potevano enfatizzare le periodiche
riunioni per discutere dei problemi di lavoro. Anche in questo caso si
confondeva un generico programma “per verificare l’andamento del
lavoro” con la distinta figura del progetto richiesto dal decreto legislativo n. 276 secondo il testo
vigente negli anni dai 2004 al 2008. Pertanto, secondo la Corte fiorentina, la
mancanza di un valido progetto comportava ex lege, art. 69 cit., l’instaurarsi di un
rapporto di lavoro subordinato in forza della presunzione legale. Di
conseguenza, non poteva condividersi il cenno che il Tribunale aveva fatto ad
un asserito lavoro comunque autonomo, in quanto l’assenza di valido progetto
non lasciava spazio ad un tertium genus di collaborazione coordinata e
continuativa, in questo divieto risolvendosi la nota peculiarità della legge
del 2003;

vanno pertanto senz’altro rigettati le prime tre
censure di ricorso, riferite agli errores in procedendo ivi denunciati, laddove
in primo luogo non risultano compiutamente riprodotti, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 366 co. I n. 6 c.p.c., i
motivi dell’appello a suo tempo proposto dall’I.N.P.S., mentre la Corte
distrettuale ha evidentemente, sia pure in modo implicito e sintetico,
giudicato ritualmente interposto il gravame, nella parte in cui aveva osservato
che la riforma della pronuncia di primo grado era stata chiesta sul rilievo che
il tribunale non aveva adeguatamente esaminato e valutato il materiale
probatorio esistente agli atti (v. Cass. sez. 6-1, ordinanza n. 23834 del
25/09/2019: in tema di ricorso per cassazione, l’esercizio del potere di esame
diretto degli atti del giudizio di merito, riconosciuto alla S.C. ove sia
denunciato un “error in procedendo”, presuppone l’ammissibilità del
motivo, ossia che la parte riporti in ricorso, nel rispetto del principio di
autosufficienza, gli elementi ed i riferimenti che consentono di individuare,
nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio suddetto, così da
consentire alla Corte di effettuare il controllo sul corretto svolgimento dell’
“iter” processuale senza compiere generali verifiche degli atti.
Conforme Cass. n. 11738 del 2016. Cfr. anche Cass. Sez. 6 – 5,ordinanza n. 1479
del 22/01/2018, secondo cui i motivi per i quali si chiede la cassazione della
sentenza non possono essere affidati a deduzioni generali e ad affermazioni
apodittiche, con le quali la parte non prenda concreta posizione, articolando
specifiche censure esaminabili dal giudice di legittimità sulle singole
conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla fattispecie decisa.
Invero, il ricorrente – incidentale, come quello principale – ha l’onere di indicare
con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in
quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di
cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il
“devolutum” della sentenza impugnata, con la conseguenza che il
requisito in esame non può ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per
cassazione – principale o incidentale – sia basato sul mero richiamo dei motivi
di appello, una tale modalità di formulazione del motivo rendendo impossibile
individuare la critica mossa ad una parte ben identificabile del giudizio
espresso nella sentenza impugnata, rivelandosi del tutto carente nella
specificazione delle deficienze e degli errori asseritamente individuabili
nella decisione. Conforme Cass. n. 10420 del 2005.

V. inoltre Cass. II civ. n. 18674 del 12/09/2011,
secondo cui qualora l’atto d’appello denunci l’erronea valutazione, da parte
del giudice di primo grado, degli elementi probatori acquisiti o delle
conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, è sufficiente, al fine
dell’ammissibilità dell’appello, l’enunciazione dei punti sui quali si chiede
al giudice di secondo grado il riesame delle risultanze istruttorie per la
formulazione di un suo autonomo giudizio, non essendo richiesto che l’impugnazione
medesima contenga una puntuale analisi critica delle valutazioni e delle
conclusioni del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ovvero l’espressa
indicazione delle questioni decisive non esaminate o non correttamente
esaminate. Conforme Cass. n. 16190 del 2004. Inoltre, Cass. IlI civ. n. 15790
del 29/07/2016 ha avuto modo di precisare che la specificità dei motivi di
appello va commisurata all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese
dal primo giudice. Per altro verso, Cass. IlI civ. con l’ordinanza n. 11197 del
24/04/2019 ha chiarito che l’appello, nei limiti dei motivi di impugnazione, è
un giudizio sul rapporto controverso e non sulla correttezza della sentenza
impugnata, sicché rispetto ad esso non è quindi concepibile alcun rapporto di
autosufficienza ma solo di specificità, che presuppone la specificità della
motivazione della sentenza impugnata, per cui ove manchi quest’ultima, non è
esigibile dall’appellante, che intenda dolersi del rigetto in primo grado delle
sue istanze istruttorie, altro onere se non quello di riproporre l’istanza o la
domanda immotivatamente rigettata.

Del resto, l’appello, a differenza che per il
ricorso per cassazione in relazione al quale opera specificamente l’art. 366 c.p.c., non richiede per la sua validità
il requisito dell’autosufficienza. Cfr. sul punto Cass. II civ. n. 7675 del
19/03/2019: non può considerarsi aspecifico e deve, quindi, essere dichiarato
ammissibile, il motivo d’appello che esponga il punto sottoposto a riesame, in
fatto ed in diritto, in modo tale che il giudice sia messo in condizione -senza
necessità di esplorare, in assenza di parametri di riferimento, le vicende
processuali – di cogliere natura, portata e senso della critica, non occorrendo,
tuttavia, che l’appellante alleghi e, tantomeno, riporti analiticamente le
emergenze di causa rilevanti, le quali risultino investite ed evocate non
equivocamente dalla censura, diversamente da quel che è previsto per
l’impugnazione a critica vincolata. V. ancora Cass. sez. un. civ. n. 27199 del
16/11/2017: gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla I. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso
che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara
individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata
e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una
parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo
giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la
redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di
primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris
instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità
rispetto alle impugnazioni a critica vincolata);

alla stregua, inoltre, delle anzidette coerenti e
logiche nonché chiare argomentazioni contenute della sentenza impugnata, che
non risulta aver trascurato alcuna significativa circostanza fattuale, la
motivazione dell’impugnata pronuncia risulta del tutto adeguata e sufficiente
secondo il minimo costituzionale a tale scopo occorrente, non rilevando per
contro ex art. 360 n. 5 c.p.c. al riguardo le
emergenze istruttorie, di cui la ricorrente assume l’omessa considerazione,
tenuto conto invece dell’articolato e complessivo ragionamento decisorio in
fatto ed in diritto operato dalla Corte di merito, soprattutto per quanto
concerne l’inconsistenza dei progetti in questione. D’altro canto, nemmeno
rileva l’asserita identità della posizione relativa alla sig.ra M., laddove nella
specie interessava esclusivamente l’azione di accertamento negativo delle
pretese contributive vantate dall’I.N.P.S. soltanto per i lavoratori B. e L.,
sicché il ragionamento decisorio in proposito effettuato non può esser
contestato, né svilito con riferimento ad in terzo, per il quale l’ente
previdenziale non abbia (nell’ambito delle sue scelte eminentemente
discrezionali) in sede di accertamento ammnistrativo ritenuto di non accampare
analoghe pretese;

deve, pertanto, ribadirsi il principio secondo cui
in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il
controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla
revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale
giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò
si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli
elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto,
come tale insindacabile in sede di legittimità (v. tra le altre Cass. I civ. n.
16526 del 5/8/2016. Cfr. altresì Cass. IlI civ. n. 5066 del 5/3/2007: il
ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi della motivazione
della sentenza, deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune
nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione – o il capo di essa –
censurata, ovvero la specificazione di illogicità, o ancora la mancanza di
coerenza fra le varie ragioni esposte, e quindi l’assoluta incompatibilità
razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi, mentre non può
farsi valere il contrasto dell’apprezzamento dei fatti compiuto dal giudice di
merito con il convincimento e con le tesi della parte, poiché, diversamente
opinando, il motivo di ricorso di cui all’art. 360
n. 5 cod. proc. civ. finirebbe per risolversi in una richiesta di sindacato
del giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice di merito.

V. inoltre, più
recentemente, Cass. II civ. n. 27415 del 29/10/2018, secondo cui l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012,
conv. in I. n. 134 del 2012, introduce
nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo
all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito
oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, di guisa che
l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di
omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa,
sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza
non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Analogamente, secondo Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014,
secondo cui inoltre, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, co. II, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente
deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il
“dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il
“come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di
discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo
restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il
vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante
in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Inoltre,
secondo le Sezioni unite di aprile 2014, la succitata riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., va
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al
“minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla
motivazione. Di conseguenza, è denunciarle in cassazione soltanto l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il
vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto
con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione
apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione.

V. altresì Cass. Sez. 6-5, ordinanza n. 13977 del
23/05/2019: ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza,
denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c. quando essa, benché graficamente esistente, non
renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante
argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito
dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare
all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche,
congetture. In senso conforme Cass. sez. un. n. 22232 del 2016);

tanto precisato, vanno disattese le altre rimanenti
censure, dovendosi considerare esaurienti, in fatto ed in diritto, le
surriferite argomentazioni in base alle quali gli anzidetti progetti non
risultavano validi secondo la disciplina di cui al d.lgs.
n. 276/2003, ancorché in base al testo nella specie ratione temporis
applicabile, dovendosi richiamare in proposito la giurisprudenza di questa
Corte formatasi in materia, di modo che finiscono anche con l’essere
irrilevanti le emergenze istruttorie, una volta confermata la presunzione
assoluta della subordinazione nel caso di progetto non rispondente ai requisiti
di legge per potersi considerare specifico, secondo le conclusioni cui del
resto è pervenuta la Corte territoriale nello specifico caso in esame [cfr. tra
le altre Cass. lav. di cui all’ordinanza n. 9471 del 23/01 – 4/4/2019, che
rigettava analogo ricorso avverso altra pronuncia della Corte d’Appello di
Firenze, affermando tra l’altro il principio che in tema di contratto a
progetto il regime sanzionatorio previsto dall’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276
del 2003 – nel testo “ratione temporis” applicabile, anteriore
alle modifiche apportate dalla I. n. 92 del 2012
– in caso di assenza di specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso
– determinante l’automatica conversione a tempo indeterminato, con applicazione
delle garanzie del lavoro dipendente e senza necessità di accertamenti
giudiziali sulla natura del rapporto – non contrasta con il principio di
“indisponibilità del tipo”, posto a tutela del lavoro subordinato e non
invocabile nel caso inverso, né con l’art. 41,
comma 1, Cost., in quanto trae origine da una condotta datoriale violativa
di prescrizioni di legge ed è coerente con la finalità antielusiva perseguita
dal legislatore. Nella specie ivi esaminata il giudice di primo grado aveva
accolto le opposizioni proposte avverso cartelle esattoriali aventi ad oggetto
richieste di contributi sulla base di verbali di accertamento della Direzione
provinciale del lavoro, che aveva qualificato una serie di collaborazioni a
progetto aventi ad oggetto lo svolgimento di attività di operatori di cali
center come prestazioni di lavoro subordinato. La Corte d’Appello fiorentina in
accoglimento delle restanti impugnazioni, proposte dall’I.N.P.S., aveva invece rigettato
le opposizioni, argomentando che per la specificità del progetto ai sensi degli
articoli 61 e 69 del d.lgs. n. 276 del 2003
occorreva che questo, pur potendo avere ad oggetto attività rientranti nel
normale ciclo produttivo dell’impresa e non necessariamente caratterizzato
dalla straordinarietà ed occasionalità, doveva pur sempre distinguersi da essa,
costituendo un obiettivo od un tipo di attività che si affianca all’attività
principale senza confondersi con essa, ancorché con essa coordinandosi come suo
aspetto specifico o particolare. Per la cassazione della sentenza d’appello i
soccombenti avevano proposto ricorso, lamentando tra l’altro con il primo
motivo, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.,
la violazione dell’ art. 434 c.p.c. senza che
la Corte di merito avesse ritenuto l’inammissibilità del gravame, identico alla
memoria di costituzione depositata dall’I.N.P.S. in primo grado. Come secondo
motivo era stata dedotta la violazione dell’art. 61 comma 1 del d.lgs. n. 276 del
2003 nel testo applicabile ratione temporis, mentre la Corte territoriale
aveva ritenuto l’invalidità dei progetti per la loro coincidenza con l’oggetto
dell’impresa, richiamando anche la riforma del 2012, tuttavia inapplicabile
alla fattispecie. Come terzo motivo era stata inoltre dedotta la violazione e
falsa applicazione dell’art. 69
del d.lgs. n. 276 del 2003 in ordine alla opinata inesistenza di un
progetto conforme alle prescrizioni dell’articolo 61 dello stesso decreto,
donde la contestata operatività di una presunzione assoluta di lavoro
subordinato. Come quarto motivo era stata invece dedotta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2094 e 2222 c.c., per aver la Corte d’Appello avrebbe
errato nel ravvisare la subordinazione.

Quindi, con la suddetta ordinanza n. 9471/19
rigettava il primo motivo in base ad argomentazioni analoghe a quelle sopra
enunciate. Parimenti, venivano disattese nei seguenti termini, qui per intero
condivisi, le ulteriori censure: <<…Occorre premettere che nel caso
opera la definizione legale del contratto a progetto fornita dall’art. 61 D.lgs. 276/2003 nel testo
originario (poi sostituito daII’art.
1 comma 23 lettera a) della I. n. 92 del 2012, modificato dall’art. 24 bis comma 7 del d.l. n. 83
del 2012 conv. in I. n. 134 del 2012 ed
ancora dall’art. 7 comma 2 lettera
c) del d.l. n. 76 del 2013 conv. in I. n. 99
del 2013 ed infine, abrogato dall’art.52 del d.lgs. 81 del 2015 di
attuazione del c.d. Jobs Act) in base al quale per la configurazione della
fattispecie, oltre alla presenza di tutti i caratteri della già nota figura
delle collaborazioni continuative e coordinate, è necessaria la riconducibilità
dell’attività “a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi
di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore
in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione
del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione
dell’attività lavorativa”. 13. Questa Corte, con riferimento al medesimo
testo della disposizione, ha chiarito (Cass. n. 24739 del 2017, Cass. n. 10135 del 26.4.2018) che la nozione di
specifico progetto”, quale deriva dall’ esegesi normativa, deve ritenersi
consistere – tenuto conto delle precisazioni introdotte nell’art. 61 cit. dalla I. n. 92 del 2012 – in un’attività produttiva
chiaramente descritta ed identificata e funzionalmente ricollegata ad un
determinato risultato finale, cui partecipa con la sua prestazione il
collaboratore, precisando tuttavia che la norma non richiede che il progetto
specifico debba inerire ad una attività eccezionale, originale o del tutto
diversa rispetto alla ordinaria e complessiva attività di impresa. 14. Il
progetto concordato non può comunque consistere nella mera riproposizione
dell’oggetto sociale della committente, e dunque, nella previsione di
prestazioni, a carico del lavoratore, coincidenti con l’ordinaria attività
aziendale (Cass. n. 17636 del 06/09/2016), in
quanto i termini in questione non possono che essere intesi – pena il
sostanziale svuotamento della portata della norma – come volti ad enucleare il
contenuto della collaborazione in un quid distinto dalla mera messa a
disposizione di energie lavorative nell’attuazione delle ordinarie attività
aziendali.

15. Né diversa interpretazione potrebbe attribuirsi
all’espressa possibilità (successivamente venuta meno) che il progetto si
riferisca ad una “fase” del lavoro, considerato che è proprio il
riferimento ad una porzione, ad un ben individuato segmento dell’attività
produttiva, che vale a connotare il progetto di una sua individualità rispetto
ad essa. 16. Risulta dunque corretta la statuizione della Corte di merito,
basata sulla ritenuta assenza di un valido progetto per la sua coincidenza con
l’ordinaria attività aziendale, nell’accertato difetto di alcuna distinzione
qualitativa, quantitativa o temporale, rispetto ad essa. 17. Il riferimento
operato in sentenza alle modifiche apportate dalla I. n. 82 del 2012 non è
stato poi determinante della decisione, in quanto la stessa Corte ribadisce che
essa è inoperante ratione temporis, pur aggiungendo che conforta l’opzione
interpretativa già desumibile dal testo precedente. 18. Infondato è parimenti
il terzo motivo: l’assenza del progetto di cui all’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276
del 2003, che rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie,
ricorre sia quando manchi la prova della pattuizione di alcun progetto, sia
allorché il progetto, effettivamente pattuito, risulti privo delle sue
caratteristiche essenziali, quali la specificità e l’autonomia (Cass. n. 8142 del 29/03/2017). 19. La
disposizione (nella versione “ratione temporis” applicabile,
antecedente le modifiche di cui all’art.
1, comma 23, lett. f) della I. n. 92 del 2012), si interpreta poi nel senso
che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato
senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di
esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia
esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad
automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato,
sin dalla data di costituzione dello stesso (Cass.
n. 17127 del 17/08/2016 e, ancora da ultimo, Cass.
n. 28156 del 5/11/2018). 20. I dubbi di compatibilità costituzionale
prospettati dai ricorrenti trovano adeguata soluzione solo osservandosi che nel
caso non vengono sottratti al giudice i poteri di qualificazione del rapporto,
ma viene introdotta una sanzione che consiste nell’applicazione al rapporto
delle garanzie del lavoro dipendente. La Corte Costituzionale, con le sentenze
25 marzo 1993, n. 121 e 23 marzo 1994, n. 115
ha escluso che rispettivamente il legislatore o le parti possano imporre
presunzioni o qualificazioni contrattuali di autonomia che sottraggono alle
indefettibili garanzie del lavoro subordinato una fattispecie che come tale si
realizza. Il principio di “indisponibilità del tipo” è stato quindi
dettato ai fine di evitare sottrazioni di tutele al lavoro subordinato, ed è
sorretto da una ragione verosimilmente univoca e non invocabile nel caso
inverso. D’altra parte, il nostro ordinamento non è estraneo alla previsione
dell’applicazione delle regole del lavoro subordinato come sanzione in caso di
violazioni, elusioni, abusi di determinate forme di contratti di lavoro (v. artt. 1 c. 5 della L. 1369/1960,
1 della L. 230 del 1962).
21. La previsione non può infine ritenersi in contrasto con l’art. 41 Cost. I comma, in quanto trae origine da
una condotta posta in essere dal datore di lavoro e violativa di prescrizioni
di legge, né inadeguata, essendo coerente con il fine del legislatore, di
perimetrare il potere di stipulare contratti a progetto per evitare l’elusione
delle tutele predisposte per il lavoro subordinato. 22. Le considerazioni che
precedono determinano l’assorbimento del quarto motivo, escludendo
l’accoglimento del terzo la necessità di indagare in ordine alle effettive
modalità con cui si è realizzato il rapporto di lavoro. >>. In senso
analogo si è pronunciata questa Corte anche con l’ordinanza n. 12647 del
5/2-13/05/2019 rigettando il ricorso contro l’impugnata pronuncia resa dalla
Corte di Appello di Roma, di riforma della sentenza di primo grado, con
riferimento a rapporto di lavoro instauratosi quantomeno dall’ottobre 2004,
epoca della sottoscrizione del contratto stipulato per la durata di un anno, di
collaborazione per la prestazione di opera artistica e professionale senza
vincolo di subordinazione per fornire consulenza, contratto in seguito
prorogato sino al 14 ottobre 2006. Successivamente venne sottoscritto un altro
contratto con scadenza maggio 2007, qualificato di lavoro autonomo per lo
svolgimento del ruolo di presentatore televisivo. Non era stata condivisa la
soluzione del primo giudice di escludere la collaborazione coordinata e
continuativa dell’attività professionale prestata dall’attore. Soprattutto per
evitare gli abusi cui tale figura aveva dato luogo, il legislatore intervenuto
con il d.lgs. 276 del 2003 (e ancora più
recentemente con la legge n. 92 del 2012), con
l’art. 61, comma 1. Dalla
lettura delle pattuizioni contrattuali inserite nell’accordo del 18 ottobre
2004 emergeva lo stabile e continuo inserimento nell’organizzazione aziendale e
il coordinamento con la stessa, nonché il carattere personale della
prestazione. Il rapporto intercorso tra le parti andava dunque qualificato come
collaborazione coordinata e continuativa, con conseguente operatività della
disposizione di cui all’art. 61
d.lgs. 276 del 2003, che al primo comma sancisce l’obbligo legale di
ricondurre detta collaborazione nell’ambito di un progetto, obbligo rimasto
però inadempiuto per l’intera durata del rapporto. Trovava così applicazione l’art. 69, comma 1, circa una
presunzione assoluta della natura subordinata del rapporto di lavoro,
trattandosi di una vera e propria sanzione per il caso di mancata
riconducibilità del rapporto coordinato e continuativo ad uno specifico
progetto o programma, stante la finalità antielusiva e antifrodatoria della
disciplina. Una volta accertata la violazione, non era quindi nemmeno
ammissibile un accertamento volto a verificare se la prestazione si fosse in
concreto svolta secondo i canoni della subordinazione in quanto, accertata
l’assenza dell’elemento qualificante il nuovo tipo legale, automaticamente
operava la conversione del contratto e si applica ope legis la integrale
disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Non poteva accogliersi la tesi
secondo cui l’assenza del progetto comporterebbe una mera presunzione semplice
della subordinazione. La fattispecie sanzionatoria di cui al primo comma dell’art. 69 citato operava
automaticamente di diritto la conversione del contratto di lavoro a progetto in
caso di assenza di un “progetto, programma o fase di programma”, alla
luce la previsione normativa anteriore alla riforma introdotta legge 92 del 2012, cui la controversia era
sottratta ratione temporis. Una diversa opzione interpretativa sarebbe stata
del tutto incoerente con il complessivo assetto della nuova disciplina e tale
da tradire la sua impronta antielusiva e antifrodatoria, pure considerato che
la Corte costituzionale nella sentenza n. 399 del 2008 aveva affermato che la
novità introdotta dalla riforma era proprio quella di vietare rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa che, pur avendo ad oggetto genuine
prestazioni di lavoro autonomo, non siano riconducibili ad un progetto. Secondo
la Corte capitolina, la soluzione ermeneutica adottata traeva ulteriore
conferma dalla circostanza che la legge
n. 92 del 2012, all’art. 1, comma 24, aveva dettato una norma di
interpretazione autentica dell’art.
69, comma 1, d.lgs. 276 del 2003, prevedendo che tale disposizione si
intendeva nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituiva
elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa, la cui mancanza determinava la costituzione di rapporti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, mentre il successivo comma 25, secondo cui
la disposizione anzidetta si applicava ai contratti stipulati successivamente
all’entrata in vigore della norma, non incideva sulla natura della presunzione
-assoluta – dettata dalla norma interpretata, ma sulla introduzione di una
regola espressa di validità del contratto. Per la cassazione di tale sentenza
la società soccombente aveva proposto ricorso affidato a quattro motivi, con il
primo denunciando plurime violazioni di legge – artt.
2697 e 416 cod. proc. civ., art. 2222 cod. civ. e art. 61 d.lgs. n. 276 del 2003; art. 1362 cod. civ. – e omesso esame di elementi
decisivi della controversia, oggetto di discussione tra le parti.

Con il secondo motivo, veniva lamentata la
violazione dell’art. 69 d.lgs. n.
276 del 2003 per avere la Corte territoriale ritenuto che il primo comma di
tale articolo, nella formulazione vigente prima delle modifiche apportate dalla
legge 92 del 2012, avesse introdotto un
principio di presunzione assoluta – e non semplice – circa la natura
subordinata del rapporto di lavoro in caso di mancanza di un progetto
specifico, e ciò anche con riguardo ai contratti riconducibili a fattispecie di
lavoro autonomo. Il terzo motivo denunciava violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 24 della Costituzione, nonché dell’art. 2103 cod. civ.. Infine, la quarta censura
riguardava il preteso omesso esame di circostanze decisive in relazione alla
cessazione del rapporto di lavoro. Le anzidette doglianze venivano però
respinte siccome infondate, in particolare nei seguenti termini: <<…La
tesi della società ricorrente omette di considerare la ratio e la finalità
della disciplina introdotta dagli artt.
61 e segg. d.lgs. 276 del 2003. Secondo la Corte costituzionale (sent. n. 399 del 2008), il d.lgs. n. 276 del 2003 ha introdotto una
disciplina restrittiva per il particolare tipo di lavoro autonomo costituito
dalle collaborazioni coordinate e continuative. Al di fuori delle eccezioni
previste dall’art. 1, comma 2,
e dall’art. 61, commi 1, 2 e 3,
questo tipo di contratto può essere stipulato solamente se sia riconducibile ad
uno o più progetti specifici o a programmi di lavoro o fasi di esso determinati
dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore (art. 61, comma 1). La novità così
introdotta a regime dal d.lgs. n. 276 del 2003
è quella di vietare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che,
pur avendo ad oggetto genuine prestazioni di lavoro autonomo, non siano però
riconducibili ad un progetto.

7.3. Come correttamente ritenuto nella sentenza
impugnata, l’art. 69, comma 1,
costituisce una norma che sanziona la violazione del disposto dell’art. 61, comma 1, d.lgs. 276 del 2003,
il quale ha introdotto nell’ordinamento giuridico un comando inderogabile, che
impone ai privati, salve le deroghe legalmente ammesse (art. 61, commi 2 e 3), di
servirsi esclusivamente del lavoro a progetto per regolare ogni forma di lavoro
autonomo e coordinato, sicché il divieto di rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa, ancorché genuinamente autonomi, ma privi di progetto
risulta giustificato dalla loro contrarietà alla norma imperativa che prescrive
l’obbligo di servirsi del nuovo tipo legale (art.
1418, comma 1, cod. civ.). In assenza dell’elemento qualificante del nuovo
tipo contrattuale, opera la conversione del contratto e trova applicazione
integrale la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

7.4. Del pari, è condivisibile l’ulteriore
considerazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il meccanismo
di conversione legale risulta comune ad altre ipotesi in cui il legislatore non
si limita a prevedere la mera nullità ex art. 1418,
comma 1, cod. civ., ma, in considerazione della peculiarità degli interessi
da tutelare, modificando lo schema causale scelto dalle parti, lo trasforma in
un contratto con causa tipica differente, prescindendo dal giudizio di
comparazione tra io scopo originario e lo scopo realizzabile mediante il
contratto convertito. … Quanto poi all’accertamento, su cui la sentenza si
fonda, della natura della prestazione, ritenuta integrante una forma di
collaborazione coordinata e continuativa, ossia una fattispecie rientrante
nell’alveo dell’art. 409 n.3 cod. proc. civ., è
sufficiente rilevare che trattasi di un accertamento di merito condotto dalla
Corte territoriale alla stregua delle risultanze documentali e testimoniali, di
cui la sentenza ha dato conto… 10.1. Il regime di cui all’art. 69, primo comma, del d.lgs. n.
276 del 2003 sanziona il rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa instaurato senza l’individuazione dì uno specifico progetto,
realizzando un caso di c.d. conversione del rapporto ope legis, restando priva
di rilievo l’appurata natura autonoma dei rapporti in esito all’istruttoria (Cass. n. 12820 del 2016). Si è in presenza di
un’ipotesi di presunzione assoluta, che non richiede quindi alcun ulteriore
accertamento istruttorio: una volta ritenuta sussistente un’ipotesi di
collaborazione coordinata e continuativa in assenza di specifico progetto,
opera la conversione de iure del rapporto (v. pure Cass.
n. n. 17127 del 2016; v. pure, Cass. n. 4337
del 2018). Analoghe argomentazioni si rinvengono pure nell’ordinanza di
questa Corte n. 9483 del 5/02 – 4/4/2019, laddove veniva in particolare pure
disatteso il primo motivo di ricorso, laddove si denunciava violazione e falsa
applicazione dell’articolo 69
d.lgs. 276/03 in relazione agli artt. 24 e 25 legge
n. 92 del 2012, per avere la Corte territoriale ritenuto che, in assenza di
un valido progetto o programma, operasse una presunzione assoluta – juris et de
iure – anziché una presunzione semplice -juris tantum- in fattispecie regolata
dalla disciplina legale anteriore alla legge n.
92/2012: <<…3.1. Premesso che l’argomento utilizzato nella sentenza
impugnata riguardo alla norma di interpretazione autentica introdotta dall’art. 1, comma 24, della legge 92 del
2012 ha una valenza meramente rafforzativa e confermativa di una lettura
che la Corte territoriale ha già ritenuto presente nel sistema di cui al d. lgs. n. 276/2003, l’interpretazione e
l’applicazione dell’art. 69, comma
1, d.lgs. 276 del 2003 alla fattispecie è conforme alla giurisprudenza di
questa Corte. … 3.2. Con orientamento che qui si intende confermare, è stato
affermato che il regime sanzionatorio articolato dall’art. 69 del d.lgs. n. 276 del 2003,
pur imponendo in ogni caso l’applicazione della disciplina del rapporto di
lavoro subordinato, contempla due distinte e strutturalmente differenti
ipotesi, atteso che, al comma 1, sanziona il rapporto di collaborazione
coordinata e continuativa instaurato senza l’individuazione di uno specifico
progetto, realizzando un caso di c.d. conversione del rapporto ope legis,
restando priva di rilievo l’appurata natura autonoma dei rapporti in esito
all’istruttoria, mentre al comma 2 disciplina l’ipotesi in cui, pur in presenza
di uno specifico progetto, sia giudizialmente accertata, attraverso la
valutazione del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione del
contratto, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato in
corrispondenza alla tipologia negoziale di fatto realizzata tra le parti (Cass. n. 12820 del 2016). In particolare, quanto
alla fattispecie di cui al primo comma dell’art. 69 del d.lgs. n. 276 del 2003
(ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui
all’art. 1, comma 23, lett. f)
della I. n. 92 del 2012), questa Corte ha precisato che tale norma si
interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto,
programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a
verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o
della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso
(Cass. n. 17127 del 2016; v. pure, Cass. n. 4337 del 2018). 3.3. Secondo la Corte
costituzionale (sent. n. 399 del 2008), il d.lgs. n. 276 del 2003 ha introdotto una
disciplina restrittiva per il particolare tipo di lavoro autonomo costituito
dalle collaborazioni coordinate e continuative. Al di fuori delle eccezioni
previste dall’art. 1, comma 2,
e dall’art. 61, commi 1, 2 e 3,
questo tipo di contratto può essere stipulato solamente se sia riconducibile ad
uno o più progetti specifici o a programmi di lavoro o fasi di esso determinati
dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore (art. 61, comma 1)…. 3.4. Del
pari è condivisibile l’ulteriore considerazione, contenuta nella sentenza
impugnata, secondo cui il meccanismo di conversione legale risulta comune ad
altre ipotesi in cui il legislatore non si limita a prevedere la mera nullità
ex art. 1418, comma 1, cod. civ., ma, in
considerazione della peculiarità degli interessi da tutelare, modificando lo
schema causale scelto dalle parti, lo trasforma in un contratto con causa
tipica differente, prescindendo dal giudizio di comparazione tra lo scopo
originario e lo scopo realizzabile mediante il contratto convertito. Parimenti,
v. pure Cass. lav. n. 5418 del 18/10/2018 – 25/02/2019, secondo cui la
definizione legale di cui all’art.
61 del d.lgs. n. 276 del 2003 richiede la riconducibilità dell’attività ad
un progetto o programma specifico – senza alcuna differenza concettuale tra i
due termini – il cui contenuto, sebbene non inerente ad una attività
eccezionale, originale o del tutto diversa rispetto alla ordinaria attività di
impresa, sia comunque suscettibile di una valutazione distinta da una
“routine” ripetuta e prevedibile, dettagliatamente articolato ed
illustrato con la preventiva individuazione di azioni, tempi, risorse, ruoli e
aspettative di risultato, e dunque caratterizzato da una determinata
finalizzazione, anche in termini di quantità e tempi di lavoro. Nella specie,
quindi, è stata cassata la decisione di merito che aveva ritenuto sufficiente
ad integrare il requisito distintivo del progetto la riferibilità dell’attività
di arredatore svolta dal ricorrente ad una specifica produzione televisiva. …
è ormai consolidato l’orientamento di questa Corte secondo cui in tema di
lavoro a progetto, l’art. 69,
comma 1, del d.lgs. n. 276/2003 (ratione temporis applicabile, nella versione
antecedente le modifiche di cui all’art.
1, comma 23, lett. f) della I. n. 92/2012), si interpreta nel senso che,
quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato
senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di
esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia
esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad
automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato,
sin dalla data di costituzione dello stesso; tale condivisibile orientamento
appare aderente alla sentenza n. 399/2008 con
la quale la Corte Costituzionale… vige, in sostanza, una presunzione assoluta
della subordinazione in caso di mancanza di tale specifico progetto, programma
di lavoro o fase di esso del progetto; … >>]; pertanto, il ricorso va
rigettato, tuttavia senza regolamento delle relative spese, visto che l’I.N.P.S.
è rimasto intimato, essendosi limitato a depositare soltanto procura speciale
in calce alla copia notificata del ricorso stesso;

atteso, comunque, l’esito negativo dell’impugnazione
de qua, sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater del d.P.R. n.
115/02.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 luglio 2020, n. 15108
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