Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 31 luglio 2020 n. 186

Straniero, Richiedenti protezione internazionale, Domanda di
iscrizione anagrafica, Requisiti, Previsione, introdotta con decreto-legge,
che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisce titolo per
l’iscrizione, Irrazionalità e irragionevole disparità di trattamento con
conseguente violazione della pari dignità sociale, Illegittimità
costituzionale

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Con ordinanza del 1° agosto 2019, iscritta al n.
145 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Milano, prima
sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto
legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE
recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione
internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai
fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale),
introdotto dall’art. 13, comma 1,
lettera a), numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113
(Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione,
sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero
dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per
l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, per violazione
degli artt. 2, 3,
10, 77, secondo
comma, 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art. 2, paragrafo 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso
esecutivo con il d.P.R. 14 aprile 1982, n. 217, che riconosce taluni diritti e
libertà diversi da quelli che figurano già nella convenzione e nel suo primo
protocollo addizionale, nonché in relazione agli artt. 14 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e 26 del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16
dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo
con legge 25 ottobre 1977, n. 881. 

1.1.- Il rimettente premette di essere stato
investito di un ricorso ai sensi dell’art.
28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni
complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e
semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo
54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), dell’art. 44 del decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) e
dell’art. 702-bis del codice di procedura civile,
promosso da A. H., richiedente asilo, nei confronti del Comune di Milano e del
Ministero dell’interno, al fine di ottenere «la dichiarazione di invalidità e
l’accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto opposto dal Comune di
Milano alla iscrizione del ricorrente nell’anagrafe della popolazione
residente».

 In
particolare, il ricorrente ha chiesto di accertare il carattere discriminatorio
del diniego all’iscrizione anagrafica per violazione del principio di parità di
trattamento tra cittadini italiani e stranieri ai sensi dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n.
286 del 1998 e dell’art. 15
del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione
del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), nonché per violazione del
«principio paritario, sotto il profilo della nazionalità» (ai sensi dell’art. 3 Cost., dell’art. 14 CEDU e dell’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998).

Inoltre, «[i]n via autonoma», il ricorrente ha
chiesto di accertare l’illegittimità del rifiuto del Comune alla sua iscrizione
all’anagrafe dei residenti e di ordinare al Ministero dell’interno, e per esso
al Sindaco del Comune di Milano nella sua qualità di ufficiale del Governo per
l’esercizio delle funzioni di ufficiale dell’anagrafe, di procedere
all’iscrizione. Infine, «[q]ualora necessario», il ricorrente ha domandato la
previa rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità
dell’art. 4, comma 1-bis, del
d.lgs. n. 142 del 2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a),
numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018, in riferimento a una
pluralità di parametri costituzionali, anche in relazione a fonti
sovranazionali.

Nelle more dell’instaurazione del contraddittorio
nel giudizio a quo, hanno depositato un atto congiunto di intervento
l’Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) e l’Associazione
Avvocati per Niente Onlus, deducendo la natura collettiva della discriminazione
e aderendo alla prospettazione del ricorrente quanto alla natura
discriminatoria del diniego di iscrizione anagrafica. Nel giudizio a quo si
sono anche costituiti i convenuti resistenti Ministero dell’interno e Comune di
Milano.

1.2.- In merito all’interesse ad agire del ricorrente
nel giudizio principale, il rimettente afferma come esso, previsto quale
condizione dell’azione dall’art. 100 del codice di
procedura civile, secondo il consolidato orientamento della Corte di
cassazione debba essere identificato in «una situazione di carattere oggettivo
derivante da un fatto lesivo, inteso in senso ampio, di un diritto che, senza
l’intervento del giudice, resterebbe sfornito di tutela, con conseguente danno
per l’attore». Pertanto, tale interesse deve avere carattere attuale
«assurgendo a giuridica ed oggettiva consistenza».

 Nell’odierno
giudizio, il ricorrente vanterebbe «un effettivo interesse ad agire che
scaturisce dall’impossibilità di vedersi iscritto all’anagrafe del Comune in
cui ha stabilito la propria dimora abituale». In tal senso, l’intervento del
giudice sarebbe necessario per rimediare alla lesione del diritto soggettivo di
iscrizione anagrafica, cagionato dalla condotta dell’amministrazione. Nella
prospettiva del rimettente, la tutela di questo diritto assicurerebbe al
richiedente asilo «un’utilità ulteriore rispetto a quella derivante
dall’accesso ai servizi e dall’esercizio dei diritti  e delle facoltà rispetto alle quali
l’iscrizione all’anagrafe è strumentale». Quest’ultima sarebbe, infatti,
«direttamente collegata alla dignità personale e sociale dell’individuo, alla
sua capacità di identificazione, appartenenza e, in senso più ampio,
integrazione con la comunità locale, che a loro volta costituiscono passaggi
indispensabili per la concretizzazione del progetto fondante la nostra
Costituzione, ossia assicurare all’individuo – legalmente presente nel
territorio italiano – una vita libera e degna».

 Il giudice a
quo aggiunge, al riguardo, che la mancata iscrizione comporterebbe anche «un
immediato […] nocumento in capo al ricorrente laddove esclude a priori il
computo del periodo trascorso come richiedente asilo […] ai fini
dell’esercizio di tutti quei diritti che sono collegati alla durata della
residenza» (tra cui quelli all’acquisizione della cittadinanza, all’accesso
all’edilizia popolare e al cosiddetto reddito di cittadinanza). 

Il rimettente passa poi ad argomentare la presenza,
nel caso di specie, dei presupposti per l’esercizio dell’azione
antidiscriminatoria, richiamando, al riguardo, l’art. 43, commi 1 e 2, lettera a), del
d.lgs. n. 286 del 1998. Nell’odierna vicenda giudiziaria il diniego
dell’ufficiale dello stato civile di iscrizione anagrafica sarebbe
riconducibile a uno dei presupposti per l’esercizio dell’azione
antidiscriminatoria, «sussistendo un trattamento ingiustificatamente
differenziato in considerazione della nazionalità del richiedente
l’iscrizione». L’azione antidiscriminatoria sarebbe dunque «il corretto
contesto» in cui sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n.
142 del 2015, introdotto dall’art.
13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, convertito,
con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018;
infatti, l’eventuale accoglimento della questione «non solo priverebbe di
fondamento normativo l’azione dell’anagrafe comunale, ma costituirebbe
dimostrazione inconfutabile del carattere discriminatorio dell’azione
amministrativa».

 Il carattere
discriminatorio della condotta dell’ufficiale dello stato civile non sarebbe
escluso dal fatto che la mancata iscrizione anagrafica è prevista solo per i
richiedenti asilo e non per tutti gli stranieri, poiché «l’azione
amministrativa […] colpi[rebbe] sistematicamente solo ed esclusivamente degli
stranieri, proprio per il loro essere stranieri».

 Quanto alla
legittimazione passiva del Comune di Milano, il giudice a quo precisa che, a
fronte della congiunta evocazione in giudizio del Comune di Milano, in persona
del Sindaco pro tempore, e di questi, in qualità di ufficiale del Governo per
l’esercizio delle funzioni di ufficiale dell’anagrafe, il contraddittorio deve
ritenersi correttamente instaurato con quest’ultimo, a cui sono riferibili gli
atti compiuti in tale veste e quindi anche il diniego all’iscrizione
all’anagrafe dei residenti. Quanto alla legittimazione attiva delle
associazioni, il rimettente distingue l’intervento spiegato in via principale
come azione antidiscriminatoria collettiva ex art. 5 del decreto legislativo 9
luglio 2003, n. 215 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di
trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica)
– qualificato dalle parti alla stregua di un «intervento litisconsortile o
adesivo autonomo», rispetto al quale varrebbe l’eccezione del Ministero
dell’interno di assenza della giurisdizione del giudice ordinario – da quello
svolto come «mero intervento adesivo dipendente a sostegno delle domande
proposte dal [ricorrente]», che è reputato invece «pienamente ammissibile». In
merito al diritto vantato dal ricorrente, la qualificazione della pretesa
all’iscrizione anagrafica come diritto soggettivo deriverebbe dalla definizione
dell’ordinamento delle anagrafi della popolazione residente alla stregua di uno
«strumento giuridico-amministrativo di documentazione e conoscenza, predisposto
tanto nell’interesse dell’amministrazione, quanto nell’interesse dei privati».
Infatti, all’interesse pubblico alla conoscenza della popolazione residente si
affiancherebbe «l’interesse individuale ad ottenere le certificazioni
anagrafiche necessarie per l’esercizio dei diritti civili e politici e, in
generale, per provare la residenza e lo stato di famiglia» (in tal senso è
richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite, 19 giugno
2000, n. 449). 

Inoltre, l’iscrizione anagrafica non sarebbe solo un
diritto per il soggetto che ha dimora abituale in un Comune italiano, ma
costituirebbe un obbligo (ai sensi dell’art.
2 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, recante «Ordinamento delle
anagrafi della popolazione residente»), la cui violazione è punita con una
sanzione amministrativa (art. 11
della legge n. 1228 del 1954). Siffatto ragionamento sarebbe estensibile
anche agli stranieri, in virtù di quanto previsto dall’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del
1998.   Il regolamento di attuazione
del testo unico sull’immigrazione (d.P.R. n. 394 del 1999) prevede, all’art.
15, comma 1, che le iscrizioni e le variazioni anagrafiche dello straniero
regolarmente soggiornante sono effettuate nei casi e secondo i criteri previsti
dalla legge n. 1228 del 1954 e dal regolamento
anagrafico della popolazione residente. 

A sua volta, dalla legge
n. 1228 del 1954 si trarrebbe conferma dell’esistenza di un obbligo di
iscrizione anagrafica in capo ai migranti, poiché l’art. 11, comma 2, della
stessa dispone una specifica disciplina dell’ipotesi di violazione di questo
obbligo, prevedendo una sanzione amministrativa più elevata rispetto a quella
prevista per i cittadini italiani. L’obbligo di iscrizione anagrafica si
dedurrebbe anche dal regolamento di attuazione della suddetta legge (d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, recante
«Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente»),
il quale richiede allo straniero che trasferisce la sua residenza in Italia di
comprovare, oltre che l’abitualità della dimora nel Comune di interesse, la
propria identità mediante l’esibizione del passaporto o di documento
equipollente (art. 14, comma 1). 

1.3.- Sulla rilevanza delle odierne questioni di
legittimità costituzionale il rimettente sottolinea come sia l’amministrazione
comunale sia il Ministero abbiano riconosciuto che la disposizione censurata (e
le successive circolari del Ministero dell’interno) «non lasci[a] alcun margine
di discrezionalità al Sindaco, in qualità di Ufficiale dell’anagrafe». Dunque,
il diniego dell’iscrizione anagrafica discenderebbe dall’applicazione della
norma censurata, come, tra l’altro, risulta dalla motivazione del
provvedimento.  Al contempo, non vi
sarebbero dubbi sulla riconducibilità del caso di specie alla fattispecie
prevista dalla disposizione censurata. Inoltre, l’eventuale caducazione di
quest’ultima, pur non comportando la reintroduzione della disciplina di favore
prevista dall’art. 5-bis del
d.lgs. n. 142 del 2015, consentirebbe ai richiedenti asilo di procedere
all’iscrizione anagrafica alle stesse 
condizioni degli altri stranieri regolari e dei cittadini italiani. 

1.4.- In merito alla possibilità di una
interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, il
rimettente dà atto, in via preliminare, dell’orientamento assunto da alcuni
giudici di merito, secondo i quali non sarebbe preclusa la possibilità di
iscrizione anagrafica da parte dei richiedenti asilo, dovendosi ritenere che la
regolarità del soggiorno al fine dell’iscrizione anagrafica possa essere
provata attraverso altri documenti che attestino l’avvio del procedimento volto
al riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione, quali il  cosiddetto Modello C/3 o il documento con cui
la questura attesta la formalizzazione dell’istanza di protezione
internazionale. In altre parole, secondo questi giudici – rispetto ai quali
l’odierno rimettente dissente – dalla norma censurata non potrebbe desumersi un
divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo, ma soltanto
l’abrogazione della modalità semplificata di iscrizione all’anagrafe prevista dall’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015.  

Secondo il giudice a quo, siffatta interpretazione
non è condivisibile per varie ragioni. Innanzitutto, non vi è dubbio che il
permesso di soggiorno per richiesta di asilo costituisce documento di
riconoscimento e di attestazione della permanenza sul territorio nazionale del
migrante a qualsiasi fine. In secondo luogo, a voler ritenere corretta
l’interpretazione sopra riferita, la modifica operata dal d.l. n. 113 del 2018 risulterebbe priva di senso,
poiché sarebbe stata sufficiente la mera abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del
2015 per rendere applicabile la procedura ordinaria prevista dal combinato
disposto del d.P.R. n. 223 del 1989 e dall’art.
6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del
1998.

 Piuttosto,
«la contrarietà dell’ordinamento all’iscrizione anagrafica» si desumerebbe da
«un’interpretazione letterale, sistematica e teleologica, che tenga in
considerazione la (chiara) “intenzione del legislatore”», quale
desumibile anche dall’esame dei lavori preparatori della legge di conversione
del d.l. n. 113 del 2018. In questo senso si
sarebbe mosso il Tribunale ordinario di Trento (ordinanze 11 e 15 giugno 2019),
che però (a differenza dell’odierno rimettente) ha rigettato la domanda
cautelare proposta da un richiedente asilo. Pur condividendo l’interpretazione
operata dal Tribunale di Trento, il giudice a quo esclude di poter pervenire
allo stesso esito, dal momento che la norma in esame risulta, ai suoi occhi,
illegittimamente discriminatoria.

 1.5.- In
punto di non manifesta infondatezza, la norma censurata appare in contrasto con
gli artt. 2, 3,
10, 77, secondo
comma, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in
relazione all’art. 2, paragrafo 1,
Prot. n. 4 CEDU, nonché in relazione agli artt. 14 CEDU e 26 del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici.

1.5.1.- Il rimettente illustra preliminarmente le
ragioni dell’asserita violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. In
particolare, nel caso di specie mancherebbe «una motivazione circa la necessità
e urgenza di introdurre il divieto di iscrizione all’anagrafe» per i
richiedenti asilo, né varrebbero in tal senso le ragioni addotte dal Governo,
consistenti nell’esigenza di assicurare: l’effettività dei provvedimenti di
rimpatrio di coloro che non hanno titolo a soggiornare nel territorio
nazionale; un accurato esame delle (sempre più numerose) istanze di
riconoscimento e di concessione della cittadinanza; la massima accuratezza
dell’istruttoria avviata; adeguate politiche di prevenzione della minaccia
terroristica. Al riguardo, il rimettente precisa che, se anche si ritenesse che
queste esigenze siano tutelabili attraverso il ricorso alla decretazione
d’urgenza, esse non rileverebbero nel caso di specie, stante la mancata
incidenza della norma censurata sulla sicurezza nazionale, sull’efficacia dei
provvedimenti di rimpatrio o sulla necessità di svolgere un’accurata
istruttoria. Anzi, la corretta registrazione all’anagrafe di chi effettivamente
e abitualmente dimora in un determinato Comune finirebbe con il facilitare
l’azione dell’ente territoriale e degli organi di sicurezza.

 Inoltre, la
delicatezza delle «scelte di natura politica e giuridica», adottate con il d.l.
n. 113 del 2018, «avrebbe richiesto un
adeguato dibattito parlamentare», compresso sia dall’adozione di un
decreto-legge sia dall’apposizione della questione di fiducia, in entrambe le
Camere, in occasione della sua conversione in legge. Il decreto in esame
difetterebbe, infine, del requisito dell’omogeneità del suo contenuto,
risultando composto da disposizioni concernenti materie del tutto diverse tra
loro. 

 1.5.2.-
Quanto all’asserita violazione dell’art. 2 il
rimettente ricorda come questa Corte, nella sua giurisprudenza, abbia
«suggerito un carattere dinamico dell’inviolabilità, che muta al mutare della
società, con un’apertura dei diritti inviolabili che non significa però una
loro indeterminatezza, dovendo e potendo essere ricompresi nel loro novero solo
quelli che siano riconducibili al cuore del progetto costituente, ossia quello
di predisporre per ciascun consociato le condizioni per il conseguimento di una
vita libera e degna». In questa prospettiva, «la dignità umana diventa tratto
comune o, meglio, punto di arrivo di questi diritti inviolabili».

 Il giudice a
quo sottolinea, inoltre, «la centralità della persona» come nota
caratterizzante l’art. 2, il quale «non fa
riferimento all’individuo in quanto partecipe di una determinata comunità
politica, ma in quanto essere umano». A sua volta, «[c]he la dignità umana e,
quindi, i diritti necessari alla sua garanzia non spettino solo ai cittadini
trova inconfutabile conferma nei principi di eguaglianza e di parità sociale
contenuti nel successivo art. 3 Cost.» (sono
richiamate le sentenze di questa Corte n. 62 del 1994, n. 490 del 1988, n. 54
del 1979, n. 244 e n. 177 del 1974, n. 144 del 1970, n.
104 del 1969, n. 11 del 1968 e n. 120 del 1967).

Ciò nondimeno, è lo stesso rimettente a ricordare –
richiamando un’altra decisione di questa Corte – come «tra cittadino e
straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano
differenze di fatto che possano giustificare un loro diverso trattamento nel
godimento di quegli stessi diritti» (sentenza n.
104 del 1969). Da quanto appena detto deriverebbe «l’esigenza di
distinguere tra titolarità – estesa a tutti – e godimento – differentemente
modulabile – di un diritto inviolabile». 

Di conseguenza, vi sarebbe un «nucleo irriducibile»
dei diritti inviolabili, che deve essere riconosciuto a tutti, mentre
«[l]’accesso e il godimento di quella porzione di diritto inviolabile che
eccede questo “nucleo” […] ricadono nel margine di discrezionalità
spettante al legislatore». In questo caso, la differenza di trattamento tra
cittadino e straniero non deve sconfinare nell’irragionevolezza. 

Alla luce di questa ricostruzione, il rimettente
sostiene che «il diritto all’iscrizione anagrafica ricada tra i diritti che
hanno come punto di approdo ultimo quella della dignità umana, nella sua
dimensione individuale e sociale», diventando «presupposto dell’identificazione
di se stessi anche e soprattutto mediante lo sviluppo di un senso di
appartenenza con la comunità locale presso cui si decide di fissare la propria
stabile dimora». A questi fini, la maturazione del senso di appartenenza
sarebbe prodromica rispetto all’inserimento dell’individuo nella società, al
cui interno potrà svolgersi la sua personalità (come sancito dall’art. 2 Cost.). Nella prospettiva da ultimo
indicata l’iscrizione anagrafica costituirebbe «un passo essenziale di quel
processo di integrazione a cui sono chiamati tanto lo straniero quanto la
società presso cui egli si stabilisce».  

Infine, il Tribunale rimettente sottolinea il valore
simbolico della norma censurata, poiché il diniego dell’iscrizione anagrafica
equivarrebbe a «lasciare l’individuo al margine della collettività stessa,
confinandolo in un “non luogo” giuridico e sociale», che costituisce
un limite alla libera e dignitosa crescita della sua personalità e che appare
incompatibile con la sua partecipazione alla vita economica, sociale e
culturale del Paese in cui vive. Al riguardo, il giudice a quo ricorda come
l’iscrizione anagrafica sia condizione per il rilascio della carta d’identità,
che – sempre secondo il rimettente – è «un documento che, anche su un piano
meramente evocativo, esprime una maggiore identificazione con la comunità in
cui ci si inserisce rispetto al solo permesso di soggiorno che, invece,
comunica sempre e comunque una sensazione di estraneità». 

Muovendo da questa prospettiva, diventerebbe
«irrilevante» il  fatto che l’accesso ai
servizi sociali sia comunque garantito in base al domicilio, poiché il divieto
di iscrizione anagrafica lederebbe «un diritto autonomo e presupposto rispetto
a questi ulteriori diritti sociali».

 1.5.3.-
Quanto alla lamentata violazione dell’art. 3 Cost., il Tribunale di Milano
muove dal dato testuale dell’art.
6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 che prevede, come regola generale,
quella dell’iscrivibilità degli stranieri legalmente soggiornanti in Italia
all’anagrafe della popolazione residente. La norma censurata costituirebbe,
pertanto, una deroga a questa disciplina generale, priva però dei «requisiti di
razionalità e ragionevolezza che costituiscono i parametri tradizionalmente
adottati dalla Corte per svolgere il giudizio costituzionale di eguaglianza». 

La valutazione della razionalità della norma
censurata, che comporta una verifica della coerenza tra la stessa e le altre
disposizioni vigenti nella stessa materia, produrrebbe, secondo il rimettente,
esiti negativi. In tal senso militerebbe la sua incoerenza rispetto alle
finalità perseguite dal legislatore con il d.l. n.
113 del 2018; infatti, il diniego di iscrizione anagrafica dei richiedenti
asilo limiterebbe le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità
pubblica su una categoria di stranieri. Peraltro, la natura obbligatoria
dell’iscrizione anagrafica, sopra argomentata, sarebbe finalizzata ad
«assicurare la puntuale conoscenza dei soggetti presenti sul territorio
italiano e, dunque, anche la sicurezza pubblica», obiettivi, questi, che
sarebbero vanificati dalla norma in esame. Un ulteriore sintomo
dell’irrazionalità della disposizione censurata si coglierebbe in relazione
alle finalità perseguite dal d.lgs. n. 142 del
2015, che ha attuato la direttiva (UE) 2013/33 del Parlamento europeo e del
Consiglio del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei
richiedenti protezione internazionale. Quest’ultima avrebbe, infatti, come
obiettivo quello di migliorare l’accoglienza e di garantire un livello di vita
dignitoso, che non sarebbe compatibile con la previsione di «un non necessario
ostacolo all’integrazione e al libero sviluppo individuale dello straniero qual
è la negazione del diritto d’iscrizione anagrafica».

Anche il controllo sulla ragionevolezza della norma
censurata dimostrerebbe l’assenza di una giustificazione del trattamento
differenziato tra richiedenti asilo e cittadini italiani, nonché tra i primi e
gli altri stranieri legalmente presenti sul territorio nazionale. In particolare,
sarebbe di «difficile (se non impossibile)» comprensione l’interesse perseguito
dal legislatore e non sarebbe ragionevole giustificare il diniego di iscrizione
anagrafica facendo leva sulla provvisorietà del permesso di soggiorno, in
quanto ad essere provvisorio sarebbe solo lo status di richiedente asilo,
«destinato a tramutarsi – nell’ipotesi fisiologica – in [quello] di titolare di
protezione internazionale». Peraltro, il permesso di soggiorno per richiedenti
asilo ha scadenza semestrale, rinnovabile fino alla decisione sulla domanda, e
occorre tenere conto non solo dei tempi del procedimento amministrativo, ma
anche di quelli dell’eventuale impugnazione del diniego. Di conseguenza, non
potrebbero escludersi periodi molto lunghi di soggiorno, «fino a tre o quattro
anni».

 L’irragionevolezza della previsione censurata
sarebbe confermata anche dalla comparazione con quanto disposto dal decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30
(Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa
al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati  membri), il cui art. 9 prevede che un
cittadino europeo, che intenda soggiornare per più di tre mesi sul territorio
italiano, deve richiedere l’iscrizione anagrafica. Risulterebbe, dunque,
incomprensibile la ragione per la quale il «periodo superiore a tre mesi»
costituisca «una finestra temporale sufficiente per escludere la precarietà
della presenza dello straniero sul territorio italiano, facendo sorgere il
diritto/dovere di iscrizione anagrafica» per il cittadino di Stato membro
dell’Unione europea, mentre il periodo di sei mesi, «de plano incrementabili
fino oltre due anni», non lo sia.

 Il divieto di
iscrizione anagrafica mostrerebbe, poi, «tutta la sua irragionevolezza» in
quanto costituente un ostacolo al processo di integrazione dei soli richiedenti
asilo. A tal fine il rimettente richiama l’art. 4-bis del d.lgs. n. 286 del
1998, rubricato «Accordo di integrazione», e il decreto
del Ministero dell’interno 23 aprile 2007 (Carta dei valori della
cittadinanza e dell’integrazione). 

Ed ancora, l’impossibilità di procedere
all’iscrizione anagrafica impedirebbe o renderebbe più difficoltoso l’esercizio
di alcuni diritti sociali del richiedente asilo (come il cosiddetto reddito di
cittadinanza, l’accesso all’edilizia popolare o il   cosiddetto bonus bebè), rispetto ai
cittadini italiani e ad altre categorie di stranieri. Da questo punto di vista,
l’assicurazione dell’accesso ai servizi nel luogo di domicilio non escluderebbe
la creazione di una situazione deteriore. A tal fine, il rimettente sottolinea come
il domicilio dei richiedenti asilo costituisca una «situazione oggettivamente
più vaga e incerta» rispetto alla residenza, ben potendosi configurare tre
ipotesi di domicilio: quello indicato nella domanda di protezione
internazionale, quello indicato nella successiva comunicazione alla questura e
quello indicato nella dichiarazione del centro di accoglienza. Senza
considerare che l’accesso ai servizi pubblici in base al domicilio non potrebbe
«prevenire tutti gli ostacoli che emergono nell’ambito delle relazioni
sociali», come, ad esempio, nei rapporti tra privati, «refrattari a superare la
rilevanza, ai fini dell’identificazione delle parti, dell’iscrizione
anagrafica».

 Da ultimo, il
rimettente – riprendendo un’argomentazione del ricorrente nel giudizio a quo –
mette in evidenza come lo straniero titolare di permesso di soggiorno per
richiesta di asilo sia «esposto all’onere di esibire copia della domanda di
protezione internazionale o copia della successiva dichiarazione fatta presso
la Questura». In sostanza, per accedere ai servizi sociali non potrebbe esibire
la carta d’identità, essendone privo, ma la documentazione suddetta, con
conseguente violazione dell’«obbligo di riservatezza delle informazioni
concernenti le domande di protezione internazionale», previsto dall’art. 37 del decreto legislativo 28
gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme
minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento
e della revoca dello status di rifugiato).

1.5.4.- Il Tribunale di Milano ritiene che la
violazione del principio di uguaglianza ex art. 3
Cost. sussista anche nell’ipotesi in cui si ritenga ammissibile una lettura
della disposizione  censurata che
consenta l’iscrizione anagrafica. Questa interpretazione, infatti, costringendo
il richiedente asilo a produrre una «documentazione differente dal permesso di
soggiorno per provare la propria identità e il proprio soggiorno legale sul
suolo italiano», «ingenererebbe un trattamento irrazionalmente e
irragionevolmente deteriore per una categoria di stranieri rispetto  alle altre, senza alcuna giustificazione».

In particolare, sarebbe evidente l’irrazionalità
legislativa di una norma, quale quella che introduce la norma censurata, che,
da una parte, qualifica espressamente il permesso di soggiorno come documento
di riconoscimento (art. 13, comma
1, lettera a, numero 1, del d.l. n. 113 del 2018) e, dall’altra, nega che
questo possa  servire per
l’identificazione dello straniero nella procedura di iscrizione anagrafica (art. 13, comma 1, lettera a, numero
2, del d.l. n. 113 del 2018). A ciò si aggiunga che, in tal caso, il
richiedente asilo dovrebbe provare la propria identità mediante l’esibizione
del passaporto o di altro documento equipollente (ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 223 del 1989);
ma «lo status di richiedente protezione internazionale […] presuppone una
condizione di persecuzione, guerra o, generalmente, pericolo nel paese di
provenienza che ben potrebbe precludere i contatti del cittadino straniero con
le autorità pubbliche e, quindi, l’ottenimento del passaporto e di altra
documentazione di identità». Risiederebbe 
proprio in questa considerazione la ragionevolezza dell’originaria
previsione normativa che consentiva ai richiedenti asilo di provare la propria
identità con la produzione del permesso di soggiorno, rilasciato dopo essere
stati identificati dalle autorità italiane competenti.

 La norma
censurata, quindi, avrebbe abrogato una normativa di favore (art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del
2015) sostituendola con una previsione che crea incertezze, non essendo
indicato il documento oggi necessario per provate la propria identità e il
soggiorno legale. Né sarebbe ragionevole ritenere che la documentazione da
produrre sia la copia della domanda di protezione internazionale presentata
dallo straniero alla questura o del cosiddetto Modello C/3, essendo, questi,
«atti endoprocedimentali, prodromici al rilascio del permesso di soggiorno per
richiesta di asilo».

L’incertezza lamentata sarebbe «ancor più
difficilmente giustificabile» nel caso di specie, trattandosi di soggetti «in
posizione di particolare fragilità», nei cui confronti sarebbe auspicabile «una
scelta di semplificazione degli adempimenti burocratici […] piuttosto che una
complicazione della loro posizione».

 1.5.5.- La
norma censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art.
10 Cost., dando vita «a un trattamento diversificato soltanto nei confronti
di una categoria di stranieri regolarmente soggiornanti, ossia proprio quelli
che hanno esercitato il diritto di asilo ex art.
10, comma 3, Cost.». Questi ultimi sarebbero titolari di un diritto
soggettivo perfetto al soggiorno, essendo legittimati all’ingresso e alla
permanenza nel territorio dello Stato in attesa che venga definita la loro
domanda di protezione internazionale. Peraltro – aggiunge il rimettente,
richiamando una pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione
– il diritto di asilo sarebbe immediatamente azionabile anche in mancanza di
leggi ordinarie che fissino le condizioni per il suo esercizio.

 1.5.6.-
Infine, la norma in esame è censurata per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art.
2 Prot. n. 4 CEDU, all’art. 14 CEDU
e all’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.

 L’art. 2
Prot. n. 4 CEDU sarebbe violato perché l’iscrizione all’anagrafe costituirebbe
«l’essenza stessa del fissare la residenza in un comune dello Stato» e pertanto
il diniego dell’iscrizione implicherebbe una lesione del diritto a scegliere
liberamente la propria residenza (sancito dal citato art. 2). Né potrebbe dubitarsi
che il termine «residenza» utilizzato nell’art. 2, paragrafo 1, Prot. n. 4 CEDU
corrisponda al concetto tecnico di residenza di cui all’art. 43 del codice civile; militerebbero in tal
senso l’utilizzo del diverso termine «domicilio» nell’art. 8 CEDU e la versione in lingua
inglese del testo della CEDU, che utilizza il termine «residence»,
differenziandolo da quello di «home», impiegato nell’art. 8 CEDU. Inoltre, la norma
censurata non sarebbe rispettosa della riserva di legge rinforzata prevista
nell’art. 2, paragrafi 3 e 4, Prot. n. 4 CEDU. 

E ancora, il diniego del diritto di stabilire
liberamente la residenza sarebbe dettato da ragioni discriminatorie, da cui la
violazione dell’art. 14 CEDU e
dell’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,
rispetto alla quale il rimettente rinvia agli argomenti già svolti in relazione
all’asserita violazione dell’art. 3 Cost. 

2.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o
infondate.

L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in
primo luogo, l’inammissibilità della questione sollevata ai sensi dell’art. 77 Cost. in quanto «già decisa dalla Corte
nel senso dell’infondatezza» con la sentenza n. 194 del 2019. Nel merito, la
questione sarebbe infondata: da un lato, il d.l.
n. 113 del 2018 si fonderebbe sulla necessità di un «intervento immediato»
di modifica della normativa vigente in tema di immigrazione, al fine di
tutelare la sicurezza nazionale, ragion per cui in relazione sia all’intero
Titolo I del decreto sia al censurato art. 13 non sarebbe riscontrabile
l’evidente mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza; dall’altro lato,
le norme del decreto, pur riguardando materie diverse, avrebbero una
complessiva uniformità teleologica, presentando «una sostanziale omogeneità di
scopo», che sarebbe quello «di affrontare temi delicatissimi per la sicurezza
nazionale». 

L’Avvocatura osserva poi che la norma sarebbe stata
sollecitata dai comuni, al fine di «sterilizzare alcuni problemi connessi al
dilagare del fenomeno migratorio, come il sovraccarico di iscrizioni  anagrafiche di richiedenti asilo presso
Comuni di piccole dimensioni, sul cui territorio si trovano centri di
accoglienza, con i conseguenti onerosi adempimenti anche in termini di
cancellazioni e di ripetuti accertamenti in caso di irreperibilità». Inoltre,
si sarebbe voluta eliminare la prassi del rilascio di carte d’identità con
validità decennale a stranieri la cui posizione giuridica non è ancora
definita.

 Ancora,
l’Avvocatura rileva che l’omogeneità dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018,
rispetto ai temi della protezione internazionale e dei flussi migratori,
emergerebbe anche dalla citata sentenza n. 194 del 2019, secondo la quale l’art. 13 regolerebbe lo status
del richiedente protezione internazionale. Questo articolo sarebbe, dunque,
coerente con l’art. 15, comma 3,
della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento
della Presidenza del Consiglio dei Ministri). In relazione all’art. 2 Cost., l’Avvocatura osserva che
l’integrazione sociale del richiedente asilo sarebbe legata all’esito della
domanda di protezione più che alla mera iscrizione nei registri anagrafici, e
che la norma censurata sarebbe in sintonia con i concetti generali di domicilio
e residenza. L’esclusione dell’iscrizione sarebbe dovuta alla precarietà del
permesso per richiesta asilo e alla necessità di attendere la definizione della
posizione giuridica dei richiedenti. 

Ancora, il giudice a quo avrebbe eccessivamente
dilatato l’art. 2 Cost., che non potrebbe
ricomprendere quelle prestazioni (come il reddito di cittadinanza e la carta
d’identità) che presuppongono la 
residenza anagrafica: invece, i diritti fondamentali di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 286 del 1998
(come il diritto alla salute e quello all’istruzione dei minori) non
dipenderebbero direttamente dall’iscrizione anagrafica. 

L’Avvocatura evidenzia poi che, sempre in base al
censurato art. 13, da un
lato, il permesso di soggiorno per richiesta asilo costituisce documento di
riconoscimento, con conseguente garanzia del diritto all’identità personale dei
richiedenti asilo; dall’altro lato, «l’accesso ai servizi previsti dal presente
decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti
è assicurato nel luogo di domicilio […]». In particolare, il richiedente
asilo potrebbe accedere al servizio sanitario, al lavoro, alla scuola per i
figli, alle misure di accoglienza, godrebbe di autonomia contrattuale, potrebbe
aprire un conto corrente e si vedrebbe attribuito il codice fiscale. 

Secondo l’Avvocatura, la norma censurata non
violerebbe l’art. 3 Cost. in quanto si
fonderebbe proprio sul diverso status dei richiedenti asilo rispetto agli
italiani e agli altri stranieri regolarmente soggiornanti, poiché le condizioni
della residenza non potrebbero prescindere dal preventivo accertamento del
diritto alla protezione.

 Infine, la
norma de qua non violerebbe gli artt. 10 e 117, primo comma, Cost. in quanto, da un lato,
l’iscrizione anagrafica non apparterrebbe ai diritti fondamentali di cui alla
CEDU e al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,
dall’altro la direttiva 2013/33/UE e la Convenzione relativa allo statuto dei
rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 non imporrebbero modalità di
registrazione dei richiedenti asilo diverse dal rilascio di un permesso di
soggiorno.

3.- Nel giudizio di legittimità costituzionale si è
costituito il Comune di Milano, parte del giudizio a quo, chiedendo che le
questioni sollevate siano ritenute ammissibili e fondate, per violazione degli artt. 2, 3, 10, 114, 117 e 118 Cost., e
svolgendo argomentazioni in gran parte coincidenti con quelle del Tribunale
rimettente. Fanno eccezione le censure prospettate in riferimento agli artt. 114 e 118 Cost.
– parametri, questi, non indicati dal giudice a quo -, rispetto ai quali il
Comune ritiene che la mancata registrazione anagrafica della residenza e la
conseguente «invisibilità» dei richiedenti asilo impediscano l’esercizio delle
funzioni amministrative comunali relative ai servizi alla persona e alla
comunità, all’assetto e all’utilizzazione del territorio e allo sviluppo
economico.

4.- Nel giudizio di legittimità costituzionale si è
costituito A. H., cittadino siriano, titolare del permesso di soggiorno per
richiesta di asilo, ricorrente nel giudizio principale per la dichiarazione di
invalidità del provvedimento che gli ha negato l’iscrizione nell’anagrafe della
popolazione residente nel Comune di Milano. A. H. chiede che questa Corte
accolga le questioni sollevate dal Tribunale di Milano. 

La parte costituita premette di aderire pienamente
alle censure prospettate dal giudice a quo e si limita a svolgere alcune
riflessioni a sostegno delle ragioni addotte dal rimettente e a proporre
considerazioni più generali sul significato e sul contesto in cui si inscrive
la disposizione denunciata. 

Quanto alla censura formulata rispetto all’art. 77 Cost., rileva l’estrema difficoltà di
individuare «la situazione straordinaria di necessità e urgenza» cui si è
inteso far fronte, sottolineando come il d.l. n.
113 del 2018 intervenga «funditus su una serie numerosa di rapporti e di
questioni diverse». Peraltro, aggiunge, «già nella sua formulazione originaria
il decreto aveva un contenuto plurimo e non omogeneo»; situazione, questa,
ulteriormente amplificata in sede di conversione in legge. In questo come in
altri casi, la scelta dello strumento del decreto-legge sarebbe stata dettata
«non già dall’urgenza del provvedere, ma dalla evidente volontà di impedire che
sul provvedimento si svolgessero un normale compiuto esame e una normale
discussione parlamentare, attraverso la drastica amputazione del dibattito
ottenuta con la “tecnica” del maxiemendamento governativo sul quale
lo stesso Governo ha posto la questione di fiducia, sia al Senato (voto del 7
novembre 2018), sia alla Camera (voto del 28 novembre 2018)».

 Sulla base
delle anzidette considerazioni la parte costituita ritiene che, nel caso di
specie, sia innegabile l’«evidente mancanza» dei «casi straordinari di
necessità e d’urgenza» del decreto-legge e la disomogeneità della norma
censurata rispetto alla restante disciplina contenuta nel decreto. Sarebbe
significativa, al riguardo, l’assenza nelle premesse dell’atto censurato di
«qualsiasi motivato riferimento a situazioni di urgente necessità». Inoltre,
quand’anche si volesse ricondurre la norma censurata «al comune denominatore
della “sicurezza”», la previsione del diniego di iscrizione
anagrafica per i richiedenti asilo non sarebbe «in nessun modo giustificata né
giustificabile in nome di esigenze di sicurezza pubblica». Al contrario, i richiedenti
asilo senza residenza anagrafica e senza carta d’identità sarebbero «meno
conoscibili, meno suscettibili di essere “seguiti”, identificati, se
necessario controllati». Né la mancata iscrizione potrebbe spiegarsi in ragione
del carattere temporaneo e precario del soggiorno dei richiedenti asilo;
sarebbe, infatti, inspiegabile la previsione di una discriminazione nei
confronti di questi soggetti e non invece di altri, per i quali l’iscrizione
anagrafica è «un diritto elementare, oltre che un obbligo, connesso alla dimora
abituale sul territorio nazionale».

 Piuttosto, la
ratio di questa misura dovrebbe essere individuata «nel suo valore di
“messaggio” implicito: lo Stato italiano dice che “non
gradisce” i richiedenti asilo»; considerazione, questa, che induce a
ravvisare nella norma censurata «un grado di “irragionevolezza” che
non solo smentisce la sua “necessità e urgenza”, ma ne vizia
palesemente il contenuto, sotto il profilo del contrasto con i principi
costituzionali». 

La difesa della parte costituita richiama, altresì,
le sentenze n. 194 e n. 195 del 2019, con le
quali questa Corte ha deciso i ricorsi promossi da alcune Regioni nei confronti
di varie norme contenute nel d.l. n. 113 del 2018,
sottolineando come molte delle questioni promosse non siano state esaminate nel
merito in quanto dichiarate inammissibili per difetto di ridondanza sulle
competenze regionali. 

Passando alle questioni sollevate dal Tribunale di
Milano in riferimento all’art. 2 Cost., la
difesa di A. H. ritiene che la norma censurata incida «pesantemente» su un
diritto della persona, garantito dall’art. 2 Cost.,
come si evince dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite, 19
giugno 2000, n. 449, nella quale si afferma che «tutta l’attività
dell’ufficiale d’anagrafe è disciplinata dalle norme sopra richiamate in modo
vincolato, senza che trovi spazio alcun momento di discrezionalità» e che le
norme in materia di anagrafe «non attribuiscono all’amministrazione alcun
potere idoneo a degradare i diritti soggettivi attribuiti ai singoli
individui».

 L’iscrizione
anagrafica costituirebbe, dunque, «un diritto soggettivo strumentale a certificare
e a dimostrare la residenza della persona, sancendone la presenza stabile in un
Comune; a sua volta l’iscrizione è necessaria per l’esercizio dei diritti
propri dei “residenti”. Essa consegue e deve conseguire al semplice
accertamento dei presupposti di fatto, cioè della dimora abituale». Prim’ancora
che un diritto, l’iscrizione all’anagrafe costituirebbe altresì un obbligo per
tutte le persone, famiglie o convivenze che abbiano fissato nel territorio del
Comune la propria «dimora abituale» (ai sensi dell’art.
43, secondo comma, del codice civile), oltre che essere un obbligo per gli
uffici del relativo Comune. Una speciale esenzione dall’obbligo dell’iscrizione
anagrafica è prevista solo per «il personale diplomatico e consolare straniero»
e per «il personale straniero da esso dipendente» (art. 2, sesto comma, della legge n.
1228 del 1954).

 Da quanto
detto la parte costituita deduce che l’iscrizione all’anagrafe non è una
semplice facoltà attribuita dalla legge alle persone, ma è la conseguenza
obbligatoria dell’aver stabilito la propria dimora abituale nel territorio del
Comune. Siffatta previsione perseguirebbe, tra l’altro, lo scopo di rendere le
persone, legalmente dimoranti nel territorio, note ai pubblici poteri e
reperibili nel luogo in cui hanno fissato la loro dimora. In tal senso sarebbe
significativo che anche le persone senza fissa dimora devono essere registrate
nell’anagrafe della popolazione residente e hanno una residenza nel Comune dove
hanno stabilito il proprio domicilio o in quello di nascita. Sono poi
richiamate le norme sull’iscrizione anagrafica degli stranieri (art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286
del 1998 e art. 15 del
d.P.R. n. 394 del 1999), dalle quali sarebbe ulteriormente desumibile la
natura di diritto fondamentale dell’iscrizione anagrafica.

 La difesa
della parte costituita dichiara, poi, di condividere l’assunto del Tribunale
rimettente secondo cui non sarebbe praticabile l’interpretazione della
disposizione censurata (operata da alcuni giudici di merito) che non precluda
l’iscrizione anagrafica. A suo dire si tratterebbe di una «interpretatio
abrogans» che toglierebbe ogni effetto pratico alla disposizione in esame e che
contraddirebbe apertamente il contenuto della relazione illustrativa del
disegno di legge di conversione del d.l. n. 113
del 2018. In ogni caso – aggiunge la difesa di A. H. – qualora siffatta
interpretazione «correttiva» fosse accolta da questa Corte con una pronuncia di
non fondatezza «nei sensi di cui in motivazione», «essa acquisterebbe
tutt’altra autorità».

La parte costituita argomenta, poi, la fondatezza
delle censure formulate dal rimettente per contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost.
e con l’art. 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art.
14 CEDU e all’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici, svolgendo argomentazioni in gran parte coincidenti con quelle del
Tribunale di Milano. In particolare, sottolinea il carattere discriminatorio
del trattamento previsto dalla norma censurata, anche rispetto agli stranieri
in possesso di altri tipi di permessi di soggiorno, tale da tradursi «in una
pura e semplice “deminutio capitis” dello straniero richiedente
asilo, priva di alcuno scopo socialmente e giuridicamente apprezzabile». 

La difesa di A. H. esclude, inoltre, che il diniego
di iscrizione anagrafica possa essere giustificato in ragione della  precarietà e della temporaneità del permesso
di soggiorno per richiesta di asilo, in quanto né l’una né l’altra di queste
caratteristiche è impeditiva della fissazione di una dimora abituale nel
territorio italiano.

 Quanto, poi,
al venir meno per i richiedenti asilo dei diritti a prestazioni legate alla residenza,
la parte costituita precisa che il diritto ad avere la residenza nel luogo di
dimora abituale spetta di per sé, indipendentemente dai servizi territoriali
cui lo straniero può essere ammesso. 

La difesa della parte argomenta anche sull’asserito
contrasto con l’art. 10 Cost., che
discenderebbe dall’impossibilità per lo Stato di impedire al richiedente asilo
di soggiornare legalmente nel territorio dello Stato e di essere titolare di
tutti i diritti fondamentali che discendono dal soggiorno regolare. 

Infine, la parte costituita ritiene che la norma
censurata sia in contrasto con l’art. 16 Cost.,
con l’art. 2 Prot. n. 4 CEDU e con l’art. 12, paragrafo 1, del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici, nella parte in cui queste
disposizioni riconoscono il diritto di chi si trovi regolarmente nel territorio
di uno Stato di fissarvi la residenza, attestata dall’iscrizione anagrafica.
Quella censurata sarebbe, in definitiva, «una limitazione “per motivi
politici”» (intesi come «”non gradimento” politico dei
richiedenti asilo») espressamente vietata dall’art.
16 Cost. Peraltro, eventuali limitazioni del diritto alla residenza
dovrebbero essere stabilite nel rispetto del principio di eguaglianza di cui
all’art. 3 Cost. e di quello di non
discriminazione di cui agli artt.
14 CEDU e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici. A tal fine, la difesa della parte richiama il contenuto della
direttiva 2013/33/UE, sottolineando come da questa normativa si deduca che le
uniche limitazioni possibili devono concernere singole persone, per ragioni
individualmente indicate, e riguardano l’ambito territoriale in cui lo
straniero può liberamente circolare, senza quindi che sia negato il diritto di
fissare la dimora abituale. 

5.- Nel giudizio di legittimità costituzionale si
sono costituite, con un unico atto, l’ASGI e l’Associazione Avvocati per Niente
Onlus, intervenute già nel procedimento principale in senso adesivo rispetto
alle domande proposte dal ricorrente, chiedendo l’accoglimento delle questioni
sollevate dal Tribunale di Milano e svolgendo argomentazioni sostanzialmente
coincidenti con quelle del rimettente e di A. H., con l’unica eccezione
dell’asserita violazione (da parte della norma censurata) dell’art. 8 CEDU e degli artt. 1, 7, 18, 20 e 29 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

5.1.- A. H., l’ASGI e l’Associazione Avvocati per
Niente Onlus hanno depositato memorie integrative, contestando le affermazioni
contenute nell’atto di intervento e nella memoria del Presidente del Consiglio
dei ministri e insistendo nelle conclusioni già rassegnate nei rispettivi atti
di intervento. 

6.- Con ordinanza del 29 luglio 2019, iscritta al n.
153 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Ancona, prima
sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del citato
art. 13, comma 1, lettera a),
numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, che inserisce il comma 1-bis all’art. 4 del d.lgs. n.
142 del 2015, per violazione degli artt. 2,
3 e 117, primo
comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU e
all’art. 12 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Il
Tribunale è stato adito da un cittadino straniero, A. S., che ha convenuto il
Comune di Ancona con un’azione cautelare ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., chiedendo al giudice di
ordinare al Sindaco l’immediata iscrizione del ricorrente nel registro
anagrafico della popolazione residente. 

Il rimettente riferisce che lo straniero è
regolarmente soggiornante in Italia dal 20 giugno 2017, in virtù di un permesso
di soggiorno per richiesta di asilo, e vive stabilmente nel Comune di Ancona
dal 17 novembre 2018, nel centro di accoglienza per richiedenti asilo. Nel
marzo 2019 ha chiesto l’iscrizione anagrafica al Comune di Ancona, ma
l’ufficiale di stato civile l’ha negata in applicazione della norma censurata.
Il ricorrente ritiene il rifiuto illegittimo e comunque il divieto di
iscrizione incostituzionale. Nel giudizio a quo anche il Comune di Ancona ha
eccepito, fra l’altro, l’illegittimità costituzionale del citato art. 13, comma 1, lettera a), numero
2).

Il Tribunale ha, in primo luogo, argomentato sulla
legittimazione passiva del Comune di Ancona, contestata dal Comune stesso in
quanto l’anagrafe sarebbe un servizio di competenza statale. Secondo il
rimettente, il sindaco risponderebbe «in proprio degli atti emessi anche
nell’esercizio di poteri statali». 

Il giudice a quo si sofferma poi sul significato
della disposizione censurata, osservando che, in base ad essa, «il permesso di
soggiorno per richiedenti asilo non attesta la regolarità del soggiorno ai fini
dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente». Il rimettente
richiama la relazione illustrativa del d.l. n. 113
del 2018, che giustifica l’esclusione dall’iscrizione anagrafica «per la
precarietà del permesso per richiesta asilo» e per la «necessità di definire in
via preventiva la condizione giuridica del richiedente». Il Tribunale esamina
l’interpretazione adeguatrice operata da altri 
tribunali, ma ritiene che non possa essere condivisa, perché si
tradurrebbe in una «interpretazione abrogante». 

Il rimettente accerta poi l’esistenza di un
periculum in mora, in quanto il divieto di iscrizione anagrafica impedirebbe
medio tempore l’esercizio di diritti non ristorabili per equivalente all’esito
di un eventuale giudizio di merito che stabilisse l’illegittimità del diniego. In
particolare, il giudice a quo fa riferimento all’impossibilità per il
ricorrente di accettare un’offerta lavorativa (che presuppone l’apertura di una
partita Iva e il conseguimento della patente di guida, che a loro volta
richiedono l’iscrizione anagrafica), all’impossibilità di stipulare contratti
di lavoro occasionale e alla mancata decorrenza del termine di dieci anni per
l’ottenimento della cittadinanza italiana. Quanto alla rilevanza della
questione di costituzionalità, il giudice a quo mette in evidenza che il
rifiuto di iscrizione anagrafica si fonda sulla norma censurata e richiama la
giurisprudenza amministrativa e costituzionale secondo la quale la questione di
costituzionalità sollevata nella fase cautelare è ammissibile quando la misura
cautelare è stata concessa in via provvisoria, prevedendosi la ripresa del
giudizio cautelare dopo la decisione della Corte costituzionale: ciò varrebbe
sia per la tutela cautelare sospensiva sia per quella anticipatoria richiesta
nel caso di specie. 

Quanto alla non manifesta infondatezza, il
rimettente lamenta la violazione degli artt. 2,
3 e 117, primo
comma, Cost.

 Secondo il
giudice a quo, la residenza sarebbe «una situazione di fatto» che esiste a
prescindere dall’iscrizione anagrafica. Questa avrebbe valore di pubblicità e
permetterebbe di fornire la prova della residenza ai fini dell’esercizio di
diversi diritti.

 La precarietà
del soggiorno del richiedente asilo non sarebbe una giustificazione sufficiente
della norma in questione, perché il soggiorno del richiedente asilo non è di
breve durata.

L’accertamento dei presupposti della protezione
internazionale richiederebbe un tempo (sempre più di un anno) di gran lunga
superiore a quello necessario per definire la dimora come abituale. 

Quanto all’art. 2 Cost.,
secondo il rimettente l’impossibilità per lo straniero richiedente asilo di
ottenere la certificazione anagrafica in ordine alla sua dimora abituale
comporterebbe «una condizione di minorazione generale della sua persona la
quale si vede impossibilitata a dare prova di una condizione di fatto esistente
(la dimora abituale)». Tale limite si tradurrebbe «in una preclusione
all’accesso a tutti quei diritti, facoltà e servizi che elevano tale prova a
requisito costitutivo, interponendo quindi seri ostacoli allo sviluppo della
persona come singolo e nelle formazioni 
sociali».

L’art. 3 Cost. sarebbe
violato sia sotto il profilo della ragionevolezza sia sotto quello
dell’uguaglianza. 

Quanto al primo aspetto, la norma censurata, al solo
fine di impedire l’iscrizione anagrafica, avrebbe privato il permesso di
soggiorno «della sua ontologica natura ovvero della sua capacità di provare la
legittima permanenza sul territorio nazionale». Tale differenziazione non
potrebbe giustificarsi con la «precarietà della condizione giuridica dello
straniero», in quanto tale precarietà non corrisponderebbe ad un soggiorno di
breve durata. Inoltre, la soluzione adottata dal legislatore sarebbe
«sproporzionata rispetto al fine: il legislatore avrebbe dovuto selezionare i
diritti ed i servizi rispetto ai quali si legittima una preclusione all’accesso
da parte del richiedente asilo e non anche precludere indiscriminatamente ogni
facoltà – in ambito pubblico e privato – che si riconnette al possesso della
residenza anagrafica, etichettando il soggiorno del richiedente asilo come
“soggiorno irregolare” solo a taluni fini». Il carattere
sproporzionato della norma sarebbe confermato da una contraddizione in cui
sarebbe caduto lo stesso legislatore: da un lato, infatti, il legislatore
avrebbe previsto che il permesso di soggiorno per richiesta asilo consente di
svolgere un’attività lavorativa (art.
22 del d.lgs. n. 142 del 2015), dall’altro, precludendo l’iscrizione
all’anagrafe della popolazione residente, avrebbe impedito al titolare di tale
permesso di soggiorno «di interloquire con l’ente deputato alla gestione ed
alla ricerca di occasioni lavorative». Quanto al secondo aspetto, la norma
censurata discriminerebbe in modo non giustificato il richiedente asilo, pur
abitualmente dimorante, rispetto al cittadino italiano e soprattutto rispetto
allo straniero regolarmente soggiornante con altro titolo. 

Infine, la norma in questione violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, nonché all’art. 12 del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici.

7.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o
infondate e riprendendo le considerazioni già svolte nel giudizio promosso dal
Tribunale di Milano. 

8.- Nel giudizio di legittimità costituzionale si è
costituito

A. S., ricorrente nel giudizio a quo.

La parte argomenta, in primo luogo, la violazione
dell’art. 2 Cost., rilevando che, in presenza
di certe condizioni, la persona ha un diritto soggettivo all’iscrizione
anagrafica e che la preclusione di tale iscrizione produce diverse conseguenze
sulla vita del singolo, ponendolo in una «condizione di marginalizzazione» e
ostacolando il suo processo di integrazione. La transitorietà della condizione
giuridica del richiedente asilo non dovrebbe essere confusa con una condizione
di «instabilità residenziale». Il divieto generalizzato di iscrizione
anagrafica violerebbe dunque l’art. 2 Cost.

 Inoltre, la
norma censurata violerebbe l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 8
CEDU, all’art. 2 Prot. n. 4  CEDU e all’art. 12 del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici.

 Ancora, la
norma censurata violerebbe i principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui
all’art. 3 Cost. La situazione del richiedente
asilo sarebbe assimilabile a quella degli altri stranieri titolari di un
diverso permesso di soggiorno. La norma censurata porrebbe un divieto
generalizzato di iscrizione anagrafica che «prescinde  totalmente dall’effettiva durata della
permanenza in Italia del richiedente», mentre altri permessi di soggiorno, pur
avendo una durata limitata, consentono l’iscrizione anagrafica. Inoltre, la
norma de qua sarebbe incongrua e contraddittoria rispetto «alla complessiva
disciplina della residenza anagrafica e della protezione internazionale»: il
divieto di iscrizione anagrafica avrebbe una finalità dissuasiva dell’accesso
alla procedura di protezione e verrebbe posto inoltre con una norma
giuridicamente incomprensibile, perché l’iscrizione anagrafica non consegue
all’esibizione di un “titolo” ma alla sussistenza di determinate
condizioni.  

9.- Con due ordinanze
del 9 agosto 2019, iscritte ai numeri 158 e 159 del registro ordinanze del
2019, il Tribunale ordinario di Salerno, sezione civile feriale, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n.
142 del 2015, introdotto dall’art.
13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, per
violazione degli artt. 2, 3 e 16 Cost.

Il Tribunale è stato adito da due cittadini
stranieri che hanno convenuto il Comune di Capaccio Paestum con azioni
cautelari ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ.,
chiedendo al giudice di ordinare al Sindaco l’immediata iscrizione dei
ricorrenti nel registro anagrafico della popolazione residente. 

Il rimettente riferisce che gli stranieri sono
regolarmente soggiornanti in Italia, rispettivamente, dal 14 agosto e dal 19
novembre 2018, in virtù di permessi di soggiorno per richiesta di asilo, e che
il 15 aprile 2019 hanno chiesto l’iscrizione anagrafica al Comune di Capaccio
Paestum, ma l’ufficiale di stato civile l’ha negata in virtù della norma
censurata. I ricorrenti ritengono il rifiuto illegittimo in quanto la norma
censurata avrebbe solo abolito la procedura semplificata di iscrizione
anagrafica prevista dall’abrogato art.
5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015. 

Argomentando sul fumus boni juris, il giudice a quo
rileva che, secondo la Corte di cassazione, le controversie in materia di
iscrizione anagrafica attengono a diritti soggettivi e rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario. Il potere dell’ufficiale d’anagrafe
sarebbe limitato all’accertamento dei presupposti dell’iscrizione, con
un’attività di tipo vincolato, inidonea a degradare i diritti soggettivi. 

Secondo il rimettente, il diritto dello straniero
all’iscrizione anagrafica risulterebbe dall’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286
del 1998, in base al quale «Le iscrizioni e variazioni anagrafiche  dello straniero regolarmente soggiornante
sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità
previste dal regolamento di attuazione». Dunque, i presupposti del diritto
dello straniero all’iscrizione anagrafica sarebbero due: la regolarità del
soggiorno in Italia e la dimora abituale nel comune, e nel caso di specie il
ricorrente sarebbe ospite da più di tre mesi di un centro di accoglienza. Però,
secondo il Comune a tale disciplina avrebbe derogato l’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n.
142 del 2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero
2), del d.l. n. 113 del 2018.

 Il giudice a
quo non condivide l’interpretazione adeguatrice di tale disposizione (secondo
la quale essa avrebbe solo abolito la procedura semplificata di iscrizione anagrafica
del richiedente asilo), seguita da alcuni giudici di merito e posta alla base
delle domande cautelari, in quanto essa renderebbe la disposizione stessa
inutile, assegnando a una norma derogatoria lo stesso significato della regola
generale (secondo la quale il permesso di soggiorno non è sufficiente per
l’iscrizione anagrafica, occorrendo anche la residenza). Inoltre, la procedura
semplificata di iscrizione anagrafica sarebbe stata abrogata dall’art. 13, comma 1, lettera c), del
d.l. n. 113 del 2018. Ancora, l’interpretazione adeguatrice sarebbe
smentita dai lavori preparatori, che parlano di «esclusione dall’iscrizione
anagrafica».

 La
disposizione censurata dovrebbe invece essere intesa nel senso che, poiché il
permesso di soggiorno «non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica»,
viene a mancare il primo presupposto di essa, cioè la regolarità del soggiorno:
il permesso di soggiorno per richiedenti asilo, a differenza degli altri
permessi, non integrerebbe la condizione del soggiorno regolare ai fini
dell’iscrizione anagrafica. Il richiedente asilo sarebbe autorizzato a rimanere
in Italia, ma non avrebbe diritto all’iscrizione.   Così intesa, la disposizione censurata
violerebbe i «diritti umani fondamentali tutelati dall’art. 2 Cost. (l’accesso all’assistenza sociale e
la concessione di eventuali sussidi o agevolazioni previste dal Comune, come
quelle basate sulle condizioni di reddito; il conseguimento della patente di
guida italiana […])», il «principio di uguaglianza (art. 3), per
l’irragionevole trattamento rispetto allo straniero regolarmente soggiornante
ad altro titolo», e la «libertà di soggiorno (art. 16), per l’esclusione dello
straniero avente diritto ad una definizione della sua domanda di protezione
internazionale da una regolare condizione anagrafica».

Il giudice a quo argomenta poi sulla rilevanza delle
questioni di legittimità costituzionale ai fini della definizione dei giudizi
cautelari. 

Infine, il rimettente, ritenuto di non poter
ordinare al Comune l’iscrizione anagrafica, in ragione del divieto di cui all’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n.
2248 (Legge sul contenzioso amministrativo. All. E), «dichiara, in via
provvisoria e fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di
legittimità costituzionale, la sussistenza del diritto» dei due ricorrenti

all’iscrizione anagrafica presso il Comune di
Capaccio Paestum.

10.- Anche in questi due giudizi è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano  dichiarate inammissibili o infondate e riprendendo
– in riferimento alla lamentata violazione degli artt.
2 e 3 Cost. – le considerazioni già svolte
nel giudizio promosso dal Tribunale di Milano. 

Sulla violazione dell’art.
16 Cost., l’Avvocatura ritiene la questione inammissibile, «non
ravvisandosi, nell’ordinanza di rimessione, argomentazioni in base alle quali
sia possibile comprendere per quali ragioni il Tribunale di Salerno ritenga che
la mancata iscrizione nei registri anagrafici limiti la libertà di soggiorno
del richiedente asilo».

 La questione
sarebbe comunque infondata, sia perché la situazione del richiedente asilo non
sarebbe assimilabile a quella del cittadino, al quale fa riferimento l’art. 16 Cost., sia perché la limitazione della
libertà di circolazione del richiedente asilo, possibile solo nelle ipotesi
particolari previste dalla legge (d.lgs. n. 142
del 2015), prescinderebbe dalla iscrizione o meno nei registri
anagrafici. 

11.- L’Avvocatura generale dello Stato ha depositato
due memorie integrative nei giudizi reg. ord. n. 145 e n. 153 del 2019. In esse
ha ribadito l’infondatezza della questione riferita all’art. 77 Cost., osservando che già la sentenza di
questa Corte n. 194 del 2019 avrebbe riconosciuto la legittimità, sotto questo
profilo, dell’art. 13 del d.l. n.
113 del 2018. Inoltre, l’Avvocatura rileva che, essendo lo status del
richiedente asilo precario, mancherebbe l’abitualità della sua dimora, «una
volta eliminata la fictio juris […] della dimora abituale connessa alla
ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza (art. 5, co. 3, d.lgs. 142/15)».

Dopo aver svolto alcune considerazioni sul permesso
di soggiorno per ragioni umanitarie, la difesa erariale si sofferma sulla
asserita violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., osservando che l’art. 2
del Prot. n. 4 CEDU e l’art. 12 del Patto internazionale relativo ai
diritti civili e politici riconoscono il diritto di fissare la residenza in uno
Stato solo a chi vi si trovi legalmente, cosicché tali norme non potrebbero
essere richiamate in relazione all’art. 13, che regola «la condizione dello
straniero nel tempo necessario per l’accertamento di quella legalità».

Ancora, l’Avvocatura ricorda che l’accesso ai
servizi è garantito ai richiedenti asilo nel luogo del domicilio, per cui le
regioni dovranno semplicemente adattare le proprie norme al nuovo sistema, con
la conseguenza che «quello della residenza/domicilio» sarebbe «un falso
problema».

In conclusione, la residenza anagrafica non sarebbe
un diritto fondamentale e l’iscrizione anagrafica sarebbe «un adempimento
amministrativo di per sé non condizionante alcun diritto fondamentale del
richiedente asilo».

 

Considerato in diritto

 

 1.- I
Tribunali ordinari di Milano, sezione prima (reg. ord. 145 del 2019), Ancona,
sezione prima (reg. ord. n. 153 del 2019) e Salerno, sezione civile feriale
(reg. ord. n. 158 e n. 159 del 2019), hanno sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma
1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della
direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure
comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione
internazionale), introdotto dall’art.
13, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113
(Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione,
sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero
dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per
l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, per violazione
complessivamente degli artt. 2, 3, 10, 16, 77, secondo
comma, 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art.
14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, all’art. 2, paragrafo 1, del Protocollo n.
4 della CEDU, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo
con il d.P.R. 14 aprile 1982, n. 217, che riconosce taluni diritti e libertà
diversi da quelli che figurano già nella convenzione e nel suo primo protocollo
addizionale, nonché in riferimento agli artt. 12 e 26 del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966,
entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.

I Tribunali rimettenti sono stati aditi da stranieri
richiedenti asilo cui è stata negata l’iscrizione anagrafica. I ricorsi
introduttivi dei giudizi davanti ai Tribunali di Ancona e di Salerno sono stati
proposti ex art. 700 del codice di procedura civile.
Quello dinanzi al Tribunale di Milano è stato promosso con ricorso ex art. 28 del decreto legislativo 1°
settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura
civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di
cognizione, ai sensi dell’articolo
54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), ed ex art. 44 del decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nonché
ex art. 702-bis cod. proc. civ.

 I giudizi
davanti ai Tribunali di Ancona e di Salerno sono dunque procedimenti cautelari
promossi sul presupposto del pregiudizio grave e irreparabile che potrebbe
derivare al ricorrente dal diniego di iscrizione anagrafica (conseguente
all’applicazione della norma censurata), in attesa della decisione di merito.
In questi giudizi i rimettenti hanno concesso la misura cautelare «con riserva
di confermare il provvedimento o caducarlo, ordinando quindi la cancellazione
dell’iscrizione, all’esito del giudizio di costituzionalità» (in questi
termini, il Tribunale di Ancona).   Il
giudizio davanti al Tribunale di Milano è un procedimento sommario di
cognizione promosso per chiedere, «previo occorrendo rinvio alla Corte
Costituzionale, la dichiarazione di invalidità e l’accertamento del carattere
discriminatorio del rifiuto opposto dal Comune di Milano alla iscrizione del
ricorrente nell’anagrafe della popolazione residente».

 1.1.- Le
quattro ordinanze di rimessione solo formalmente censurano disposizioni diverse
(art. 4, comma 1-bis, del d.lgs.
n. 142 del 2015 e art. 13,
comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 113 del 2018). Pertanto, in
ragione della identità del petitum, si rende opportuna la loro trattazione
congiunta (ex plurimis, sentenze n. 99 e n. 79 del 2020). I relativi giudizi
vanno perciò riuniti, per essere decisi con un’unica sentenza.

1.2.- In via ulteriormente preliminare, deve essere
dichiarata l’inammissibilità delle deduzioni svolte dalla difesa delle
associazioni ASGI-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e
Avvocati per Niente Onlus, costituite nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 145
del 2019, dirette ad estendere il thema decidendum – come fissato nella
ordinanza di rimessione – alla violazione dell’art. 8 CEDU e degli artt. 1, 7, 18, 20, 29 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Per costante giurisprudenza
di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via
incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle
ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione
«ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che
siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano
diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse
ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2011, n. 236 del 2009, n. 56 del
2009, n. 86 del 2008)» (sentenza n. 203 del 2016; nello stesso senso, sentenze
n. 165, n. 150 e n. 85 del 2020).

2.- Prima di esaminare le censure prospettate, si
impone una ricostruzione del quadro normativo, anche al fine di chiarire il
significato della disposizione censurata.

2.1.- L’art.
13 del d.l. n. 113 del 2018 ha apportato una serie di modifiche agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 142 del
2015 e ha disposto l’abrogazione del successivo art. 5-bis. In particolare,
l’art. 13 si compone di un solo comma, articolato, al suo interno, in tre
lettere (a, b e c). 

La lettera a) modifica l’art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015
e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2): con la prima al
comma 1 del citato art. 4 è aggiunto il seguente periodo (non  censurato dagli odierni rimettenti): «Il
permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del
decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445»; con la
seconda è inserito, dopo il comma 1 del citato art. 4, il comma 1-bis
(censurato da tutti i rimettenti) del seguente tenore: «1-bis. Il permesso di
soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica
ai sensi del decreto del Presidente della
Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286».

 La lettera b)
modifica l’art. 5 del d.lgs. n.
142 del 2015 e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2),
entrambe non censurate dagli odierni rimettenti: con la prima è così sostituito
il comma 3 del citato art. 5: «3. L’accesso ai servizi previsti dal presente
decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti
è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2»; con
la seconda è così modificato il comma 4 del citato art. 5: «le parole “un
luogo di residenza” sono sostituite dalle seguenti: “un luogo di
domicilio”».   Infine, la lettera c)
(anch’essa non censurata) dispone l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del
2015, che disciplinava le modalità di iscrizione anagrafica del richiedente
protezione internazionale.

2.2.- La disposizione censurata, in base alla quale
«[i]l permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per
l’iscrizione anagrafica […]», è stata oggetto di due opposte interpretazioni.

 2.2.1.- A
fronte dell’interpretazione fatta propria dagli odierni rimettenti che
sostengono – almeno in via principale (così il Tribunale di Milano) – l’effetto
preclusivo dell’iscrizione anagrafica e, su questo assunto, argomentano
sull’illegittimità costituzionale della disposizione de qua, si registra una
diversa opzione interpretativa (sostenuta, tra i primi, da: Tribunale di
Firenze, sezione quarta civile, ordinanza 18 marzo 2019; Tribunale di Bologna,
protezione internazionale civile, ordinanza 2 maggio 2019; Tribunale di Genova,
sezione undicesima civile, ordinanza 20 maggio 2019; Tribunale di Firenze,
sezione specializzata per l’immigrazione, la protezione internazionale e la
libera circolazione dei cittadini UE, ordinanza 27 maggio 2019; Tribunale di
Lecce, sezione prima civile, ordinanza 4 luglio 2019; Tribunale di Parma,
sezione prima civile, ordinanza 2 agosto 2019; Tribunale di Bologna, sezione
specializzata per l’immigrazione, la protezione internazionale e la libera
circolazione dei cittadini UE, ordinanza 23 settembre 2019; Tribunale di
Firenze, sezione quarta civile, ordinanza 22 novembre 2019; Tribunale di Roma,
sezione diritti della persona e immigrazione civile, ordinanza 25 novembre
2019), che, facendo leva sull’asserita ambiguità del dato letterale (e in
particolare sulla formula «non costituisce titolo»), esclude che l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018
impedisca l’iscrizione anagrafica, dovendosi piuttosto ritenere che esso si
limiti a precisare che il possesso del solo permesso di soggiorno per richiesta
di asilo non è sufficiente per ottenere l’iscrizione all’anagrafe. 

In particolare, i passaggi fondamentali di questo
percorso interpretativo sono i seguenti: la norma non contiene un divieto
esplicito di iscrizione anagrafica; nell’ordinamento non si  rinvengono documenti che «costituiscono
titolo» per l’iscrizione anagrafica; tale iscrizione è, piuttosto, l’esito di
un procedimento amministrativo diretto ad accertare una situazione di fatto;
esiste un diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica (fra le tante, Corte di
cassazione, sezioni unite civili, sentenze 26 maggio 1997, n. 4674, e 19 giugno
2000, n. 449), disciplinato dall’art.
1 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico
della popolazione residente); il diritto all’iscrizione anagrafica è esercitato
attraverso una dichiarazione dell’interessato all’ufficiale di stato civile,
con cui si dà atto della propria permanenza in un certo luogo e dell’intenzione
di abitarvi stabilmente; nel quadro normativo delineato (e così interpretato)
si inserisce, coerentemente, l’art.
6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, secondo cui: «Le iscrizioni e
variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono
effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità
previste dal regolamento di attuazione […]»; il permesso di soggiorno per
richiesta di asilo – ma la stessa cosa può dirsi per gli altri permessi di
soggiorno – non è mai stato «titolo» per l’iscrizione anagrafica; l’abrogazione
dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142
del 2015 ha come effetto solo quello di eliminare la modalità di iscrizione
“semplificata” ivi prevista e di far riespandere le modalità
ordinarie di iscrizione anagrafica (previste dal d.P.R.
n. 223 del 1989); infine, la previsione secondo cui «[l]’accesso ai servizi
previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai
sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio […]» non può
supplire alla limitazione dei diritti individuali connessi alla residenza
anagrafica.

2.2.2.- La descritta interpretazione non appare praticabile
per le ragioni di seguito indicate, dovendosi invece ritenere, come  sostenuto dai giudici rimettenti, che la
disposizione censurata precluda l’iscrizione anagrafica degli stranieri
richiedenti asilo.  Innanzitutto, depone
in tale senso quanto riportato nella relazione illustrativa del decreto-legge
e, negli stessi termini, in quella illustrativa del disegno di legge di sua
conversione. In questi documenti si legge, tra l’altro, che il «permesso di
soggiorno per richiesta asilo non consente l’iscrizione anagrafica dei
residenti» e che «[l]’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per
la precarietà del permesso per richiesta asilo e risponde alla necessità di
definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente». In questo modo,
del resto, la disposizione è stata letta anche dai vari soggetti auditi nel
corso del procedimento di conversione in legge del decreto, come risulta  dalle loro relazioni. In particolare, va
segnalato quanto affermato dal direttore dell’Istituto nazionale di statistica
(ISTAT), secondo cui «[i]l cambiamento normativo comporterà comunque
un’interruzione nella serie storica della popolazione residente, portando in
alcuni casi, specie a livello locale, variazioni non trascurabili del totale
della popolazione residente», e dal Ministro dell’interno, che, a fronte della
«difficoltà per le amministrazioni comunali di far fronte agli adempimenti in
materia di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo residenti sui loro
territori», ha individuato nella 
«precarietà della loro permanenza sul territorio» la ragione
dell’esclusione dell’iscrizione anagrafica.

Coerenti con queste premesse appaiono alcune
circolari diramate dal Ministero dell’interno dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, tra le quali quella del 18
ottobre 2018, recante «D.L. 4 ottobre 2018, n. 113
(G.U. n. 231 del 4/10/2018). Art.
13 (Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica)», in cui si legge:
«[p]ertanto, dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni il permesso di
soggiorno per richiesta di protezione internazionale di cui all’art. 4, comma 1, del citato d.lgs. n.
142/2015, non potrà consentire l’iscrizione anagrafica», e quella del 18
dicembre 2018 (Decreto-legge 4 ottobre 2018, n.
113, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione
internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la
funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento
dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei  beni sequestrati e confiscati alla criminalità
organizzata”, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132), nella quale si
legge: «[d]i conseguenza, ai richiedenti asilo – che, peraltro, non saranno più
iscritti all’anagrafe dei residenti (articolo 13) – vengono dedicate le
strutture di prima accoglienza (CARA e CAS), all’interno delle quali
permangono, come nel passato, fino alla definizione del loro status».   E’ inoltre significativo il dato letterale
delle disposizioni introdotte con l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018,
che puntano a sostituire il riferimento al luogo di residenza con quello al
luogo di domicilio e di conseguenza abrogano non solo la disposizione che
regola la speciale modalità di iscrizione anagrafica, ma la stessa previsione
dell’iscrizione anagrafica (art.
5-bis, comma 1, del d.lgs. n. 142 del 2015); modifica, quest’ultima in
particolare, che sarebbe priva di senso se la disposizione censurata intendesse
solo abrogare la modalità semplificata di iscrizione anagrafica, facendo
“riespandere” la modalità ordinaria.

Anche la lettura sistematica della disposizione
censurata conferma questa interpretazione. In particolare, il riferimento, in
essa contenuto, all’art. 6, comma
7, del d.lgs. n. 286 del 1998 (che, come detto, prevede l’iscrizione
anagrafica dello straniero regolarmente soggiornante «alle medesime condizioni
dei cittadini italiani») deve ritenersi operato al fine di dare atto della
deroga così introdotta alla previsione della disposizione richiamata. Inoltre,
avere previsto che «[i]l permesso di soggiorno costituisce documento di
riconoscimento […]» (art. 13, comma 1, lettera a, numero 1) si spiega solo
considerando che i richiedenti asilo non 
possono ottenere la carta d’identità che presuppone la residenza
anagrafica. Analogamente, le disposizioni di cui all’art. 13, comma 1, lettera b), numeri
1) e 2), del d.l. n. 113 del 2018, sostituendo il «luogo di residenza» con
quello di domicilio come luogo di erogazione dei servizi, confermano l’intento
del legislatore di escludere i richiedenti asilo dal riconoscimento giuridico
della dimora abituale operato per il tramite dell’iscrizione anagrafica. In
definitiva, l’opzione interpretativa seguita dai Tribunali rimettenti appare
confermata dalle considerazioni appena esposte. Si può quindi procedere
all’esame delle singole censure prospettate.

 3.- Per ragioni
di ordine logico, va considerata per prima la questione sollevata dal Tribunale
ordinario di Milano, prima sezione civile, con riferimento all’art. 77, secondo
comma, Cost., in quanto attiene ai presupposti del corretto esercizio della
funzione legislativa (sentenze n. 288 e n. 247 del 2019, n. 189 del 2018 e n.
169 del 2017).

 Nel proprio
atto di intervento, il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito
l’inammissibilità della questione, «in quanto già decisa dalla Corte nel senso
dell’infondatezza» con la sentenza n. 194 del 2019.

 Tale
eccezione non è fondata, per due ragioni: in primo luogo, la sentenza n. 194
del 2019 ha, sì, deciso varie questioni proposte in via principale contro il d.l. n. 113 del 2018, ma non è entrata nel
merito, dichiarando l’inammissibilità di tutte le questioni; in secondo luogo,
è pacifico che una precedente dichiarazione di infondatezza non è causa di
inammissibilità della questione riproposta ma può, eventualmente, condurre a una
dichiarazione di manifesta infondatezza (ex multis, sentenze n. 44 del 2020 e
n. 99 del 2017).

 3.1.- Nel
merito, la questione non è fondata.

Secondo questa Corte, «il sindacato sulla
legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge va
limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria
necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di
manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione» (sentenza n.
97 del 2019; in senso simile, sentenze n. 288 e n. 33 del 2019 e n. 137, n. 99
e n. 5 del 2018): ciò al fine di evitare la sovrapposizione tra la valutazione
politica del Governo e delle Camere (in sede di conversione) e il controllo di
legittimità costituzionale della Corte.  
In particolare, nei casi in cui questa Corte è stata chiamata a valutare
la conformità di una delle norme del decreto-legge (come nel caso di specie)
all’art. 77, secondo comma, Cost., essa ha
svolto il proprio giudizio in base a diversi criteri, quali: a) coerenza della
norma rispetto al titolo del decreto e al suo preambolo (ad esempio, sentenze
n. 288 e n. 33 del 2019, n. 137 del 2018); b) omogeneità contenutistica o
funzionale della norma rispetto al resto del decreto-legge (ex plurimis,
sentenze n. 149 del 2020, n. 97 del 2019 e n. 137 del 2018); c) utilizzo dei
lavori preparatori (ad esempio, sentenze n. 288 del 2019, n. 99 e n. 5 del
2018); d) carattere ordinamentale o di riforma della norma (ad esempio,
sentenze n. 33 del 2019, n. 99 del 2018 e n. 220 del 2013).

Il d.l. n. 113 del 2018,
intitolato «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e
immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del
Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia
nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e
confiscati alla criminalità organizzata», si articola in quattro titoli: il
primo (nel quale è inserito l’art. 13) contiene «Disposizioni in materia di
rilascio di speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere
umanitario nonché in materia di protezione internazionale e di immigrazione» ed
è articolato a sua volta in quattro Capi, il secondo dei quali comprende le
«Disposizioni in materia di protezione internazionale», fra le quali l’art. 13.
Tale Capo, fra l’altro, modifica la disciplina relativa al diniego, alla revoca
e alla cessazione della protezione internazionale, regola i casi di
reiterazione della domanda di protezione internazionale, novella le
disposizioni relative all’accoglienza dei richiedenti asilo.

La relazione illustrativa del disegno di legge di
conversione (A.S. n. 840, comunicato alla Presidenza del Senato il 4 ottobre
2018) fa riferimento all’urgenza di intervenire «nell’ambito di una complessa
azione riorganizzativa, concernente il sistema di riconoscimento della
protezione internazionale e le forme di tutela complementare, finalizzata in
ultima istanza a una più efficiente ed efficace gestione del fenomeno
migratorio nonché ad introdurre misure di contrasto al possibile ricorso
strumentale alla domanda di protezione internazionale». Con specifico
riferimento all’art. 13, nella stessa relazione si legge che «[l]’esclusione
dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per
richiesta asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la
condizione giuridica del richiedente».

Rinviando al punto successivo ogni valutazione sul
contenuto della norma censurata, si deve ritenere che con riferimento ad essa
non sia riscontrabile un’evidente mancanza dei presupposti di straordinaria
necessità e urgenza. L’art. 13 si inserisce in modo omogeneo nel capo
contenente le norme in materia di protezione internazionale, riguardando un
aspetto dello status dei richiedenti asilo: questa Corte, nella sentenza n. 194
del 2019, ha già ricondotto la norma sul divieto di iscrizione anagrafica dei
richiedenti asilo alle materie del «diritto di asilo e condizione giuridica dei
cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea», oltre che delle
«anagrafi» (art. 117, secondo comma, lettere a e i,
Cost.). Non a caso, nel suo parere del 14 novembre 2018 il Comitato per la
legislazione, pur esprimendo dubbi sull’omogeneità di alcune delle norme
inserite nel d.l. n. 113 del 2018, non
formulava rilievi sull’art. 13.

Né si può affermare che il Governo abbia deciso di
modificare con decreto-legge il sistema di riconoscimento della protezione
internazionale, al fine di una più efficiente ed efficace gestione del fenomeno
migratorio, nonostante un’evidente assenza di necessità e urgenza: di fronte al
massiccio afflusso dei richiedenti asilo e ai complessi problemi inerenti alla
sua gestione, non si può considerare manifestamente arbitraria la valutazione
del Governo sull’esistenza dei presupposti del decreto-legge. Se è vero che
l’art. 13 e le norme collegate non affrontano una nuova emergenza, è anche vero
che la persistenza di un problema può concretare le  ragioni di urgenza e che, «ricorrendone i
presupposti, il programma di Governo ben può essere attuato anche mediante la
decretazione d’urgenza» (sentenza n. 288 del 2019).

Per il tipo di sindacato che questa Corte svolge sul
rispetto dell’art. 77, secondo comma, Cost., la
norma censurata  upera dunque indenne il
vaglio di costituzionalità, sotto questo profilo.

4.- Passando agli altri parametri costituzionali
asseritamente  violati, i giudici a
quibus ritengono innanzitutto che la norma censurata si ponga in contrasto con
l’art. 3 Cost. sotto molteplici profili,
sostanzialmente perché introdurrebbe una deroga, priva dei «requisiti di
razionalità e ragionevolezza», alla disciplina più volte richiamata dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286
del 1998.   Le questioni di
legittimità costituzionale sollevate da tutti i rimettenti in riferimento all’art. 3 Cost. sono fondate.

4.1.- Sono innanzitutto meritevoli di accoglimento
le censure prospettate per l’irrazionalità intrinseca della disposizione
censurata, in ragione della sua incoerenza rispetto alle finalità  perseguite dal d.l.
n. 113 del 2018.

Come si è visto dalla ricostruzione della ratio
della norma in esame, il legislatore avrebbe inteso liberare le amministrazioni
comunali, sul cui territorio sono situati i centri di accoglienza degli
stranieri richiedenti asilo, dall’onere di far fronte agli adempimenti in
materia di iscrizione anagrafica degli stessi. Da questo punto di vista, la
precarietà della loro permanenza sul territorio è stata ritenuta argomento
idoneo a giustificare l’esclusione dell’iscrizione anagrafica.

Così provvedendo, tuttavia, il legislatore
contraddice la ratio complessiva del decreto-legge al cui interno si colloca la
disposizione denunciata. Infatti, a dispetto del dichiarato obiettivo
dell’intervento normativo di aumentare il livello di sicurezza pubblica, la
norma in esame, impedendo l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo,
finisce con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità
pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul suo territorio,
escludendo da essa una categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo,
regolarmente soggiornanti nel territorio italiano. E ciò senza che questa
esclusione possa ragionevolmente giustificarsi alla luce degli obblighi di
registrazione della popolazione residente.  
Pur non potendosi negare che sui comuni interessati gravi un onere
ulteriore (rispetto a quello gravante sugli altri comuni) connesso al disbrigo
delle pratiche relative alla registrazione anagrafica dei richiedenti asilo,
questa considerazione non può giustificare la “sottrazione” di una
categoria di soggetti alla “presa d’atto” formale della presenza
(qualificata in termini di dimora abituale) di una persona; “presa
d’atto” nella quale si sostanzia l’iscrizione anagrafica. In tal senso,
non si può sottacere che i moderni sistemi di anagrafe trovano fondamento
proprio in un’esigenza di registrazione amministrativa della popolazione
residente. Tale registrazione della situazione effettiva dei residenti nel
territorio comunale costituisce il presupposto necessario per l’adeguato
esercizio di tutte le funzioni affidate alla pubblica amministrazione, da
quelle di sicurezza e ordine pubblico, appunto, a quelle sanitarie, da quelle
di regolazione e controllo degli insediamenti abitativi all’erogazione di
servizi pubblici, e via dicendo.

 Escludendo
dalla registrazione anagrafica persone che invece risiedono sul territorio
comunale, la norma censurata accresce, anziché ridurre, i problemi connessi al
monitoraggio degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio
statale anche per lungo tempo, in attesa della decisione sulla loro richiesta
di asilo, finendo per questo verso col rendere problematica, anziché
semplificare, la loro stessa individuazione a tutti i fini, compresi quelli che
attengono alle vicende connesse alla procedura di asilo. Si deve considerare
inoltre che il diniego di iscrizione anagrafica sottrae i richiedenti asilo
alla diretta conoscibilità da parte dei comuni – con conseguenze tanto più
gravi a seguito dell’informatizzazione di dati e procedure – della loro
permanenza sul territorio, stante l’obbligo di comunicare il proprio domicilio
solo alla questura competente (art.
5, comma 1, d.lgs. n. 142 del 2015).

Né può essere fatto valere in senso contrario – come
fa l’Avvocatura dello Stato e, ancora prima, il Governo in occasione della
conversione in legge del decreto – l’argomento della precarietà della
permanenza legale sul territorio dei richiedenti asilo, in particolare ove si
riferisca tale condizione alla durata della residenza protratta, ossia
all’unico aspetto per cui essa rileva a fini della registrazione anagrafica.
All’argomento è agevole replicare, infatti, che il permesso di soggiorno di cui
si discute ha durata di sei mesi ed è rinnovabile «fino alla decisione della
domanda o comunque per il tempo in cui il suo destinatario è autorizzato a
rimanere nel territorio nazionale» (art.
4 del d.lgs. n. 142 del 2015), e che, nella stragrande maggioranza dei
casi, il periodo complessivo di permanenza dei richiedenti asilo nel nostro
Paese risulta essere di almeno un anno e mezzo (come messo in evidenza da tutti
i soggetti intervenuti o costituiti nel presente giudizio), soprattutto a causa
dei tempi di decisione sulle domande.

La descritta durata, legale e fattuale, del
soggiorno dello straniero richiedente asilo rappresenta, già da sola, un dato
espressivo di una permanenza protratta per un arco temporale rilevante e appare
inoltre particolarmente significativa alla luce di quanto previsto dall’art. 9 del decreto legislativo 6
febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva
2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro
familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri), che fissa in tre mesi il limite di permanenza del cittadino europeo
nello Stato membro diverso da quello di appartenenza, limite oltre il quale
sorge l’obbligo dell’iscrizione anagrafica. La citata disposizione stabilisce
in particolare che «[a]l cittadino dell’Unione che intende soggiornare in
Italia, ai sensi dell’articolo 7 per un periodo superiore a tre mesi, si
applica la legge 24 dicembre 1954, n. 1228, ed
il nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio
1989, n. 223» (comma 1), e che, «[f]ermo quanto previsto dal comma 1,
l’iscrizione è comunque richiesta trascorsi tre mesi dall’ingresso ed è
rilasciata immediatamente una attestazione contenente l’indicazione del nome e
della dimora del richiedente, nonché la data della richiesta» (comma 2). Del
resto, è lo stesso art. 6, comma
7, del d.lgs. n. 286 del 1998, che costituisce la previsione generale in
materia, a individuare nella permanenza protratta per tre mesi presso un centro
di accoglienza il periodo di tempo necessario per considerare abituale la
dimora dello straniero, presupposto, questo, per ottenere il riconoscimento
giuridico della residenza. Da ultimo, non è inutile osservare che la necessità
di un controllo e di un monitoraggio della residenza sul territorio degli
stranieri richiedenti asilo rileva, e presenta anzi particolare importanza,
anche a fini sanitari, poiché è sulla base dell’anagrafe dei residenti che il
comune può avere contezza delle effettive presenze sul suo territorio ed essere
in condizione di esercitare in maniera adeguata le funzioni attribuite al
sindaco dall’art. 32 della
legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario
nazionale), soprattutto in caso di emergenze sanitarie circoscritte al
territorio comunale. Da tutti i punti di vista considerati, dunque, la norma
censurata contraddice le finalità del d.l. n. 113
del 2018, e in particolare incide negativamente sulla funzionalità delle
pubbliche amministrazioni cui è affidata la cura degli interessi oggetto
dell’intervento normativo, perché impedisce di basare la loro azione su una
rappresentazione veritiera nei registri anagrafici della situazione effettiva
della popolazione residente nel loro territorio. 

4.2.- Ugualmente meritevoli di accoglimento sono le
censure prospettate per l’irragionevole disparità di trattamento che la norma
censurata determina tra stranieri richiedenti asilo e altre  categorie di stranieri legalmente
soggiornanti nel territorio statale, oltre che con i cittadini italiani.

Questa Corte ha, già da tempo, superato l’apparente
ostacolo frapposto dal dato letterale dell’art. 3
Cost. (che fa riferimento ai «cittadini»), sottolineando che, «se è vero
che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il
principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattisi  di rispettare [i] diritti fondamentali»
(sentenza n. 120 del 1967), e ha chiarito inoltre che al legislatore non è
consentito introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai
singoli consociati se non «in presenza di una “causa” normativa non
palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria» (sentenza n. 432 del 2005).

Nelle singole situazioni concrete, la posizione
dello straniero può certo risultare diversa rispetto a quella del cittadino
(sempre sentenza n. 120 del 1967) e quindi non si può per ciò solo escludere la
ragionevolezza della disposizione che ne prevede un trattamento diversificato.
Infatti, «la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della
titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni
concrete, non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che
il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale
non trova altro limite se non nella razionalità del suo apprezzamento»
(sentenza n. 104 del 1969, richiamata dalle pronunce successive, sentenze n.
144 del 1970, n. 177 e n. 244 del 1974, n. 62 del 1994, n. 245 del 2011, e
ordinanze n. 503 del 1987, n. 490 del 1988).

Sulla base di questi argomenti si può così affermare
che la particolarità delle «situazioni concrete» può giustificare un diverso
trattamento tra differenti categorie di stranieri legalmente soggiornanti, in
ragione del motivo e della durata del loro soggiorno, come è, per esempio, nel
caso della normativa che limita ai cosiddetti soggiornanti di lungo periodo il
riconoscimento di determinati diritti, e come, in principio, potrebbe essere
per i richiedenti asilo, in ragione del fatto che la loro permanenza – pur,
come visto, di durata non breve e non di rado anche alquanto lunga – è comunque
destinata a mutare di titolo nel caso di concessione della protezione
internazionale o, diversamente, a cessare.  
Negando l’iscrizione anagrafica a coloro che hanno la dimora abituale
nel territorio italiano, tuttavia, la norma censurata riserva un trattamento
differenziato e indubbiamente peggiorativo a una particolare categoria di
stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione: se infatti la
registrazione anagrafica è semplicemente la conseguenza del fatto oggettivo
della legittima dimora abituale in un determinato luogo, la circostanza che si
tratti di un cittadino o di uno straniero, o di uno straniero richiedente
asilo, comunque regolarmente insediato, non può presentare alcun rilievo ai
suoi fini.

 Come già
ricordato, la regola generale in tema di iscrizioni anagrafiche dello straniero
regolarmente soggiornante è contenuta nell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286
del 1998 («Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente
soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani
con le modalità previste dal regolamento di attuazione»), al quale la norma
censurata deroga senza alcun ragionevole motivo. Questa Corte ha già chiarito
che qualsiasi scelta legislativa che si discosti dalle norme generali del d.lgs. n. 286 del 1998 «dovrebbe permettere di
rinvenire nella stessa struttura normativa una specifica, trasparente e
razionale “causa giustificatrice”, idonea a “spiegare”, sul
piano costituzionale, le “ragioni” poste a base della deroga»
(sentenza n. 432 del 2005): il che non si può dire della norma censurata.
Infatti, la temporaneità del soggiorno dei richiedenti asilo non può
giustificare il diniego di iscrizione anagrafica, sia per le ragioni esposte
nel punto precedente, sia perché, se la stessa temporaneità fosse incompatibile
con l’iscrizione anagrafica, allora bisognerebbe escludere dalla registrazione
molti altri stranieri regolari, titolari di permessi di durata limitata, che
potrebbero non essere rinnovati (quali, ad esempio, quelli previsti all’art. 5, comma 3-bis, del d.lgs. n.
286 del 1998).

Considerazioni analoghe possono essere svolte anche
con riferimento alla deroga irragionevolmente operata dalla norma censurata
rispetto a quanto previsto in via generale dall’art. 2, comma 2, dello stesso
decreto legislativo, in base al quale «[lo straniero regolarmente soggiornante
nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al
cittadino italiano […]». Essa priva, infatti, i richiedenti asilo del diritto
a iscriversi all’anagrafe dei residenti, senza una causa giustificatrice idonea.

Per la portata e per le conseguenze anche in termini
di stigma sociale dell’esclusione operata con la norma oggetto del presente
giudizio, di cui è non solo simbolica espressione l’impossibilità di ottenere
la carta d’identità, la prospettata lesione dell’art.
3, primo comma, Cost. assume in questo contesto – al di là della stessa
violazione del principio di eguaglianza – la specifica valenza di lesione della
connessa «pari dignità sociale».

Pur potendo il legislatore valorizzare le esistenti
differenze di fatto tra cittadini e stranieri (sentenza n. 104 del 1969), esso
non può porre gli stranieri (o, come nel caso di specie, una certa categoria di
stranieri) in una condizione di “minorazione” sociale senza idonea
giustificazione, e ciò per la decisiva ragione che lo status di straniero non
può essere di per sé considerato «come causa ammissibile di trattamenti
diversificati e peggiorativi» (in questi termini sentenza n. 249 del 2010;
analogamente, tra le tante, sentenze n. 166 del 2018, n. 230, n. 119 e n. 22
del 2015, n. 309,  n. 202, n. 172, n. 40
e n. 2 del 2013, n. 172 del 2012, n. 245 e n. 61 del 2011, n. 187 del 2010, n.
306 e n. 148 del 2008, n. 324 del 2006, n. 432 del 2005, n. 252 e n. 105 del
2001, n. 203 del 1997, n. 62 del 1994, n. 54 del 1979, n. 244 e n. 177 del
1974, n. 144 del 1970, n. 104 del 1969, n. 120 del 1967). La norma censurata,
privando i richiedenti asilo del riconoscimento giuridico della loro condizione
di residenti, incide quindi irragionevolmente sulla «pari dignità sociale»,
riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in
quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua
permanenza regolare nel territorio italiano. 
Da questo punto di vista, in concreto, il diniego di iscrizione
anagrafica presenta effetti pregiudizievoli per i richiedenti asilo quanto
all’accesso ai servizi anche ad essi garantiti. Senza entrare nel merito della
dibattuta questione relativa alla possibilità o meno di ottenere, per ciascun
servizio, l’erogazione da parte delle amministrazioni competenti in assenza
della residenza anagrafica – questione che non viene in rilievo in questa sede
– non si può negare che la previsione della fornitura dei servizi nel luogo di
domicilio, anziché in quello di residenza (art. 13, comma 1, lettera b, numero
1, del d.l. n. 113 del 2018), rende, quantomeno, ingiustificatamente più
difficile l’accesso ai servizi stessi, non fosse altro che per gli ostacoli di
ordine pratico e burocratico connessi alle modalità di richiesta
dell’erogazione – che fanno quasi sempre riferimento alla residenza e alla sua
certificazione a mezzo dell’anagrafe – e per la stessa difficoltà di
individuare il luogo di domicilio, a fronte della certezza offerta invece dal
dato formale della residenza anagrafica.

Si deve pertanto concludere che, anche sotto questo
profilo, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento
all’art. 3 Cost. è fondata.

5.- Dall’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n.
142 del 2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero
2), del d.l. n. 113 del 2018, deriva l’illegittimità costituzionale
dell’intero art. 13 citato. Come messo in evidenza nel punto 2.2.2, il
complesso delle disposizioni contenute nello stesso art. 13 costituisce infatti
un insieme organico, espressivo di una logica unitaria, che trova il suo fulcro
nel divieto di iscrizione anagrafica.

Visto l’art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), va perciò dichiarata in via consequenziale
l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018. 

6.- Sono assorbite le ulteriori questioni di legittimità
costituzionale prospettate dai Tribunali rimettenti.

 

P.Q.M.

 

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto
legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE
recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione
internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai
fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale),
come introdotto dall’art. 13,
comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113
(Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione,
sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero
dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per
l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati  alla criminalità organizzata), convertito,
con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018,
n. 132;

2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma
1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, dal
Tribunale ordinario di Milano, prima sezione civile, con l’ordinanza indicata
in epigrafe.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 05
agosto 2020, n. 32.

Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 31 luglio 2020 n. 186
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