Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 agosto 2020, n. 17487

Inefficacia del trasferimento di ramo di azienda,
Prosecuzione del rapporto di lavoro con la società cedente, Ordine di
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, Inadempienza, Attività
espletata in favore della cessionaria, Mero rapporto di fatto, Diritto
all’erogazione della retribuzione, quale controprestazione anche della sola
messa a disposizione delle energie lavorative, Retribuzioni corrisposte dal
destinatario della cessione, non producono effetto estintivo

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 1363/2013 la Corte di appello di
Milano ha confermato la decisione di primo grado con la quale T. I. s.p.a. era
stata condannata al pagamento in favore G.C. della somma lorda di € 46.497,47 a
titolo di retribuzione relativa al periodo dal 1.5.2008 al 30.6.2009, durante
il quale la società datrice non aveva adempiuto all’ordine di reintegrazione
del lavoratore nel posto di lavoro, ordine conseguente alla inefficacia del
trasferimento di ramo di azienda (al quale era addetto il C.) dalla società T.
a T. s.p.a., accertata in altro giudizio inter partes con statuizione divenuta
definitiva.

1.1. La Corte di merito ha ritenuto che la
inefficacia del trasferimento del ramo di azienda al quale era addetto il C.
aveva comportato la giuridica prosecuzione del rapporto di lavoro con la
società cedente e che l’attività nelle more espletata in favore della
cessionaria configurasse un mero rapporto di fatto assoggettato alla disciplina
dell’art. 2126 cod. civ.; la tempestiva
impugnazione del trasferimento da parte dei lavoratori (fra i quali il C.) non
consentiva di ravvisare, infatti, nella condotta di costoro, che avevano dato
corso al rapporto con la cessionaria e, quindi, in presenza di grave crisi
aziendale, accettato la risoluzione di tale rapporto, una rinunzia alla pretesa
nei confronti di T. o la accettazione degli effetti del trasferimento o,
comunque, della cessione a T. dell’originario rapporto, essendo tale condotta
giustificata dall’intento di far fronte a fondamentali esigenze di
sostentamento del lavoratore. In tale contesto, la persistenza giuridica del
rapporto di lavoro con la società cedente giustificava la erogazione della
retribuzione, quale controprestazione anche della sola messa a disposizione
delle energie lavorative in favore della originaria datrice di lavoro; né il
diritto alla retribuzioni poteva venir meno per effetto della indennità di
mobilità nelle more percepita dal lavoratore, attesa la natura previdenziale e
non retributiva di tale trattamento la cui erogazione non era direttamente
ricollegabile al rapporto di lavoro con T. e comunque suscettibile, in presenza
del venir meno del titolo giustificativo, di essere oggetto di azione di ripetizione
da parte dell’ente erogatore; neppure era sostenibile che nel caso di specie
l’offerta della prestazione lavorativa non fosse possibile a seguito della
collocazione in mobilità dell’appellato, circostanza priva di valenza
preclusiva all’invocato ripristino del rapporto.

2. Per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso T. I. s.p.a. sulla base di quattro motivi; la parte intimata ha
resistito con controricorso.

3. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai
sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.;

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente,
deducendo violazione e falsa applicazione degli artt.
2112 cod. civ. e dell’art. 2126 cod. civ.,
critica la sentenza impugnata per avere, sul presupposto della retroattività
degli effetti della sentenza dichiarativa della illegittimità del trasferimento
del ramo di azienda, configurato come di mero fatto il rapporto di lavoro
instaurato con la cessionaria; sostiene che, al contrario, prima della sentenza
di accertamento della illegittimità del trasferimento, il rapporto di lavoro
con la cessionaria doveva considerarsi nel suo pieno vigore da un punto di
vista giuridico e fattuale; in conseguenza, la transazione, con accettazione
della collocazione in mobilità, con la società T., intervenuta in epoca
precedente alla detta sentenza, aveva comportato la estinzione dell’unico
rapporto di lavoro che non poteva essere ricostituito sulla base della sentenza
dichiarativa della illegittimità della cessione.

2. Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente
deduce omesso esame di un fatto decisivo per la controversia. Premesso che, per
come pacifico, il C., al momento della emanazione della sentenza che aveva
accertato la illegittimità della cessione, aveva già cessato il rapporto di
lavoro con T. avendo egli aderito alla procedura di mobilità volontaria
promossa dall’azienda cessionaria, assume che ciò implicava l’accettazione
degli effetti dell’avvenuta modificazione soggettiva del rapporto e il
riconoscimento di T. quale effettiva datrice di lavoro.

3. Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente,
deducendo violazione e falsa applicazione dell’art.
2126 cod. civ. con riferimento agli artt. 4, 7 e 16, legge n. 223 del 1991 e
violazione degli artt. 8 e 9
legge n. 223 del 1991, censura la sentenza impugnata per avere ricondotto
ad una prestazione di fatto, rilevante ai soli fini dell’art. 2126 cod. civ., il rapporto con la
cessionaria, non avvedendosi che in tal modo il C. non avrebbe potuto accedere
al trattamento di mobilità dallo stesso pacificamente percepito nel periodo
2005/2009. t Evidenzia che la disciplina in tema di mobilità presuppone la
esistenza di un rapporto di lavoro valido a fini giuridici e che gli artt. 8 e 9 della legge n. 223 del
1991 prevedono la incompatibilità del trattamento economico di mobilità con
qualsivoglia rapporto di lavoro per il quale si ha diritto alla retribuzione.

Rappresenta, inoltre, che, anche ove illegittimo il
trasferimento, la vicenda sarebbe sussumibile nell’ambito della cessione del
contratto di lavoro priva di consenso, vicenda giuridicamente rilevante ed in
quanto tale non riconducibile all’ambito regolato dall’art. 2126 cod. civ..

4. Con il quarto motivo parte ricorrente, deducendo
violazione e falsa applicazione degli artt. 1206,
1207 e 1223 cod.
civ., censura la sentenza impugnata per avere affermato, pur ribadendo il
nesso di corrispettività tra prestazione di lavoro e retribuzione, che in
presenza di una illegittima sospensione o cessazione del rapporto l’obbligo
retributivo si converte in obbligazione risarcitoria.

Argomenta che ove dovesse ritenersi che la Corte
aveva inteso fare riferimento all’art. 1223 cod.
civ. la sentenza sarebbe errata in base al principio del danno effettivo in
quanto, in questo caso, al lavoratore sarebbero spettate esclusivamente le
differenze tra quanto percepito a titolo di indennità di mobilità e la
retribuzione dovuta da T.; ove il giudice di appello avesse, invece, inteso
applicare i principi in tema di mora occorreva che la offerta del lavoratore
avesse ad oggetto una prestazione effettivamente possibile, situazione non
configurabile rispetto al C. il quale fino all’anno 2005 aveva prestato la
propria attività in favore di T. e poi era stato collocato in mobilità.

5. Il primo motivo di ricorso deve essere respinto
in conformità con il recente arresto di questa Corte al quale si ritiene di
dare continuità.

Secondo l’indirizzo richiamato, che costituisce
superamento dell’orientamento espresso dalla precedente giurisprudenza di
questa Corte (orientamento che annovera, fra le altre, Cass. 25/06/2018, n. 16694 e Cass. 09/09/2014, n. 18955), in caso di accertata
illegittimità della cessione di ramo d’azienda, le retribuzioni corrisposte dal
destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore
successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in
favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte,
dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza
giustificazione, la controprestazione lavorativa, in quanto l’invalidità della
cessione determina l’istaurazione di un diverso ed autonomo rapporto di lavoro,
in via di mero fatto, con il cessionario (Cass.
11/11/2019 n. 29092, in motivazione; Cass. 21/10/2019 n. 26762, in
motivazione; Cass. 07/08/2019, n. 21158; Cass. 03/07/2019, n. 17784).

5.1. La condivisibile argomentazione di fondo sulla
quale riposa l’affermazione della natura di mero fatto del rapporto con il
soggetto cessionario muove dalla considerazione che il trasferimento d’azienda
comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato,
nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i
presupposti di cui all’art. 2112 cod. civ. che,
in deroga all’art. 1406 cod. civ., consente la
sostituzione del contraente senza consenso del ceduto. Tale unicità è destinata
a venire meno qualora il trasferimento sia dichiarato invalido, con la
conseguenza che con il soggetto cessionario si instaura un nuovo rapporto,
diverso da quello instaurato con il soggetto cedente; l’unicità del rapporto
presuppone, infatti, la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 cod. civ., sicché accertatane
l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in
via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee
ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il
cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria
giudiziale); in caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti
richiesti dall’art. 2112 cod.civ.) e di
inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della
parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione) il rapporto di lavoro,
quindi, non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente
(cfr. da ultimo: Cass. 28/02/2019, n. 5998). Da tanto consegue che le vicende
concernenti il rapporto <<di fatto>> instaurato con il soggetto
cessionario non possono spiegare alcuna efficacia sul (parallelo) rapporto di
lavoro con il cedente.

5.2. Alla luce di quanto ora osservato la sentenza
impugnata, che ha negato efficacia risolutiva del rapporto di lavoro con T.
all’accordo transattivo intervenuto fra il lavoratore ed il soggetto
cessionario, risulta conforme a diritto e deve, pertanto, essere confermata.

6. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

La circostanza della quale la odierna ricorrente
denunzia l’omesso esame da parte del giudice di merito, rappresentata
dall’adesione prestata dal lavoratore alla procedura di mobilità volontaria
promossa dall’azienda cessionaria, circostanza che si assume implicare l’accettazione
dell’avvenuta modificazione soggettiva del rapporto, è stata espressamente
presa in considerazione dalla Corte di merito la quale a tal fine ha operato un
rinvio, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att.
cod. proc. civ., alla sentenza della Corte di appello di Milano n.
1467/2012, intervenuta fra le medesime parti, con riferimento alle <<
retribuzioni maturate nel periodo antecedente a quello oggetto di causa>>
(sentenza pag. 3, penultimo capoverso). Nella sentenza richiamata viene
espressamente escluso che nella condotta del lavoratore che aveva dato corso al
rapporto con la società cessionaria e ne aveva poi accettato la risoluzione,
fosse ravvisabile una rinunzia alla pretesa nei confronti di T. o un’accettazione
degli effetti del trasferimento (v. sentenza pag. 5, primo capoverso) e tanto è
sufficiente ad escludere in radice la configurabilità della omissione
denunziata.

7. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile per
non essere la relativa articolazione conforme alla deduzione del vizio di cui
all’art. 360, comma 1, n, 3 cod. proc. civ..

Non si configurano le denunciate violazioni di norme
di legge, per insussistenza dei requisiti loro propri di verifica di
correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata
precettiva delle norme, né di sussunzione del fatto accertato dal giudice di
merito nell’ipotesi normativa, né tanto meno di specificazione delle
affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente
assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con
l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla
prevalente dottrina (Cass. 26/06/2013, n. 16038; Cass. 28/02/2012, n. 3010;
Cass. 28/11/2007, n. 24756; Cass. 31/05/2006, n. 12984).

7.1. La sentenza impugnata non contiene, né la
illustrazione del motivo la evidenzia, alcuna affermazione in diritto in
contrasto con l’assunto che una prestazione di mero fatto ai sensi dell’art. 2126 cod. civ. non avrebbe potuto consentire
l’applicazione nei confronti del lavoratore di una procedura di mobilità e la
percezione del relativo trattamento. Tale questione risulta solo marginalmente
affrontata dalla sentenza impugnata e risolta comunque in termini che finiscono
con il confermare l’assunto del ricorrente; il giudice di appello, infatti,
nell’escludere la detraibilità del trattamento di mobilità dall’importo delle
retribuzioni dovute al lavoratore, argomenta/ oltre che dalla natura
previdenziale del detto trattamento dalla possibilità di una azione di
ripetizione di indebito da parte dell’ente qualora dovesse venire meno il
relativo titolo giustificativo (sentenza, pag. 6), con implicito riferimento ai
presupposti della prestazione previdenziale tra le quali è quella di un
rapporto non di mero fatto ma giuridicamente valido.

8. Il quarto motivo di ricorso è infondato.

La sentenza n. 1467/2012 della Corte di appello di
Milano, richiamata anche ai sensi dell’art. 118
disp att. cod. proc. civ. dalla Corte di merito, ha riconosciuto che
correttamente il giudice di primo grado aveva accolto la domanda di pagamento
delle spettanze retributive reclamate dai lavoratori <<atteso che i
predetti, con l’impugnazione dell’avvenuto trasferimento del ramo di azienda e
della conseguente cessione del relativo rapporto di lavoro si erano comunque
messi a disposizione di T. per rendere la prestazione lavorativa>>
(sentenza, pag. 5, primo capoverso). Il riconoscimento del diritto alle
retribuzioni nei confronti della datrice di lavoro T., pur in presenza di
prestazione (retribuita) resa nei confronti del soggetto cessionario, è
conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale in caso di
cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga
giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 cod. civ., il pagamento delle
retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del
lavoratore successivamente a detto accertamento ed alla messa a disposizione
delle energie lavorative in favore dell’alienante da parte del lavoratore, non
produce effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva
gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione
lavorativa (Cass. 17784/2019 cit., Cass. 21158/2019 cit.).

In particolare, Cass.
21158/2019 cit., alla quale si rinvia per l’approfondimento sistematico, ha
affermato che la duplicità di rapporti di lavoro conseguenti a un trasferito di
azienda non conforme al parametro legale, comporta <accanto ad una
prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il
lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda,
abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne sia un’altra
giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto
di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato
del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto>>.
E’ proprio il persistere della rilevanza giuridica del rapporto con il soggetto
datore di lavoro cedente giustifica il riconoscimento del diritto del
dipendente alla retribuzione e ciò tanto se la prestazione di lavoro sia
effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di
mora accipiendi nei suoi confronti (v., Cass.
23/07/2008, n. 20316; Cass. 23/11/2006, n. 24886). Una volta offerta la
prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il
rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione
delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la
conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione
retributiva. Né tale prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo esclude
una valida offerta di prestazione all’originario datore (v. Cass. 08/04/2019,
n. 9747), considerato che, una volta che l’impresa cedente, costituita in mora,
dovesse manifestare la volontà di accettare la prestazione, il lavoratore
potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente,
ma anche effettivamente, in favore di essa e, ove ciò non facesse, verrebbero
automaticamente meno gli effetti della mora credendi.

8.1. Da tutto quanto ora osservato scaturisce che
una volta giudizialmente accertata la insussistenza dei presupposti per il
trasferimento del ramo d’azienda, ove vi sia messa in mora operata del
lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa cedente di pagare la retribuzione e non
di risarcire un danno; non vi è norma di diritto positivo che consenta di
ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in
parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell’impresa
originaria destinataria della cessione.

9. Dalle superiori argomentazioni discende il
rigetto del ricorso. La compensazione delle spese di lite è giustificata in
ragione della rivisitazione dell’indirizzo giurisprudenziale sulla questione.

10. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13,
se dovuto (Cass. Sez. Un. n. 23535 del 2019).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Compensa le spese.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 agosto 2020, n. 17487
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