Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 settembre 2020, n. 18243

Licenziamento per giusta causa, Delibera di esclusione da
socio di cooperativa, Contestazione disciplinare tempestiva, Momento in cui
gli amministratori giudiziari hanno assunto la gestione della società,
Apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, Elementi di fatto come
fonti di presunzione, Ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e
concordanza

 

Premesso

 

che con sentenza n. 3795/2018, pubblicata il 17
ottobre 2018, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza di primo
grado, con la quale il Tribunale della medesima sede, in esito alla fase di
opposizione, aveva ritenuto legittimi il licenziamento per giusta causa e la
delibera di esclusione da socio disposti nei confronti di M.M. dalla soc. C. –
Cooperativa Sociale Integrata;

– che la Corte ha, in sintesi, rilevato come la
contestazione disciplinare, comunicata con lettera del 21 aprile 2016, fosse
tempestiva, dovendosi avere riguardo al momento in cui gli amministratori
giudiziari, nominati dal Tribunale di Roma – Sezione Misure di Prevenzione con
decreto 30 marzo 2016, avevano assunto la gestione della società ed erano stati
di conseguenza posti nella condizione di apprendere i fatti e inoltre dovendosi
considerare che il M. era stato Presidente del Consiglio di Amministrazione
fino al 27 novembre 2015 e che soltanto in data 1 gennaio 2016 l’assemblea
aveva provveduto al rinnovo delle cariche sociali; quanto, poi, al merito degli
addebiti, la Corte di appello ha ritenuto che ne fosse stata dimostrata la
piena fondatezza, alla stregua del materiale istruttorio acquisito al giudizio;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per
cassazione il M., affidandosi a due motivi, cui la società ha resistito con
controricorso;

– che il ricorrente ha depositato memoria;

 

rilevato

 

che con il primo motivo viene dedotta la violazione
e falsa applicazione degli artt. 2727 e  2729 cod. civ.
per avere la Corte di merito erroneamente fondato la propria decisione sul
decreto di perquisizione della Procura della Repubblica di Roma in data 29
maggio 2015, sul decreto del Tribunale di Roma 3 marzo 2016 applicativo della
misura di prevenzione e sul provvedimento del Tribunale di ratifica
dell’operato degli amministratori giudiziari, dai quali, tuttavia, non poteva
trarsi la prova di alcun fatto illecito a carico del ricorrente, mentre da
taluni atti richiamati nel decreto di perquisizione, fra cui le trascrizioni di
due intercettazioni telefoniche, era dato desumere elementi di segno contrario;

– che con il secondo viene dedotta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 3, secondo
comma, 35, primo capoverso, e 41, secondo capoverso, Cost. nonché dell’art. 3 I. 15 luglio 1966, n. 604,
dell’art. 18, comma 5, I. 20
maggio 1970, n. 300 e degli artt.
35 e segg. del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 per avere la Corte affermato
che la lettera di contestazione disciplinare e il licenziamento erano
tempestivi in quanto provenienti dagli amministratori giudiziari nominati da
breve tempo, senza peraltro valutare che il rapporto di lavoro esistente fra le
parti era sempre stato lo stesso e che, pertanto, l’intervenuto mutamento degli
amministratori della società era da considerarsi irrilevante;

 

osservato

 

che il primo motivo è inammissibile;

– che, infatti, con esso, dietro lo schermo della
denuncia del vizio di cui all’art. 360 n. 3,
viene proposta una nuova lettura e un diverso apprezzamento del materiale
probatorio e cioè il compimento di un’attività giudiziale che è estranea alla
funzione assegnata alla Corte di legittimità, essendo invece propria del
giudice di merito;

– che è del tutto consolidato il principio, per il
quale spetta in via esclusiva a quest’ultimo il compito di individuare le fonti
del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza
delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle
ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse
sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di
prova (Cass. n. 25608/2013, fra le molte conformi);

– che è inoltre consolidato il principio, secondo il
quale “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni,
nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova
testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di
alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie,
di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono
apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a
fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre,
non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio
convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a
confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente
disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati
specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata”
(Cass. n. 16056/2016, fra le molte conformi);

– che, d’altra parte, “In tema di prova
presuntiva, è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice
del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione,
gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto
come fonti di presunzione, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità
circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti
segnati dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.”
(Cass. n. 1234/2019);

– che risulta parimenti inammissibile il secondo
motivo, posto che la valutazione della tempestività della contestazione
dell’addebito, integrando un apprezzamento di fatto riservato al giudice di
merito, è insindacabile in sede di legittimità se sorretta – come nella specie
(cfr. sentenza impugnata, par. 8.4, pp. 8-10) – da motivazione adeguata ed
immune da vizi logici (Cass. n. 11933/2003);

 

ritenuto

conclusivamente che il ricorso deve essere
dichiarato inammissibile;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in
euro 200 per esborsi, 6.000 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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