Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 settembre 2020, n. 20243

Licenziamento per giusta causa, Abuso dei permessi ex art. 33, commi 3 e 6, L. n.
104/1992, Lavoratore portatore di disabilità, Aumento dei giorni di
assenza in concomitanza con le festività, Finalità estranee a quelle connesse
alla cura della sua condizione di invalido, Necessità di una più agevole
integrazione familiare e sociale

 

Rilevato che

 

1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza
n.359 depositata il 15.10.2018, ha confermato la sentenza del Tribunale della
medesima sede ed ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa
intimato da M. s.p.a. con socio unico, con lettera del 23.6.2017, a S.R. per
abuso dei permessi ex art. 33,
commi 3 e 6, della legge n. 104 del 1992, avendo, il lavoratore portatore
di disabilità, aumentato i giorni di assenza in concomitanza con le festività
e, dunque, per finalità estranee a quelle connesse alla cura della sua
condizione di invalido.

2. La Corte di appello, ha osservato, che l’art. 33 aveva ad oggetto le
agevolazioni da riconoscere ai soggetti disabili ai fini della piena
integrazione nella società e nel mondo del lavoro, soggetti che, nella veste di
lavoratori (e a differenza dei lavoratori che prestavano assistenza a parenti
disabili), potevano fruire ad ampio spettro dei permessi, anche per finalità
sganciate da esigenze di cura o di visite mediche, dovendosi intendere che il
richiamo del comma 6 al comma 3 della medesima disposizione si riferisse
esclusivamente alla tipologia della agevolazione (nella specie i permessi orari
o giornalieri); ha puntualizzato la differenza tra i permessi e le ferie e ha
disposto la reintegrazione del lavoratore ai sensi dell’art. 18, comma 4, della legge n.
300 del 1970 non rivestendo alcun profilo disciplinare l’utilizzo dei
permessi in continuità con giorni di festività.

3. Per la cassazione di tale sentenza la società ha
proposto ricorso affidato a quattro motivi. Il sig. R. ha resistito con
controricorso.

4. Il Procuratore generale, con memoria depositata
il 27.5.2020, ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 33, commi 3 e 6, della
legge n. 104 del 1992, 36 Cost., 1322 e 1345 cod.civ.
avendo, la Corte territoriale ritenuto che l’utilizzo dei permessi da parte del
lavoratore disabile (a differenza dei permessi usufruiti dai lavoratori che
forniscono assistenza al disabile) non è vincolato necessariamente allo
svolgimento di visite mediche o di altri interventi di cura neppure da parte
del soggetto che assiste il portatore di handicap, posto che la normativa
tratta delle “agevolazioni” riconosciute ai disabili (a differenza
dell’obiettivo dei permessi concessi ai soggetti che assistono il disabile,
strettamente funzionali all’assistenza); l’espresso richiamo del comma 6, dell’art.33 della legge n. 104 al
comma 3 nonché l’interpretazione teleologica della norma impongono, invece,
secondo il ricorrente, di interpretare la disposizione nel senso che il
disabile può fruire dei permessi esclusivamente per scopi collegati
direttamente e/o indirettamente all’esigenza di tutela e/o cura e/o assistenza
e non certamente per finalità ricreative e/o personali, senza confusione con le
esigenze di recupero delle energie psico-fisiche alle quali è preposto il
diverso istituto delle ferie e senza utilizzi devianti dell’esercizio del
diritto.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod.civ., avendo, la Corte territoriale
rinvenuto l’insussistenza di una giusta causa di licenziamento nonostante
sviamento della funzione di assistenza propria dei permessi e intensità
dell’elemento psicologico rispetto a tale uso improprio, dimostrata da una
condotta reiterata e già sanzionata con precedenti provvedimenti disciplinari.

3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5,
cod.proc.civ., omesso esame di un fatto decisivo, avendo, la Corte
territoriale trascurato di valutare circostanze decisive, provate
documentalmente, che dimostravano lo svolgimento, da parte del lavoratore disabile,
di attività defatiganti, e, soprattutto, in contrasto con il suo stato di
invalidità e con le prescrizioni contenute nel verbale della Commissione medica
per l’accertamento delle disabilità (che esclude la possibilità di fare uso di
scale, di movimentare carichi, di usare macchine semimoventi) posto che il R. –
durante le giornate di permesso – ha affrontato lunghi viaggi alla guida della
sua autovettura, ha effettuato numerosi spostamenti in auto, ha movimentato
carichi quali borse della spesa.

4. Con il quarto motivo di ricorso si denunzia, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970
avendo, la Corte territoriale trascurato che l’abuso dei permessi integrava un
fatto sussistente, imputabile al lavoratore e avente rilievo disciplinare, con
conseguente impossibilità di applicare il regime reintegratorio del comma 4
dell’art. 18 della legge n.
300.

5. Il ricorso, che consente la trattazione congiunta
di tutti i motivi in quanto strettamente connessi, non è fondato.

6. L’art.
33, comma 6, della legge n. 104 del 1992 è preordinato a garantire
determinati diritti al portatore di handicap grave prevedendo la possibilità di
usufruire alternativamente di permessi giornalieri (due ore) o mensili (tre
giorni), di scegliere – ove possibile – una sede di lavoro più vicina al
domicilio, di non essere trasferito in altra sede senza il suo consenso.

La tecnica legislativa prevede, con riguardo alla
individuazione del tipo di permessi da usufruire, il rinvio ai commi 2 e 3
della stessa disposizione (nei quali si disciplina il diritto ai permessi
giornalieri e mensili dei genitori e dei familiari al fine di prestare
assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità).

6.1. Si tratta di provvidenze che operano
all’interno del rapporto di lavoro, riconducibili all’art. 38 Cost., in quanto favoriscono l’assistenza
sociale in via tendenzialmente mediata cioè erogata, secondo la logica della
sussidiarietà orizzontale, non dallo Stato, ma direttamente dai congiunti del
disabile e riconosciuta altresì nell’ambito dell’organizzazione aziendale.
L’accesso ai cennati istituti è subordinato al riconoscimento in capo al
soggetto assistito non solo dello stato di portatore di handicap, ai sensi
dell’art. 3, della legge n. 104
del 1992, ma soprattutto della c.d. connotazione di gravità, ai sensi del
combinato disposto degli artt.
3, comma 3 e 33, della
citata legge n. 104.

6.2. La tutela ed il sostegno del portatore di
handicap sono garantiti, quindi, mediante l’erogazione di prestazioni
economiche dirette, ma anche attraverso varie forme di tutela indiretta: si tratta
di un significativo ventaglio di agevolazioni (così sono definite dalla rubrica
dell’art. 33, della legge n.
104 del 1992), riconducibili alla logica della prestazione in servizi
piuttosto che di benefici monetari immediati, che costituiscono un articolato
sistema di welfare, anche familiare, connesso lato sensu ai doveri di
solidarietà sociale, quotidianamente costruito attorno al disabile. Sotto il
profilo sistematico, determinante è la considerazione che la tutela delle
persone svantaggiate è costituita da un complesso di norme, di fonte interna –
in primis dagli artt. 2, 3, 38 Cost. nonché
dalla legge n. 68 del 1999 – ed internazionale
– quali sono la Direttiva 2000/78/CE del
Consiglio del 27 novembre 2000 e la Convenzione ONU sui diritti delle persone
con disabilità, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 3 marzo 2009, n. 18.

7. La Corte Costituzionale ha avuto modo di
sottolineare che l’assistenza del disabile e, in particolare, il
soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione, in tutte le sue modalità
esplicative costituiscono “fondamentali fattori di sviluppo della
personalità e idonei strumenti di tutela della salute del portatore di
handicap, intesa nella sua accezione più ampia di salute psico-fisica” (sentenze n. 158 del 2007 e n. 350 del 2003; cfr.
altresì sentenza n. 213 del 2016) ed ha
altresì rilevato che la finalità perseguita dalla legge
n. 104 del 1992 consiste nella tutela della salute psico-fisica del
disabile, che costituisce un diritto fondamentale dell’individuo (art. 32 Cost.) e rientra tra i diritti inviolabili
che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art.
2 Cost.). Ed invero, la «formazione sociale» (art.
2 Cost.) consiste in «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea
a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di
relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico»
(sentenza n. 138 del 2010).

7.1. A livello europeo, la Corte di giustizia –
quando è stata chiamata a verificare il rispetto dei principi, dettati dalla direttiva 2000/78/Ce, di lotta alle
discriminazioni per ragioni (anche) di disabilità – si è preoccupata di
garantire un equilibrio tra gli interessi dell’impresa e la protezione e la
sicurezza dei portatori di handicap, al fine di evitare situazioni ingiuste o
effetti negativi a loro danno, rilevando che le persone disabili incontrano
maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel
mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta
dalla loro condizione (v., in tale senso, Corte di
Giustizia europea, sentenze 18 gennaio 2018, C-270/16 nonché 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11).

8. Con particolare riguardo alla utilizzazione dei
permessi fruiti dai familiari (art.
33, comma 3, della legge n. 104), questa Corte, ha affermato che
l’assistenza non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza
personale al soggetto disabile presso la sua abitazione ma deve necessariamente
comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il soggetto non sia in
condizioni di compiere autonomamente. L’abuso quindi va a configurarsi solo quando
il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall’assistenza, da
intendere in senso ampio, in favore del familiare (Cass. n. 1394 del 2020, Cass. 21529 del 2019; Cass.
n. 8310 del 2019; Cass. n. 17968 del 2016;
n. 9217 del 2016; n.
8784 del 2015).

8.1. L’interesse primario cui è preposta la legge n. 104 del 1992 è, invero, quello di
assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza al
disabile che si realizzino in ambito familiare, attraverso una serie di
benefici a favore delle persone che se ne prendono cura, pur dovendo scongiurarsi
utilizzi fraudolenti della normativa mediante il severo controllo (e il
conseguente rilievo disciplinare) dell’attività dei familiari. Ne consegue che
il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere
ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di
correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente
assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (Cass. n. 17968 del 2016).

9. Se, dunque, il diritto di fruire dei permessi da
parte del familiare si pone in relazione diretta con l’assistenza al disabile,
il medesimo diritto riconosciuto al portatore di handicap si integra
nell’ambito della complessiva ratio della normativa in esame, che è quella di
garantire alla persona disabile l’assistenza e l’integrazione sociale
necessaria a ridurre l’impatto negativo della grave disabilità. L’utilizzo dei
permessi da parte del lavoratore portatore di handicap grave è, dunque,
finalizzato a agevolare l’integrazione nella famiglia e nella società,
integrazione che può essere compromessa da ritmi lavorativi che non considerino
le condizioni svantaggiate sopportate; l’art. 1 della legge n. 104 del 1992
prevede la piena integrazione del soggetto portatore di handicap nella
famiglia, nel lavoro e nella società, per cui la concessione di agevolazioni
consente di perseguire l’obiettivo di un proficuo inserimento del disabile
grave nell’ambiente lavorativo, sicché l’allontanamento dal posto di lavoro più
a lungo rispetto ai lavoratori (nonché ai portatori di handicap non grave)
permette di rendere più compatibile l’attività lavorativa con la situazione di
salute del soggetto. I lavoratori portatori di handicap rilevanti, proprio
perché svolgono attività lavorativa, sono gravati più di quanto non sia un
lavoratore che assista un coniuge o un parente invalido: la fruizione dei
permessi non può essere, dunque, vincolata necessariamente allo svolgimento di visite
mediche o di altri interventi di cura, essendo – più in generale – preordinata
all’obiettivo di ristabilire l’equilibrio fisico e psicologico necessario per
godere di un pieno inserimento nella vita familiare e sociale.

9.1. Questa considerazione elimina il pericolo di
una irrazionale discriminazione tra fattispecie, proprio perché le fattispecie
sono diverse. L’intento legislativo di perseguire una effettiva integrazione
del portatore di handicap grave spiega il trattamento preferenziale riconosciuto
allo stesso rispetto ai familiari (che alla persona svantaggiata debbono
riferire necessariamente la loro attività), eliminando in radice i sospetti di
una interpretazione irragionevole dell’art. 33, commi 3 e 6, della legge
n. 104 del 1992, disposizione che va vagliata non solo attraverso la lente
della proporzionalità della tutela economica da rapportarsi alla qualità e
quantità del lavoro (art. 36 Cost.) ma anche
attraverso gli strumenti di mutualità garantiti dall’art.
38 Cost.

10. La Corte distrettuale si è attenuta a questi
principi di diritto, correttamente escludendo la configurazione di un abuso del
diritto nella fruizione dei permessi da parte del lavoratore portatore di
handicap grave per finalità non collegate ad esigenze di cura, coerentemente
escludendo una situazione antigiuridica suscettibile di rilievo disciplinare.

11. In conclusione, può formularsi il seguente
principio di diritto: i permessi ex art. 33, comma 6, della legge n.
104 del 1992 sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in
ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale,
senza che la fruizione del beneficio debba essere necessariamente diretto alle
esigenze di cura.

12. Il ricorso va, pertanto, rigettato e le spese di
lite seguono il principio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.

13. Il ricorso è stato notificato in data successiva
a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17), che ha integrato il D.P.R.
30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del
seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale é respinta
integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha
proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o
incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della
sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di
pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso
in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da
respingersi, deve provvedersi in conformità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro
200,00 per esborsi nonché in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre
spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso articolo 13,
ove dovuto.

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