Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 ottobre 2020, n. 21890

Cessazione del rapporto di lavoro, Anticipazione del TFR,
Società subentrata nell’appalto, Adempimento spontaneo di un terzo, senza
l’opposizione del debitore e del creditore, Interpretazione di un atto
unilaterale sotto il profilo della ricostruzione della volontà delle parti,
Non sindacabile in sede di legittimità

 

Rilevato che

 

E. P. proponeva opposizione avverso il provvedimento
monitorio con il quale il Tribunale di Genova aveva ingiunto il pagamento in
favore della s.r.l. P.F. della somma di euro 3.918,48, importo corrispondente
alla anticipazione del T.F.R. spettante in relazione alla cessazione del
rapporto di lavoro intercorso con la predetta società ed all’accordo intervenuto
con la R.G. s.p.a., subentrante nell’appalto delle pulizie in precedenza
gestita dalla P.F.. Esponeva la ricorrente che a seguito del verbale di accordo
in data 6/6/2014 ella era stata assunta dalla società subentrata nell’appalto,
la quale le aveva corrisposto l’anticipazione del T.F.R. del tutto
spontaneamente e non per conto della P.F. s.r.l.

Chiedeva, quindi, in via riconvenzionale, la
condanna della s.r.l. P.F. al pagamento di ulteriori somme che competevano a
titolo di differenze sul T.F.R. nonché su altre voci retributive inerenti al
pregresso rapporto di lavoro inter partes.

Si costituiva in giudizio la predetta società che
resisteva alla opposizione chiedendo fosse respinta.

Il giudice adito accoglieva il ricorso, revocava il
decreto ingiuntivo e condannava la società opposta a corrispondere alla
ricorrente la somma di euro 3.068,00.

Detta pronunzia veniva confermata dalla Corte
distrettuale con sentenza resa pubblica in data 13/10/2016.

Avverso tale decisione interpone ricorso per
cassazione la P.F. s.r.l. affidato a due motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt.1269, 1703, 2028, 2031, 2032, 1362, 2033 e 1180 c.c.

Si imputa alla Corte di merito di avere erroneamente
interpretato la vicenda sottoposta al suo scrutinio, negando il diritto di essa
società a chiedere alla lavoratrice la restituzione di quanto dalla stessa
indebitamente percepito in violazione dei dettami di cui all’art. 2033 c.c.

Era dato incontroverso che la società R.G. spa aveva
corrisposto alla P. una somma di denaro a titolo di tfr; che la P.F., in forza
di una cessione di credito disposta dalla lavoratrice in favore di una società
finanziaria, aveva versato integralmente l’importo del tfr alla società
finanziaria cessionaria del credito; che la P. aveva ricevuto un importo
superiore rispetto a quanto dovutole.

Pur volendo sostenersi, come asserito dalla Corte di
merito, che la società R. aveva spontaneamente disposto il pagamento della
somma di euro 5.234,89 in favore della P., detto pagamento si sarebbe dovuto
congruamente qualificare in termini di gestione degli affari altrui secondo la
disciplina degli artt. 2028 e segg. cod. civ..
Il gestore di affari altrui ha infatti diritto ad ottenere dal soggetto per il
quale ha agito, la restituzione di quanto speso ex art.2031
cod. civ.; tanto sarebbe evincibile anche dalla lettera inviata dalla R.G. s.p.a.,
indirizzata alla società P.F. ed all’avv. Armando Roccella nella quale si
faceva riferimento ai due accordi transattivi stipulati fra le società, con i
quali la società Romeo aveva saldato tutti i crediti della società P.F., al
netto degli esborsi anticipati da R.G. per le quote di tfr in favore dei suoi
ex dipendenti.

Era dato incontestabile, quindi, che la società R.G.
avesse, “pagato per sopperire l’inadempienza della P.F. nei confronti dei
suoi ex dipendenti. Poiché nella definizione dei rapporti contrattuali delle
due società il credito della P.F. era stato decurtato di quanto anticipato
dalla R.G. a titolo di tfr a favore della P. e di altri ex dipendenti, non
poteva non sussistere la legittimazione della P.F. a richiedere alla P. la
restituzione di quanto indebitamente percepito” (vedi pag. 9 del presente
ricorso).

In conclusione, prescindendo da ogni qualificazione
giuridica (implicito mandato della P.F., delegazione di pagamento, gestione di
affari altrui), fatto rilevante in giudizio era il pagamento da parte della
s.p.a. R.G., di somme dovute dalla P.F., e trattenute, poi, all’atto della
definizione dei rapporti fra R.G. e P.F..

In tal senso, erronea era da ritenersi
l’interpretazione degli atti resa dalla Corte di meritoria lettera 7 agosto
2014 indirizzata dalla Romeo alla P.F. era chiaramente indicativa del fatto che
il pagamento fosse stato disposto per conto della P.F., così come non corretta
era l’interpretazione della lettera della Romeo in data 27/4/2015.

2. Il secondo motivo prospetta omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti
ai sensi dell’art. 360 comma primo n.5 c.p.c..

Si imputa alla Corte di merito di non aver espresso
il motivo per il quale l’adempimento spontaneo di un terzo avvenuto senza
l’opposizione né del debitore né del creditore, non dia diritto al debitore
sostituito di ripetere quanto indebitamente pagato al creditore una volta che
il debitore abbia rimborsato al terzo quanto corrisposto.

3. I motivi, da trattarsi congiuntamente siccome
connessi, non sono ammissibili.

Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza di
questa Corte, le ipotesi disciplinate dall’art. 360
comma primo n. 3 c.p.c. ricomprendono tanto quella di violazione di legge,
ossia l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della
fattispecie astratta recata da una previsione normativa, implicante un problema
interpretativo della stessa, quanto quello di falsa applicazione della legge,
consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione
giuridica che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista
non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla
fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur
corretta interpretazione (cfr. Cass. 25/9/2019 n.
23851).

Nello specifico, i rilievi formulati dalla società
ricorrente – che si riferiscono a violazioni prospettate come violazione di
legge (primo motivo) e come vizio di motivazione (secondo motivo) – sono volti,
nella sostanza, a sindacare un accertamento di fatto condotto dal giudice del
merito non ammissibile in sede di legittimità.

La Corte di merito è infatti pervenuta alla
reiezione del gravame interposto dalla società, dopo aver analiticamente
scrutinato i dati documentali acquisiti in giudizio.

Dalle missive versate agli atti indirizzate dalla
R.G. s.p.a. alla P.F. s.r.l. (sub. doc. 5 ed 11) era chiaramente evincibile che
il pagamento degli importi spettanti a titolo di t.f.r. da parte della S.p.a.
R.G. non era avvenuto per delegazione della società appellante, ma su
iniziativa della società Romeo, in assenza di attuazione di alcuno schema assimilabile
alla delegazione di pagamento prospettata da parte ricorrente, o comunque di un
conferimento di incarico.

In sintesi estrema, la Corte distrettuale ha
osservato che la documentazione prodotta e le medesime dichiarazioni rese in
sede di libero interrogatorio da parte del procuratore speciale della s.r.l.
P.F., non erano in alcun modo idonee a suffragare la tesi attorea ed a
giustificare la domanda proposta nei confronti della lavoratrice, del pagamento
di una somma corrisposta da un terzo.

Ed invero, da una prima missiva del 7/8/2014 (sub.
doc. 5), si evinceva che il pagamento delle somme spettanti agli ex dipendenti
P.F. a titolo di tfr era stato disposto dalla società R.G. non su incarico di
P.F. s.r.l. ma di propria iniziativa, a fronte del protratto inadempimento nei
confronti dei lavoratori transitati alle dipendenze di R.G. s.p.a.

Da una seconda, del 27/4/2015 (sub. doc.11), si
desumeva l’ulteriore conferma della evidenziata circostanza; nella missiva,
infatti, la società Romeo, giunta a conoscenza delle richieste di restituzione
formulate da P.F. s.r.l. nei confronti di alcune ex dipendenti, fra le quali
era compresa la Poliziano, ne aveva espressamente denegato la fondatezza.

All’esito di una accurata ricognizione degli esiti
probatori, il giudice del gravame è, quindi, pervenuto alla conclusione della
mancata dimostrazione da parte della società appellante – sulla quale in
definitiva gravava il relativo onere – della sussistenza del proprio diritto al
pagamento di una somma erogata alla lavoratrice da parte di un terzo in forza
di un previo incarico ricevuto, non essendo stato dimostrato il conferimento di
alcun incarico ad esso, ma essendo emersa, per contro, dai dati documentali
acquisiti in giudizio, la spontaneità del pagamento.

L’insuscettibilità di scrutinio in sede di
legittimità di siffatte conclusioni, è dato che emerge anche dai consolidati
principi espressi al riguardo dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui
non è sindacabile, nel giudizio di cassazione, l’interpretazione di un atto
unilaterale sotto il profilo della ricostruzione della volontà delle parti, o
dell’unica parte, in quanto accertamento di fatto non consentito (cfr. in
motivazione, Cass. 25/9/2018 n. 22662), ma solo sotto il profilo della
individuazione dei criteri ermeneutici adottati dal giudice di merito per
assolvere i compiti a lui riservati, al fine di riscontrare errori di diritto o
vizi del ragionamento (Cass. 16/9/2002, n. 13543; Cass.
28/7/2003 n. 11592).

Il ricorso in sede di legittimità, riconducibile, in
linea generale, al modello dell’argomentazione di carattere confutativo,
laddove censuri l’interpretazione del contratto (o di un atto unilaterale)
accolta dalla sentenza impugnata, non può assumere tutti i contenuti di cui
quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi a evidenziare l’invalidità
dell’interpretazione adottata attraverso la allegazione (con relativa
dimostrazione) dell’inesistenza o della assoluta inadeguatezza dei dati tenuti
presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative, anche
implicite, che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non
potendo invece affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso
sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di
giustificazione prospettate come più congrue.

Anche di recente l’enunciato principio ha rinvenuto
continuità in pronunce con le quali è stato affermato che, in tema di
interpretazione di clausole contrattuali recanti espressioni non univoche, la contestazione
proposta in sede di legittimità non può limitarsi a prospettare una pur
plausibile interpretazione alternativa delle clausole stesse, fondata sulla
valorizzazione di talune espressioni ivi contenute piuttosto che di altre, ma
deve rappresentare elementi idonei a far ritenere erronea la valutazione
ermeneutica operata dal giudice del merito, cui l’attività di interpretazione
del contratto è riservata (vedi Cass. 22/6/2017 n. 15471).

E sotto tale versante, nessuna critica risulta
formulata dalla società ricorrente, la quale si è limitata a contrapporre alla
ricostruzione offerta dalla Corte distrettuale una difforme, non censurando
puntualmente quella svolta in sentenza, ma proponendo una diversa
valorizzazione degli elementi probatori raccolti, senza neanche specificamente
riportare per esteso il testo di tutti i documenti il cui contenuto sarebbe
stato erroneamente valutato.

La quaestio facti rilevante in causa è stata,
invece, trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, pur pervenendo
il giudice del gravame a conclusioni opposte a quelle indicate da parte
ricorrente, con approccio congruo – oltre che conforme a diritto – che si
sottrae allo scrutinio di legittimità in base ai parametri tracciati dal
novellato testo dell’art. 360 comma primo n. 5
c.p.c. nella interpretazione resa dalle sezioni Unite di questa Corte (cfr.
Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8053).

E ciò, anche volendo prescindere dagli innegabili
profili di novità da cui le critiche appaiono connotate, per aver denunciato
violazioni di legge (ovvero, più propriamente, falsa applicazione di legge), in
relazione ad istituti per la prima volta prospettati in questa sede, ed
implicanti un diverso accertamento in fatto rispetto a quello compiuto dal
giudice di merito indagini che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di
legittimità.

In definitiva, alla stregua delle superiori
argomentazioni, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso.

Le spese del presente giudizio di legittimità
seguono il regime della soccombenza, liquidate come in dispositivo, con
attribuzione in favore dell’avv. M.P. dichiaratasi antistataria.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la
società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità
liquidate in euro 200,00 per esborsi ed euro 2.500,00 per compensi professionali,
oltre spese al 15% ed accessori di legge, con attribuzione in favore dell’avv.
M.P..

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

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