Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 ottobre 2020, n. 22066

Rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società
utilizzatrice, Risarcimento del danno, per il periodo decorrente dalla messa
in mora, Mera sostituzione di diritto del datore di lavoro, Non sussiste,
Irregolarità della somministrazione, Datore di lavoro che utilizzi la
prestazione del lavoratore, vincolato agli atti di gestione nel periodo fino
alla pronuncia che ne abbia accertato l’irregolarità, Libertà di strutturare
il rapporto costituito giudizialmente in capo ad esso, secondo la disciplina
applicata nella propria azienda

 

Rilevato che

 

K. G. aveva adito il Tribunale di Milano per
conseguire, nei confronti di M. F. s.p.a. una pronuncia dichiarativa
dell’illegittimità del contratto di lavoro somministrato stipulato con la
società inglese C., in relazione al periodo 18.5.2006-18.11.2006, con
riconoscimento della sussistenza, nei confronti della utilizzatrice, di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato e di condanna al pagamento delle
consequenziali spettanze retributive.

In esito all’accoglimento di dette domande –
decorrenti, quanto alle richieste spettanze retributive, dal 26/3/2010, data
della messa in mora – il lavoratore proponeva ricorso nei confronti della M. F.
innanzi al Tribunale di Busto Arsizio, instando affinchè la retribuzione
dovutagli dalla predetta decorrenza, fosse determinata alla stregua del
parametro di quella applicata dalla agenzia di somministrazione e che la
convenuta società fosse condannata al pagamento dell’importo di euro 37.816,61
a titolo di risarcimento del danno, per il periodo decorrente dal dì della
messa in mora (26/3/2010) sino a quella di effettivo ripristino del rapporto
(14/11/2010) e della somma di euro 27.723,00 in relazione al periodo maturato
dalla data di reintegrazione (15/11/2010), sino a quella della ultima busta
paga ricevuta (31/3/2011).

Il Tribunale respingeva integralmente il ricorso.

Detta pronunzia veniva riformata dalla Corte
distrettuale che, con sentenza resa pubblica in data 11/6/2018 dichiarava il
diritto dell’appellante a percepire la retribuzione mensile di euro 10.115,01
corrispondente a quella erogata dalla società somministratrice e disponeva
condanna della società al pagamento in favore dell’appellante, degli importi
richiesti per i titoli descritti.

Osservava a fondamento del decisum, che con l’art.27
comma 2, il legislatore aveva inteso disporre, unicamente ai fini della
“costituzione del rapporto alle dipendenze dell’utilizzatore, la mera
sostituzione di diritto del datore di lavoro-fornitore, con il soggetto
utilizzatore delle prestazioni, così rimanendo invariati gli altri elementi
contrattuali, ivi compreso quello inerente il trattamento retributivo”. La
Corte rilevava al riguardo che M.F. s.p.a. era subentrata nel rapporto così
come gestito dall’interposto, sicchè, in considerazione del principio di
irriducibilità della retribuzione, doveva concludersi che la stessa era
obbligata a corrispondere il trattamento retributivo già applicato dal
somministratore C..

Avverso tale decisione interpone ricorso per
cassazione la s.p.a. A.I. (già s.p.a. M. F.) sulla base di unico motivo.

Resiste la parte intimata con controricorso,
successivamente illustrato da memoria ex art.380 bis c.p.c..

 

Considerato che

 

1. Con unico motivo si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt.27 d. Igs. n.276/2003, 2103 e 2697 c.c. in relazione
all’art.360 comma primo n.3 c.p.c..

Si deduce che, con il richiamato art.27, il
legislatore del 2003 ha certamente inteso stabilire che gli atti di gestione
del rapporto di lavoro posto in essere dal somministratore, siano attribuiti
all’utilizzatore, ma sotto altro profilo, ha circoscritto “tale
eccezionale situazione soltanto al periodo di durata della
somministrazione”.

Si argomenta poi, che in caso di accertamento con
sentenza, di irregolarità della somministrazione, il datore di lavoro che abbia
utilizzato la prestazione del lavoratore è vincolato agli atti di gestione
esclusivamente nel periodo ricompreso fra l’inizio della somministrazione e la
pronuncia che ne abbia accertato l’irregolarità, restando libero di strutturare
il rapporto costituito giudizialmente in capo ad esso, secondo la disciplina
applicata nella propria azienda.

Si stigmatizza, quindi, la statuizione con la quale
i giudici del gravame hanno ritenuto vulnerato nella specie, il principio di
irriducibilità della retribuzione, sul rilievo che lo stesso non costituisce un
generale principio ordinamentale.

2. Il motivo è fondato per le ragioni di seguito
esposte.

Devesi preliminarmente osservare come l’art. 12
delle preleggi, nel dettare i criteri legislativi di interpretazione,
stabilisca, anzitutto, che, nell’applicare la legge, non si può ad essa
attribuire altro senso se non quello fatto palese: a) dal “significato
proprio delle parole secondo la connessione di esse” (criterio cosiddetto
di interpretazione letterale); b) dalla “intenzione del legislatore”
(criterio cosiddetto di interpretazione teleologica).

L’interprete, in forza dei suddetti criteri, deve
acquistare la conoscenza della determinazione legislativa, tenendo presente
come, nei diversi sistemi giuridici, alcune proposizioni siano ripetute e
conclamate con costanza: una di queste è la regola (evidenziata dal citato
art.12) per cui, nel procedere all’interpretazione della legge, occorre
attenersi innanzitutto e principalmente al dato letterale.

Anche se il criterio di interpretazione teleologica
tende a questo risultato, le parole sono solo il mezzo attraverso il quale si
esprime “l’intenzione del legislatore”; e come tali vanno
interpretate, ma non fino al punto di attribuire alla norma un senso diverso da
quello che, dal contesto della legge, risulta corrispondere alla finalità che
la norma si propone.

Il primato dell’interpretazione letterale è,
infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis,
vedi Cass. 26/2/1983 n. 1482; Cass. 7/4/1985 n. 2454). L’interpretazione da
seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al
senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.

Muovendo da tali premesse, deve ritenersi che la
Corte di merito sia pervenuta a non corrette conclusioni giuridiche.

Ed invero, la disposizione scrutinata di cui
all’art.27 d. Igs. cit. prevede che quando la somministrazione di lavoro
avvenga al di fuori dei limiti e  delle
condizioni di cui agli articoli 20 e 21, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e),
il lavoratore può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414
del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha
utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle
dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione.

Nelle ipotesi di cui al comma 1, tutti i pagamenti
effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione
previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente
utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della
somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti dal somministratore per la
costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la
somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne
ha effettivamente utilizzato la prestazione.

3. Orbene, pur dandosi atto che il legislatore abbia
inteso stigmatizzare la violazione dei limiti sanciti dagli artt. 20 e 21, con
la sanzione della nullità del contratto – coerente con la possibilità
consentita al lavoratore di agire per ottenere la costituzione del rapporto, ab
origine, alle dipendenze dell’utilizzatore, e con la circostanza che tale
azione può essere esperita anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore come
si legge nel cit. art. 27, comma 1, ipotesi che escluderebbe l’annullabilità
del contratto, non potendo questa essere pronunciata se non in contraddittorio
di tutte le parti del contratto da annullare (cfr. Cass. n.17540/2014 in
motivazione) – non può sottacersi che la relazione biunivoca fra questi
soggetti del -.orto trilatero di somministrazione, in relazione agli atti di
gestione del rapporto di lavoro, appaia limitata al periodo durante il quale la
somministrazione ha avuto luogo, considerato che, quale datore di lavoro, è il
somministratore il soggetto tenuto all’obbligo retributivo (fatto salvo il
rimborso dei relativi oneri da parte dell’utilizzatore).

Tuttavia, nel momento in cui la struttura trilatera
del rapporto viene meno, per effetto della irregolarità del contratto di
somministrazione giudizialmente accertata, appare consequenziale che il soggetto
il quale sia stato utilizzatore della prestazione del lavoratore, sia libero di
gestire il rapporto di lavoro in autonomia secondo le regole che rinvengono
applicazione nell’ambito dell’assetto organizzativo aziendale in cui la
prestazione del lavoratore viene ad inserirsi.

Ciò in quanto, al di là di ogni questione inerente
all’inquadramento del vizio che ha ingenerato la irregolarità del rapporto, si
determina comunque la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro con
l’utilizzatore, trattandosi – come affermato in dottrina – di un rapporto
ordinario, il quale si differenzia da quello precedente, che era speciale, in
quanto funzionale alla somministrazione del lavoratore.

4. Una diversa opzione ermeneutica condurrebbe alla
incongrua conclusione che il trattamento economico e normativo applicato da
parte del somministratore, dovrebbe rimanere intangibile, pur a seguito
dell’inserimento del lavoratore in una diversa compagine organizzativa, ed
anche a prescindere da qualsivoglia mutamento nell’esecuzione della
prestazione.

Detto inserimento comporta, invece, un adeguamento
della obbligazione lavorativa in relazione all’assetto organizzativo disposto
dalla parte già “utilizzatrice” della prestazione, con conseguente
applicazione del trattamento economico (retribuzione ordinaria, indennità,
premi), e normativo (sede, orari di lavoro, turni, permessi…) sancito dalla
disciplina legale e collettiva in vigore presso il nuovo datore di lavoro.
Dalla costituzione di un rapporto di lavoro con il soggetto che aveva rivestito
il ruolo di utilizzatore, discende, quindi, coerente, l’applicazione al
rapporto di tutta la disciplina legale e collettiva in vigore presso il nuovo
datore di lavoro.

E tali approdi si rendono vieppiù ineludibili ove –
così come verificatosi nella specie – il lavoratore sia stato assunto dalla
società di somministrazione, con contratto di lavoro secondo norme di diritto
straniero. Le condizioni di contratto che definiscono il rapporto di lavoro in
somministrazione, non possono, invero, integrare alcun valido riferimento ai
fini della presente decisione, giacchè l’applicazione di un “contratto
collettivo nazionale” a disciplina del rapporto con il nuovo datore di
lavoro, esclude in radice l’estensibilità del trattamento normativo ed
economico applicato ai lavoratori assunti dalla C., in base a disposizioni di
norma e di contratto che non siano nazionali.

5. A conforto di quanto sinora esposto, va rimarcato
come la problematica esaminata tragga una significativa analogia con la
fattispecie di cui all’art.2112 c. 3 c.c..

Ed invero, in tale disposizione il richiamo ai
contratti collettivi nazionali applicabili deve intendersi riferito ai
contratti che risultano adottati dall’acquirente al momento del trasferimento;
opinione questa fatta propria dai giudici di legittimità secondo i quali,
allorquando il cessionario applichi un c.c.n.I., quest’ultimo sostituisce
immediatamente e totalmente la disciplina collettiva vigente presso il cedente,
anche laddove contenga una disciplina peggiorativa rispetto a quella contenuta
nel contratto collettivo applicato presso il cedente (vedi Cass. 29/9/2015
n.19303, Cass. 13/9/2006 n.19564, Cass. 1/2/2006 n.2240), così realizzandosi un
equo contemperamento fra il principio di libertà di impresa (consacrato dall’art.41
Cost.), e il diritto del lavoratore a conseguire un giusto trattamento
normativo e retributivo (diritto sancito dagli artt. 4 e 36 Cost.).

Ai sensi dell’art.2112 c.c. i dipendenti transitati
sono infatti soggetti al contratto collettivo applicabile presso la società
cessionaria, anche se più sfavorevole, atteso il loro inserimento nella nuova
realtà organizzativa e nel mutato contesto di regole, anche retributive,
potendo rinvenire applicazione l’originario contratto collettivo nel solo caso
in cui presso la cessionaria i rapporti di lavoro non siano regolamentati da
alcuna disciplina collettiva; ipotesi questa, non verificatasi nella
fattispecie qui scrutinata, in cui questa carenza non è ravvisabile ed in cui
il lavoratore neanche ha invocato la conclusione inter partes, di una
pattuizione, individuale recante il trattamento economico oggetto di
rivendicazione nel presente giudizio.

Sulla scia delle summenzionate considerazioni, viene
quindi a caducarsi ogni sostegno giuridico al richiamo disposto dalla Corte di
merito, ad un principio di irriducibilità della retribuzione che – peraltro –
l’art.2103 c.c. pro tempore vigente, riferisce all’aspetto qualitativo della
prestazione (cfr. Cass. 15/2/1996 n.1175), nello specifico neanche prospettata
dal lavoratore.

In definitiva, al lume delle superiori
argomentazioni, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa va rimessa
ad altro giudice di appello, designato in dispositivo il quale, nel procedere
al riesame della controversia, si atterrà ai principi innanzi esposti.

Al medesimo giudice va demandata la regolamentazione
delle spese del giudizio di Cassazione.

 

P.Q.M.

 

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e
rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione cui demanda di
provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 ottobre 2020, n. 22066
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