Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 novembre 2020, n. 26513

Condotta illegittima, Privazione delle mansioni e del luogo
di lavoro,Stato di malattia, Finalità di far superare il periodo di comporto
– Nota di qualifica con valutazione insufficiente, Differenze retributive

 

Fatti di causa

 

L.R. proponeva ricorso, dinanzi il Tribunale di
Torino, nei confronti di U. S.p.A. e del Fondo Pensioni per il Personale della
ex Cassa di Risparmio di Torino-Banca CRT S.p.A., chiedendo che venisse
accertata la condotta asseritamente illegittima che la Banca CRT S.p.A. (oggi
U. S.p.A.) avrebbe tenuto nei suoi confronti, privandola dapprima delle sue
mansioni, poi del luogo di lavoro, e, ponendola, successivamente, in malattia a
causa del suo stato ansiosodepressivo, con la finalità di farle superare il
periodo di comporto per potere, poi, in tal modo, risolvere il rapporto di
lavoro; ed inoltre che fosse dichiarato che la CRT S.p.A. le aveva
illegittimamente attribuito, per l’anno 1994, una “nota di qualifica”
con valutazione “insufficiente” – come statuito dalla sentenza n.
862/2000 del Tribunale di Torino, passata in giudicato, con la quale le era
stato riconosciuto il diritto di ottenere per quell’anno una “nota di
qualifica” con valutazione “ottimo” -, con la conseguente
indebita trattenuta, nel corso del 1995, della somma di L. 10.531.670, pari ad
Euro 5.439,15; che fosse accertato che, anche per gli anni 1995 e 1996, alla
stessa sarebbe spettato il trattamento retributivo derivante dalle “note
di qualifica” di “ottimo”, con il conseguente versamento delle
differenze retributive; che la U. S.p.A. fosse condannata al pagamento di una
somma pari ad Euro 40.962,36 per TFR (già dedotto il titolo vantato dalla Banca
per titoli diversi), nonché di Euro 12.647,25 a titolo di indennità di mancato
preavviso e di Euro 15.527,07 per FIP; ed altresì al pagamento del danno
patrimoniale di Euro 41.547,00 per avere recuperato, nell’ambito di una
procedura di esecuzione attivata nei confronti della dipendente, la somma di Euro
62.205,75 a fronte di un credito di Euro 20.658,28; nonché al pagamento di
ulteriori danni patrimoniali subiti a causa della illegittima privazione della
retribuzione e del posto di lavoro, ed infine al pagamento del danno biologico
pari ad Euro 545.000,00 per insorgenza di malattia professionale che le avrebbe
lasciato postumi invalidanti nella misura del 75%.

Il Tribunale adito, con la sentenza n. 765/2015,
resa il 21.4.2015, in parziale accoglimento del ricorso, condannava la U.
S.p.A. al versamento, in favore della R., di Euro 6.085,89 a titolo di
accessori sull’importo già corrisposto per la nota di qualifica di ottimo per
l’anno 1994, oltre accessori di legge; di Euro 4.652,75 a titolo di differenze
retributive per la nota di qualifica di ottimo spettante anche per l’anno 1995,
oltre accessori di legge; di Euro 9.652,05 a titolo di accessori sull’importo
corrisposto nel corso del giudizio per contributi versati al FIP, oltre
accessori; di euro 33.390,39 per accessori 
sull’importo corrisposto nel corso del giudizio per TFR, oltre ulteriori
accessori di legge; ed il Fondo Pensioni per il Personale  della ex Cassa di Risparmio di Torino-Banca
CRT S.p.A. al pagamento, in favore della ricorrente, di Euro 13.596,29, oltre
accessori, come per legge.

La R. interponeva appello avverso la predetta
pronunzia, chiedendone la parziale riforma, con la condanna di U. S.p.A.
al  pagamento della somma di Euro
41.547,00 per il danno patrimoniale conseguente all’azione esecutiva immobiliare
intrapresa dalla Banca, e della indennità di preavviso pretesamente spettante a
fronte del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto,
nonché al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti in conseguenza dei
comportamenti illegittimi assunti dalla Banca che avevano aggravato lo stato di
salute della ricorrente.

La Corte di Appello di Torino, con sentenza
pubblicata il 3.10.2016, respingeva il gravame.

Per la cassazione della sentenza L. R. ha proposto
ricorso affidato a due motivi, il primo dei quali ulteriormente suddiviso in
più censure, rispettivamente elencate sub a) e b).

 La U. S.p.A.
ed il Fondo Pensioni per il Personale della ex Cassa di Risparmio di
Torino-Banca CRT S.p.A. hanno resistito con controricorso ed hanno comunicato
memorie.

La causa, inizialmente fissata all’adunanza camerale
dell’8.1.2019, è stata rinviata a nuovo ruolo – e, successivamente, fissata
alla pubblica udienza del 3.12.2019 -, avendo il Collegio ritenuto che non
sussistessero i presupposti per la trattazione della stessa in camera di consiglio.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, in ordine al quale si
specifica che attiene alla domanda relativa al risarcimento del danno
patrimoniale, si deduce, sub a), <<ex art.
360 n. 3 e 5 c.p.c. in relazione agli artt.
1175 e 1375 c.c. principi di buona fede e
correttezza nell’ambito del rapporto di lavoro e nella esecuzione dei
contratti», e, sub b), <<360 n. 3 c.p.c.
in relazione agli artt. 1241 e 1243 e segg.ti c.c., errata interpretazione e
applicazione del principio della compensazione parziale». In particolare, si
assume che, cessato il rapporto di lavoro con la Banca in data 12.10.1996, a
seguito di licenziamento, era maturato il diritto della ricorrente alla
corresponsione, da parte della società datrice, del TFR, del FIP (dalla Banca e
dal Fondo), e delle altre spettanze di fine rapporto, oltre alle differenze
retributive derivanti dalle note di qualifica annuali, non corrisposte. Ed
anzi, con lettera dell’8.4.1997, la società aveva comunicato alla lavoratrice
che, <<dovendosi procedere alla liquidazione in favore della dott.ssa L.
R. delle spettanze di fine rapporto e dei ratei arretrati di pensione, si
coglie l’occasione per fornire un prospetto riepilogativo dei crediti maturati
e degli impegni di pagamento tempo per tempo assunti dalla dipendente, al fine
di consentire alla stessa una valutazione di opportunità circa la possibile
estinzione dell’esposizione in essere, in occasione della liquidazione delle
competenze in suo favore. … Crediti lire 83.361.709 lorde a titolo di TFR,
lire 2.914.080 lorde per residui di retribuzione, eventuali conguagli;
esposizioni che saranno oggetto di compensazione automatica da parte della
Banca CRT in sede di liquidazione dei crediti….», ciò, in quanto la Banca era
creditrice della somma di circa 40.000.000 di lire, a seguito del contratto di
mutuo stipulato con la R., le cui rate quest’ultima non riusciva a pagare,
perché priva di mezzi economici, poiché la datrice di lavoro, violando gli
obblighi di buona fede e correttezza, non le aveva corrisposto le somme dovute.
Pertanto, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di
esaminare le argomentazioni inerenti alla dedotta violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.
da parte della datrice di lavoro ed abbia errato nel motivare la propria
decisione <<riducendo il punto ad una problematica di sola compensazione
tra i crediti della lavoratrice e quelli della banca, sostenendo che  La compensazione non poteva avere luogo sia
in mancanza di accordo transattivo, non avendo l’appellante aderito alla
proposta formulata dalla Banca con la missiva in data 8.4.1997 (doc. 10 U.),
sia in quanto non sussisteva la coesistenza di due crediti liquidi ed
esigibili” (pag. 13 della sentenza)»;

secondo la prospettazione della ricorrente, la Corte
di Appello avrebbe, inoltre, violato le norme di cui agli artt. 1241 e 1243 c.c.,
per non avere considerato che <<la maggior parte del credito della R. nei
confronti della banca era liquido, trattandosi di un credito per accantonamento
del TFR maturato ed esigibile al momento della cessazione del rapporto di
lavoro.

2. Con il secondo motivo, circa il quale si precisa
che attiene all’indennità di preavviso: «ex art.
360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 2010
e 2018 c.c.», si deduce che la lettera in data
18.10.1996, con la quale la società ha comunicato e disposto la risoluzione del
rapporto di lavoro, contenesse, in sostanza, due distinti provvedimenti di
recesso, coevi, uno per licenziamento per giusta causa, con effetto dal momento
della ricezione della lettera – il 25.10.1996 -, ed uno per superamento del
periodo di comporto, con effetto dal 12.10.1996, data di esaurimento di tale
periodo, non essendo lo stesso atto datoriale recettizio, e che, pertanto, il
licenziamento per superamento del periodo di comporto avrebbe avuto efficacia
prima di quello di destituzione, non essendo, appunto il primo un atto
recettizio, a differenza del secondo. E, dunque, a parere della ricorrente, la
circostanza che la risoluzione del rapporto di lavoro per superamento del
periodo di comporto sia antecedente al licenziamento per giusta causa implica
che per quel motivo si sia estinto il rapporto di lavoro tra le parti, a nulla
rilevando il successivo licenziamento intimato per giusta causa, con la
conseguenza che la lavoratrice avrebbe diritto a percepire l’indennità di
preavviso che la norma contrattuale prevede a favore dei soggetti licenziati
per superamento del periodo di comporto.

1.1. Il primo motivo non può essere accolto
relativamente ad alcuna delle due censure sollevate sub a) e b), in quanto le
doglianze mosse alla sentenza impugnata non colgono nel segno e presentano,
altresì, profili di inammissibilità, laddove, in particolare sub b), si
prospetta esclusivamente una diversa valutazione dei fatti rispetto alla
(peraltro esaustiva e condivisibile) ricostruzione operata dalla Corte di
merito, senza, peraltro, provare gli assunti sui quali le doglianze si fondano.
Ed invero, la R., nel censurare le statuizioni contenute nella sentenza
impugnata, non ha indicato, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza
sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni, di fatto e di
diritto, idonee a giustificare le censure, né sotto quale profilo, le
disposizioni censurate sarebbero state incise, in spregio alla prescrizione di
specificità dell’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c.,
che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art.
360, primo comma, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di
inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle disposizioni
asseritamente violate, ma, altresì, con specifiche argomentazioni intese
motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto,
contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le
disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse
fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte,
Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009).

Peraltro, come innanzi osservato, dalla puntuale
ricostruzione della fattispecie operata dai giudici di seconda istanza, si
evince che il comportamento della datrice di lavoro non può ritenersi violativo
dei principi di correttezza e buona fede che devono essere osservati
nell’attuazione del rapporto obbligatorio, poiché  non è neppure rimasto delibato che la R.
abbia risposto affermativamente alla proposta che la Banca le aveva fatto in
merito alla possibile estinzione del suo debito in occasione della  liquidazione delle sue competenze di fine
rapporto, specificando che, in tal modo, alcune delle voci di debito avrebbero
potuto essere oggetto di compensazione automatica (al riguardo, si rileva,
ancora, che la R., in violazione del disposto dell’art.
366, primo comma, c.p.c., non ha prodotto alcun documento che potesse
dimostrare il contrario), mentre per altre voci di debito, quali, ad esempio, i
ratei arretrati del mutuo contratto per l’acquisto della prima casa, la
debitrice avrebbe dovuto fornire indicazioni sul modo in cui potessero essere
estinte; la qual cosa non è avvenuta. Da ciò, discende, altresì, la
legittimità  dell’azione esecutiva
iniziata dalla Banca relativamente al recupero di tali ultime partite di
debito, data la non facile individuazione delle somme da portare in
compensazione, non avendo la dipendente – ripetesi – fornito indicazioni al
riguardo.

2.2. Il terzo motivo non è fondato, dovendosi
osservare che, correttamente, la Corte di Appello ha affermato che, nella
fattispecie, «trattasi di un unico provvedimento di licenziamento con due
causali» e che, «non essendo stato impugnato giudizialmente, il recesso per
giusta causa è divenuto definitivo ed esclude la corresponsione del preavviso».
Ed infatti, secondo quanto risulta dagli atti sui quali la Corte di merito ha
fondato la decisione impugnata, il licenziamento per giusta causa è stato
impugnato solo stragiudizialmente; e, comunque, il provvedimento di risoluzione
del rapporto è unico – quello intimato con la lettera del 16.10.1996, con
efficacia dal giorno in cui la dipendente ha ultimato il periodo di comporto
normativamente previsto (12.10.1996) – e la stessa R. lo ha impugnato,
stragiudizialmente, appunto, con un’unica lettera.

Pertanto, alla lavoratrice non spetta la dedotta
indennità di preavviso.

Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso
va rigettato.

3. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza.

4. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 novembre 2020, n. 26513
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