Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 dicembre 2020, n. 35819

Lavoro, Crisi aziendale, Omesso versamento delle ritenute,
Prova, Prescrizione

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 26 febbraio 2020 la corte di
appello di Milano, riformando parzialmente la sentenza del tribunale di Lecco
del 5 novembre 2018, dichiarava non doversi procedere nei confronti di C.A. in
relazione al reato ascritto al capo 1) di cui all’art. 2 comma 1 bis DL 12.09.1983
n. 463 convertito nella legge 11.11.1983 n. 638,
relativamente all’anno 2011, per intervenuta prescrizione; assolveva la
medesima Costa dal reato di cui al capo 2) di cui all’art. 2 comma 1 bis DL 12.09.1983
n. 463 convertito nella legge 11.11.1983 n. 638
relativamente alla ditta “P. s.r.l.” e dal reato di cui al capo 3) ex
art. 2 comma 1 bis DL
12.09.1983 n. 463 convertito nella legge
11.11.1983 n. 638 relativamente alla ditta “P. s.r.l.” per
l’annualità 2012 (del febbraio e dicembre di tale anno), perché il fatto non è
previsto dalla legge come reato.

2. Avverso la pronuncia della Corte di appello sopra
indicata propone ricorso per cassazione C.A. mediante il proprio difensore,
deducendo cinque motivi di impugnazione.

3. Con il primo motivo, rappresenta il vizio ex artt. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen.
rilevando come debba ritenersi intervenuta la prescrizione del reato ex art. 2 comma 1 bis DL 12.09.1983
n. 463 convertito nella legge 11.11.1983 n. 638
con riguardo al capo 2) e alla “G.H. s.r.l,” in relazione all’anno
2012, essendo maturata la stessa, con riguardo alla mensilità di maggio, alla
data del 16 marzo 2020, e con riguardo alla mensilità di giugno alla data del
16 aprile 2020. Per la condotta poi dal gennaio al novembre 2013 si osserva che
la prescrizione maturerebbe alla data del 16 novembre 2020 e sino al 16
settembre 2021.

4. Con il secondo motivo si rappresenta che le
condotte contestate alla ricorrente, quale legale rappresentante della “P.
s.r.l.”, per l’anno 2013, sarebbero già oggetto di autonomo procedimento
pendente dinnanzi a questa Suprema Corte e dinanzi alla settima sezione, con
rg. n. 3978/2020. In tale procedimento, viene impugnata la sentenza della corte
di Appello la quale, in riferimento alla stessa condotta di cui al capo 3 del
presente procedimento (omessi versamenti nel mese di gennaio 2013 e da giugno a
dicembre 2013) riferito alla “P. s.r.l.”, ha rideterminato la pena e
confermato nel resto la sentenza. Con conseguente richiesta di “ogni più
opportuna declaratoria affinché non si proceda …in relazione al reato
ascritto al capo 3)”.

5. Con il terzo motivo deduce la mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in tema di contrasto
di giudicati tra la sentenza impugnata in questa sede e la sentenza di
assoluzione n. 957/2015 del tribunale di Lecco, che ha assolto l’imputata per
l’impossibilità dei pagamenti conseguenti alla rinvenuta crisi aziendale, a
fronte di una condotta ascritta che la ricorrente descrive come assimilabile e
sovrapponibile alla condotta oggetto del presente giudizio, attesa la
pressocchè identica formulazione delle norme incriminatrici di riferimento,
inerenti alla medesima condotta omissiva e fondate sui medesimi presupposti
giuridici. Da qui, in particolare, il vizio di contraddittorietà con la
sentenza del tribunale di Lecco.

6. Con il quarto motivo deduce l’inosservanza e
erronea applicazione della legge penale, in ragione del mancato riconoscimento
dell’elemento soggettivo del reato pur ricorrendo un caso di forza maggiore,
avendo la ricorrente, in un quadro in cui le due società sopra nominate hanno
presentato istanza di ammissione al concordato preventivo e sono state poi
dichiarate fallite, per fronteggiare la crisi, ha adottato misure sfavorevoli
per il proprio patrimonio personale e si è trovata nell’impossibilità di
disporre di fondi per i pagamenti in questione. Si aggiunge il rilievo della
intervenuta dimostrazione documentale della circostanza per cui sarebbe stato
provato nel giudizio di primo grado (e con atti allegati all’atto di appello)
che i pagamenti degli stipendi sarebbero avvenuti solo in parte e in ritardo,
sebbene erroneamente la corte di appello abbia ritenuto tale dato inidoneo per
escludere il dolo del reato.

Si rappresenta altresì che le inadempienze
contestate sarebbero episodiche ed esigue. Cosicché rileverebbe anche
l’inoffensività della condotta.

Sarebbe inoltre errata la mancata concessione delle
attenuanti generiche a fronte della adozione da parte della ricorrente di
misure sfavorevoli per sé e dirette a fronteggiare la crisi.

7. Con il quinto motivo ha dedotto il vizio di
violazione di legge essendo erronea la sentenza impugnata per l’eccessività
della pena irrogata, incongrua rispetto al comportamento di assoluta buona fede
mantenuto dalla ricorrente.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Quanto al primo motivo, è manifestamente
infondato atteso che i termini di prescrizione invocati risultano maturati
successivamente alla data di pubblicazione della sentenza impugnata e
considerato che l’inammissibilità del ricorso, ricorrente nel caso di specie,
preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio
l’estinzione del reato per prescrizione (cfr. Sez. 6, n. 25807 del 14/03/2014
Rv. 259202 – 01 Rizzo). Quand’anche la stessa sia maturata – diversamente
comunque dal caso di specie – in data anteriore alla pronunzia della sentenza
di appello, ma non dedotta né rilevata nel giudizio di merito (Sez. Un., n.
23428 del 22/03/2005, dep. 22/06/2005, Rv. 231164).

3. Manifestamente infondato è anche il secondo
motivo di impugnazione. Per plurimi motivi: non si indica, pur sussistendo
specifico onere al riguardo, il vizio dedotto rispetto alla deduzione
sollevata, inerente il riferito dato per cui le condotte contestate in questa
sede alla ricorrente, quale legale rappresentante della “P. s.r.l.”
per l’anno 2013, sarebbero già oggetto di autonomo procedimento pendente
dinnanzi a questa Suprema Corte e dinnanzi alla settima sezione (cfr. in ordine
al concetto, analogo, di indistinta deduzione di tutti i vizi di legittimità
sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015 Rv. 264535 – 01 Rugiano). Tanto da essere
indeterminata anche la richiesta finale circa il provvedimento da assumersi da
parte di questa Suprema Corte. Inoltre, emerge la violazione del principio di
cd. autosufficienza del ricorso, atteso che non si illustra – nell’ottica di un
eventuale inosservanza del principio del ne bis in idem -, né si allegano atti
a tal fine utili e dirimenti, la piena corrispondenza fattuale e cronologica
tra i fatti dei due procedimenti penali considerati, limitandosi la ricorrente
a mere asserzioni al riguardo, con rinvio ad atti che ne darebbero una contezza
non meglio specificata; laddove i rispettivi capi di imputazione paiono invero
presentare ammontari non coincidenti, mentre non è dato conoscere rispetto a
quali dipendenti, della medesima società, con relative retribuzioni, siano
maturate le ritenute omesse e contestate nei due procedimenti. Laddove, per la
peculiare struttura e natura del reato, che fa riferimento alla considerazione
di ritenute afferenti specifici e individualizzati rapporti di lavoro, assume
rilievo non secondario, ai fini in esame, la mancata specificazione, da parte
della ricorrente, in presenza di plurimi rapporti di lavoro, dei lavoratori
dipendenti e relative retribuzioni, cui si correlano i contributi omessi e
contestati nei due procedimenti. Ciò che significa, in altri termini, dare
contezza della perfetta coincidenza tra le retribuzioni considerate e le
corrispondenti contribuzioni omesse, nell’ambito di soggetti cui facciano capo
plurimi rapporti di lavoro. Infine altrettanto dirimente è la regola per cui,
in tema di litispendenza, qualora vengano instaurati due diversi procedimenti
penali riguardanti il medesimo fatto storico, inibisce la procedibilità del
procedimento duplicato l’avvenuto esercizio dell’azione penale nell’altro
procedimento, dovendosi disporre, in tal caso, l’archiviazione di quello per il
quale la stessa non sia stata esercitata, mentre, ove l’azione penale sia stata
promossa in entrambi, dovrà pronunciarsi sentenza di non doversi procedere ai
sensi dell’art. 649 cod. proc. pen. per quello
dei procedimenti nel quale il suo esercizio sia stato successivo (Sez. 5 – , n.
17252 del 20/02/2020 Rv. 279113 – 01 C.). Ebbene, dagli atti allegati, a
prescindere per quanto detto dalla mancata dimostrazione della sussistenza di
giudizi sul medesimo fatto, risulta che l’azione penale è stata esercitata per
prima nel presente procedimento, essendo stato emesso il decreto di citazione
diretta a giudizio il 6.10.2015, mentre l’azione penale dell’altro procedimento
richiamato appare esercitata con richiesta di decreto penale del 18.12.2015. Né
risulta dedotto e allegato a fini preclusivi, laddove si fosse dimostrata
l’identità dei fatti giudicati, l’eventuale intervenuto giudicato di cui al
diverso procedimento citato con il motivo proposto. Cosicché ogni questione sul
punto potrà, al più, essere affrontata in sede esecutiva.

4. Inammissibile è anche il terzo motivo, inerente
la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in tema
di “contrasto di giudicati” tra la sentenza impugnata in questa sede
e la sentenza di assoluzione n. 957/2015 del tribunale di Lecco citata. E’
sufficiente osservare come da una parte, così come rilevato correttamente dai
giudici di merito, emergano decisioni che hanno riguardato fatti diversi,
controvertendosi in questa sede in ordine a reati ex art. 2 comma 1 bis DL 12.09.1983
n. 463 convertito nella legge 11.11.1983 n. 638,
mentre la sentenza di assoluzione indicata attiene alla diversa fattispecie di
cui all’art. 10 bis dlgs. 74/2000;
dall’altra, va osservato che il vizio di contraddittorietà della motivazione
della sentenza non coinvolge anche contrasti con altre sentenze bensì consiste
nel concorso, dialetticamente irrisolto, di proposizioni – testuali ovvero
extra-testuali e contenute in atti del procedimento specificamente indicati dal
ricorrente – concernenti punti decisivi e assolutamente inconciliabili tra
loro, tali che l’affermazione dell’una implichi necessariamente e univocamente
la negazione dell’altra e viceversa (cfr. Sez. 1, n. 53600 del 24/11/2016 (dep.
27/11/2017) Rv. 271635 – 01 Sanfilippo). Precisato inoltre che le sentenze
citate non si connotano per la relativa irrevocabilità (laddove per la sentenza
del tribunale di Lecco tanto non risulta dedotto né allegato), con conseguente
inadeguatezza del riferimento al “contrasto tra giudicati”, va
osservato come tale ultima contrapposizione rimanda al distinto e peculiare concetto
di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, di cui all’art. 630, comma 1, lett. a), inerente l’istituto
della revisione.

5. Anche il quarto motivo, relativo alla invocata
forza maggiore è inammissibile. La corte ha confutato puntualmente l’assunto
difensivo, senza che ad esso possa contrapporsi soltanto una lettura
alternativa degli elementi probatori emersi, quale è quella proposta dalla
ricorrente (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 6, n. 22256
del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita,
Rv. 235507). Tale è la puntuale osservazione per cui la crisi aziendale è
emersa dal 2010 alla luce della analisi dei bilanci riferita dal commercialista
escusso, mentre le omissioni contributive si sono verificate con sistematicità
sin dal 2008. Come anche coerentemente significativo, rispetto alla decisione
assunta, è il rilievo per cui alla luce delle verifiche svolte dall’INPS in
ordine alle mensilità in contestazione, il pagamento delle retribuzioni è stato
riscontrato sulla base del cd. libro unico del lavoro, quale prova certa del
pagamento delle stesse, cui ha fatto riscontro l’omesso versamento delle
ritenute. Con coerente applicazione, in sostanza, della cornice giuridica
secondo la quale il sostituto è vincolato al pagamento delle ritenute sulla
base dello stesso titolo per cui è vincolato al pagamento delle retribuzioni,
per cui lo stato di insolvenza non libera il sostituto, dovendo questi
adempiere al proprio obbligo di corrispondere le ritenute all’Inps, così come
adempie a quello di pagare le retribuzioni di cui le ritenute stesse sono, del
resto, parte. Consegue che è obbligo del sostituto ripartire le risorse
esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni, in modo da poter
adempiere il proprio obbligo e, inoltre, che quando l’imprenditore, in presenza
di una situazione economica difficile, decida di dare la preferenza al
pagamento degli emolumenti ai dipendenti e di pretermettere il versamento delle
ritenute, non può addurre a propria discolpa l’assenza dell’elemento
psicologico del reato, ricorrendo in ogni caso il dolo generico. In altri
termini, il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed
assistenziali è a dolo generico, ed è integrato dalla consapevole scelta di
omettere i versamenti dovuti, ravvisabile anche qualora il datore di lavoro, in
presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare
preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti ed alla manutenzione dei
mezzi destinati allo svolgimento dell’attività di impresa, e di pretermettere
il versamento delle ritenute all’erario, essendo suo onere quello di ripartire
le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo
da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò comporta
l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare, (cfr., da
ultimo, Sez. 3, n. 43811 del 10/04/2017 Rv. 271189 – 01 Agozzino). In
definitiva, a fronte della contestualità e della indefettibilità del sorgere
dell’obbligazione di versamento con il fatto stesso del pagamento della
retribuzione, manca ogni presupposto per invocare l’impossibilità di adempiere
l’obbligazione dovendo, la punibilità della condotta, essere individuata
proprio nel mancato accantonamento delle somme dovute all’Istituto (in nome e
per conto del quale tali somme sono state trattenute), di guisa che non può
ipotizzarsi l’impossibilità di versamento per fatti sopravvenuti, come appunto
una pretesa situazione di illiquidità della società rappresentata (cfr., sia
pure con riferimento all’omesso versamento di ritenute da parte del sostituto
d’imposta, Sez. 3, n. 11459 del 19/09/1995, Rossi, Rv. 203018).

Manifestamente infondata è anche la censura
sull’inoffensività della condotta, che, come tale, giova osservarlo, è distinta
dal profilo della speciale tenuità della medesima, che attiene a casi connotati
di offensività della fattispecie concreta, seppur reputata tale da escludere la
punibilità. A fronte di una critica fondata sul numero ed episodicità delle
condotte criminose, congrua appare la motivazione circa la sussistenza e
rilevanza del numero non esiguo delle medesime, peraltro inserito in un più
ampio contesto omissivo.

Inammissibile è anche la tesi dell’erroneo diniego
delle attenuanti generiche. Posto che il vizio dedotto, inerente la
inosservanza o erronea applicazione della legge penale, implica la sussistenza
di una fattispecie di fatto obiettiva e incontroversa, per la quale quindi sia
possibile disquisire della corretta qualificazione giuridica, tale non è il
caso di specie, atteso che le circostanze dedotte dal ricorrente sono, come
emerge dalla stessa sentenza impugnata che le ha considerate e valutate,
ritenendole inidonee ai fini considerati, fatti suscettibili di diverse
interpretazioni, così che la relativa considerazione è al più astrattamente
sindacabile sul piano della coerenza e logicità, ma non certo della erroneità
della applicazione della disposizione di legge richiamata. Tanto premesso, va
comunque osservato come la motivazione formulata, ancorata non solo sulla
negativa valutazione delle circostanze dedotte dalla difesa ma anche sulla
valorizzazione della sistematicità delle condotte illecite e sulla sussistenza
di precedenti penali anche specifici, appare immune da qualsivoglia vizio,
risultando espressione dei principi generali secondo i quali la sussistenza di
circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art.
62-bis c.p. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal
giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria
decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non
contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione neppure quando difetti
di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti
indicati nell’interesse dell’imputato (in termini, ex multis, Cass., Sez. 6, n. 7707/2003, Rv. 229768). Quanto
all’onere di motivazione sul punto imposto al giudice del merito, è stato
altresì precisato come quest’ultimo non è tenuto a prendere in considerazione
tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli
spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge –
come fatto nel caso di specie – con l’indicazione delle ragioni ostative alla
concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (in tal
senso, ex multis, v. Cass. Sez. 1, n. 3772/1994, Rv. 196880). In particolare,
ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche,
così come ai fini del bilanciamento tra circostanze e della definitiva
determinazione della pena, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra
gli elementi indicati dall’art. 133 c.p.,
quello che ritiene prevalente e atto a determinare o meno il riconoscimento dei
benefici invocati, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del
colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere
sufficiente in tal senso (così Cass., Sez. 2, n. 3609/2011, Rv. Rv. 249163 – 01
Sermone).

6. Il quinto motivo è inammissibile alla luce di
considerazioni analoghe a quelle immediatamente sopra formulate circa
l’inadeguatezza del vizio di violazione di legge dedotto rispetto al fine di
censurare una scelta del trattamento sanzionatorio ritenuta eccessiva. Cosicché
la critica avanzata, fondata sulla valutazione unilaterale di un ritenuto
comportamento di buona fede della ricorrente – che del resto se realmente tale
avrebbe dovuto piuttosto rilevare nel senso della esclusione del dolo del reato
e non quindi sul piano del trattamento sanzionatorio – si riduce ad una
generica prospettazione di dati valutativi inammissibile in questa sede.

7. Sulla base delle considerazioni che precedono, la
Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile,
con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese
del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale
in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere
che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che la
ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in
favore della Cassa delle Ammende.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in
favore della Cassa delle Ammende.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 dicembre 2020, n. 35819
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