Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 dicembre 2020, n. 27420

Rapporto a tempo pieno trasformato in tempo parziale,
Richiesta di restituzione al tempo pieno, Socio ed amministratore di azienda
agricola, Causa ostativa al ripristino, lncompatibilità di coloro che
svolgono un’attività lavorativa in proprio a prestare servizio per una Pubblica
amministrazione

 

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 355/2014, pubblicata in data 21
ottobre 2014, la Corte d’appello di Cagliari, in accoglimento dell’impugnazione
proposta dal Comune di Magomadas e, in riforma della decisione del Tribunale di
Oristano, mandava assolto il Comune da ogni richiesta formulata nei suoi
confronti da G.V.N.;

il N., dipendente del Comune già assunto con
rapporto a tempo pieno poi trasformato in rapporto a tempo parziale, aveva
chiesto la restituzione al tempo pieno;

in un primo tempo il Comune aveva accolto tale
richiesta con delibera di G.C. n. 113 del 29/12/2008 cui, però, il responsabile
del servizio aveva ritenuto di non dare esecuzione lasciando il N. a tempo
parziale;

dopo la notifica del ricorso di primo grado il
Comune, dedotta in sede di giudizio la sussistenza di una ragione ostativa alla
restituzione del N. al tempo pieno nel periodo oggetto di rivendicazione,
costituita dall’essere il predetto socio ed amministratore di azienda agricola,
dava atto che, in data 10/10/2011, tale servizio a tempo pieno era stato
ripristinato essendo stata l’azienda agricola cancellata dal registro delle
imprese;

il Tribunale accoglieva la domanda richiamando l’art. 6, comma 4, del d.l. n. 79/1997
conv. in I. n. 140/1997 e ritenendo, quanto
alla dedotta incompatibilità per lo svolgimento da parte del N. dell’attività
di imprenditore agricolo, che il Comune avrebbe dovuto, casomai, prima disporre
il reintegro a tempo pieno e poi intimargli la cessazione dell’attività;

dichiarava così il diritto del N. relativamente al
periodo dal dall’1/8/2008 al 10/10/2011, con condanna del Comune a
corrispondergli le differenze retributive rispetto ad un orario di 36 ore;

la Corte territoriale, riformando la pronuncia di
primo grado, respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello per non
conformità all’art. 342 cod. proc. civ.,
riteneva, al contrario, fondate le ragioni del Comune;

in particolare, quanto al merito, riteneva che
l’attività di imprenditore agricolo svolta dal N. rientrasse nell’ambito del
divieto di cui all’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957;

considerava irrilevante la modesta entità delle
dimensioni dell’azienda agricola atteso che non poteva dipendere da una
valutazione caso per caso l’impegno richiesto nel lavoro parallelo ed in ogni
caso evidenziava che non vi fosse stata nel giudizio di primo grado
dimostrazione di tale modesta entità; riteneva, del pari, irrilevante
l’autorizzazione data in passato dal Comune (prima del passaggio in part- time)
in quanto un precedente illegittimo non poteva fondare il diritto del
dipendente;

2. avverso tale sentenza ha proposto ricorso G.V.N.
con cinque motivi;

3. il Comune di Magomadas ha resistito con
controricorso successivamente illustrato da memoria.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia la
violazione dell’art. 342 cod. proc. civ.;

censura la sentenza impugnata per aver respinto
l’eccezione di inammissibilità del ricorso in appello sostenendo che il Comune
impugnante non avrebbe specificamente enucleato le ragioni per le quali sarebbe
stato erronea l’interpretazione delle norme di legge applicate dal Tribunale;

2. il motivo è infondato sol che si consideri che la
Corte territoriale ha ben chiarito quale fosse il nucleo essenziale del rilievo
mosso alla pronuncia del Tribunale dal Comune appellante, permeante ed
influenzante l’intero impianto argomentativo della sentenza impugnata,
individuando lo stesso nel non aver il giudice di prime cure tenuto conto delle
norme che disciplinano l’incompatibilità di coloro che svolgono un’attività lavorativa
in proprio a prestare servizio per una pubblica amministrazione;

d’altra parte, anche dopo le modifiche introdotta
dall’art. 54, comma 1, del d.l.
22 giugno 2012, n. 83 (convertito nella l. 7
agosto 2012, n. 134), così  come
interpretata da questa Suprema Corte a sezioni unite, con la sentenza n. 27199
del 2017 – la quale ha precisato che l’impugnazione deve contenere una chiara
individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata
e con essi le relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte
argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice -,
non è richiesto il rispetto di particolari forme sacramentali o vincolate ma è
sufficiente che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di
intendere con chiarezza il contenuto della censura proposta, dimostrando di
aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili
(cfr. anche Cass. 30 maggio 2018, n. 13535);

3. con il secondo motivo il ricorrente denuncia
omesso esame di un fatto decisivo individuato nella documentazione prodotta in
primo grado e riguardante le autorizzazioni date dal Comune nel passato;

4. il motivo è inammissibile sia perché la Corte
territoriale ha esaminato la documentazione prodotta dal ricorrente e ritenuto
irrilevanti le autorizzazioni intervenute in passato sia perché l’omesso esame
rilevante ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
del codice di rito riguarda il fatto storico decisivo ai fini di causa e non le
risultanze istruttorie dal quale il fatto stesso, valutato dal giudice di
merito, può essere desunto (v. Cass., Sez. Un., n. 8053/2014);

5. con il terzo motivo il ricorrente denuncia la
violazione dell’art. 60 d.P.R. n. 3/1957 e dell’art. 53 del d.lgs. n.
165/2001 nonché dell’art. 1,
commi 60 e 61 della I. n. 662/996;

sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato
nel ritenere tali norme riguardanti anche le attività agricole;

6. il motivo è infondato;

6.1. nello specifico l’incompatibilità è stata
valutata in relazione all’attività che il N., quale socio ed amministratore,
svolgeva nell’ambito di un’impresa agricola iscritta al registro delle imprese;

6.2. occorre premettere che la materia
dell’incompatibilità, del cumulo di impieghi e degli incarichi negli enti
locali territoriali è regolata in modo composito ed articolato;

la disciplina che la riguarda, infatti, è
distribuita fra fonti primarie e contrattazione collettiva nazionale di
comparto, sia pure in modo residuale; in particolare, la materia in esame è
stata specificatamente sottratta alla regolamentazione pattizia dalla legge delega 23 ottobre 1992 n.
421, il cui art. 2, comma 1, lett. c), num. 7 ha sottoposto a riserva di
legge proprio la disciplina “delle incompatibilità, tra l’impiego pubblico
ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi ed incarichi
pubblici”;

la ragione che ha indotto il legislatore a mantenere
questa materia al di fuori della contrattazione collettiva nazionale di
comparto risiede nella necessità di preservare i principi di buon andamento
della pubblica amministrazione e di esclusività della prestazione del pubblico
dipendente, entrambi costituzionalmente previsti, rispettivamente, degli artt. 97, comma 1 e 98,
comma 1 Cost., e quindi di attuarli in modo omogeneo per tutti i rapporti
di lavoro dei comparti del pubblico impiego, interessati o meno alla
depubblicizzazione;

sebbene la materia delle incompatibilità e del
cumulo di impieghi e degli incarichi sia assoggettata ad una riserva di
regolazione tramite atti aventi forza di legge, la contrattazione collettiva
nazionale di comparto è tutt’altro che ininfluente come è evincibile dal fatto
che la violazione del dovere di esclusività può essere agevolmente ricondotta
alle fattispecie di cui ai commi 7, lett. i) o 8, lett. f) dell’art. 25 del
c.c.n.l. Comparto Regioni e Autonomie locali del 6/7/1995, cosi come modificati
dal c.c.n.l. del medesimo Comparto del 22/1/2004;

quanto alle fonti primarie va ricordato che la
disciplina dell’incompatibilità non era estranea all’ordinamento del pubblico
impiego nella vigenza del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, il cui art. 60 elencava
i “Casi di incompatibilità”, indicando le attività precluse all’impiegato,
disposizione integrata dal successivo art. 63 che stabiliva i “Provvedimenti
per casi d’incompatibilità”, prevedendo un regime sanzionatorio particolarmente
severo, che poteva sfociare nella pronuncia di decadenza dall’impiego previa
diffida alla cessazione della situazione contra ius;

per il personale degli enti locali, nella vigenza
dei testi unici, e quindi prima della legge 8
giugno 1990 n. 142, il regime delle incompatibilità era delineato dall’art.
241 del R.D. 3 marzo 1934 n. 383;

tale norma prevedeva un regime di incompatibilità
pressoché assoluto, escludendo che i dipendenti dei comuni e delle province
potessero svolgere attività concomitanti con il loro rapporto di pubblico
impiego ed infatti prescriveva che “salvo che la legge disponga
altrimenti, l’ufficio di […] impiegato e salariato dei comuni, delle province
e dei consorzi è incompatibile con ogni altro ufficio retribuito a carico dello
Stato o di altro ente” fermo restando che “qualora ricorrano speciali
motivi […] il Prefetto […] sentita l’amministrazione interessata, può
autorizzare […] gli impiegati e i salariati dei comuni, delle province e dei
consorzi a prestare opera retribuita presso istituzioni pubbliche di assistenza
e beneficenza o di altri enti pubblici locali”;

la disciplina era completata dal comma 6 della
disposizione de qua, la quale prevedeva che “[…] gli impiegati e i
salariati devono astenersi inoltre da ogni occupazione o attività che, a giudizio
del Prefetto […] non sia ritenuta conciliabile con l’osservanza dei doveri
d’ufficio o col decoro dell’amministrazione stessa”;

l’art. 241 del R.D. n. 383 del 1934 è stato abrogato
dall’art. 64 della I. 8 giugno
1990 n. 142, il cui art. 51,
comma 9, ha rinviato al d.P.R. n. 3 del 1957 ai fini della regolamentazione
degli istituti della responsabilità in generale e di quella disciplinare in
particolare; attualmente la fattispecie è regolamentata per gli enti locali
territoriali dall’art. 1, commi
da 56 a 65 della I. n. 662 del 1996 e dall’art. 53 del d.lgs. n. 165 del
2001;

ed infatti a decorrere dal primo c.c.n.l. Comparto
Regioni e Autonomie locali – quadriennio normativo 1994/1997 e biennio
economico 1994/1995 – sottoscritto il 6.7.1995, anche ai dipendenti delle
Regioni e degli enti locali si applica l’art. 53 (ex 58) del TUPI e, per
i dipendenti a tempo parziale, si applica l’art. 1, commi 56 e seguenti, della
I. n. 662 del 1996 (del resto, Regioni, province e comuni sono compresi
nell’ambito della previsione di cui all’art. 1, comma 2, del TUPI);

per i dipendenti degli enti locali, dunque, il
regime delle incompatibilità risulta ora chiaramente riunificato sotto la
generale disciplina di cui all’art. 53 TUPI che, a sua
volta, sancisce per tutti i pubblici dipendenti (centrali e locali,
privatizzati e non) l’ultravigenza nell’attuale regime dei datati artt. 60-64
del d.P.R. n. 3 del 1957;

nel corso del tempo, i commi 1, 2 e 9 dell’art. 53 sono rimasti
inalterati, così come la giurisprudenza di questa Corte in materia che ha
attribuito alla anzidetta disciplina di carattere generale natura cogente, in
conformità con l’indirizzo della Corte costituzionale (fra le altre: Cass. 2
maggio 2017, n. 10629);

6.3. dalla lettura combinata e complessiva dell’art. 53 TUPI con l’art. 60 cit. deriva che si
possono distinguere tre ipotesi: 1) attività assolutamente incompatibili: sono
le attività inibite, che non si possono esercitare nemmeno con autorizzazione
(art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 etc.); 2) attività consentite: sono le
attività per cui non è necessaria l’autorizzazione (indicate

dall’art. 53, comma 6, del d.lgs.
n. 165 del 2001); 3) attività consentite previa autorizzazione: tutte le
altre attività comprese nella sfera di applicabilità dell’art. 53 del TUPI (i casi
possono essere molteplici);

6.4. quanto alle attività assolutamente
incompatibili l’art. 60 del
TUPI stabilisce che: “L’impiegato non può esercitare il commercio,
l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di
privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che
si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo
Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro
competente”;

orbene la previsione, dal punto di vista oggettivo,
è ampia e tale da includere tutte le attività che presentino i caratteri della
abitualità e professionalità idonee a disperdere all’esterno le energie
lavorative del dipendente e ciò al fine di preservare queste ultime e tutelare
il buon andamento della p.a. che risulterebbe turbato dall’espletamento da
parte dei propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un
nesso tra lavoro, rischio e profitto;

non ignora questa Corte quella parte della
giurisprudenza (specie amministrativa) secondo cui l’attività agricola non
rientrerebbe tra le attività automaticamente incompatibili;

si sostiene, a sostegno di detta interpretazione
(fatta propria anche dal ricorrente), che tale attività non sia stata
specificamente individuata dall’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 tra quelle
precluse per l’impiegato pubblico e che deponga nel senso della esclusione
anche il raffronto, sul piano sistematico, con la disciplina civilistica,
atteso che nel codice civile all’attività agricola è dedicato uno specifico
settore (titolo II, capo II) del medesimo libro (V – del lavoro), il quale
contiene anche la disciplina attinente al commercio e all’industria (titolo II,
capo III), alle professioni intellettuali (titolo III, capo II), al lavoro subordinato
(titolo II, capo I), alle cariche societarie (titolo V); pertanto la mancata
inclusione dell’attività agricola – una delle attività lavorative tipiche
secondo la disciplina civilistica – tra quelle vietate dal citato art. 60,
sarebbe un elemento decisivo per ritenere la stessa compatibile con l’impiego
pubblico a tempo pieno;

tale impostazione, però, non tiene conto di quella
che era la struttura economico-sociale del Paese negli anni ’50, nei quali fu
emanato il d.P.R. n. 3 del 1957, ove quasi ogni famiglia, a vario titolo, era
implicata nell’agricoltura, sicché se tale attività fosse stata inserita, per
via interpretativa, tra quelle incompatibili ne sarebbe derivata l’esclusione
dall’impiego statale della maggior parte dei cittadini;

soprattutto non tiene conto di quella che è stata
l’evoluzione dell’attività agricola sia attraverso la legge 9 maggio 1975, n. 153 “Attuazione delle
direttive del Consiglio delle Comunità europee per la riforma dell’agricoltura”
secondo la quale (art. 12)
“la qualifica di imprenditore agricolo principale va riconosciuta a chi
dedichi all’attività agricola almeno 2/3 del proprio tempo di lavoro
complessivo e ricavi dall’attività medesima almeno i 2/3 del proprio reddito
globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale” sia
attraverso l’adeguamento di tale attività alle strutture societarie già
presenti nel nostro ordinamento, così che l’imprenditore agricolo può essere
anche una società, sia di persone che di capitali, oltre che cooperative;

in questo caso l’impresa agricola resta comunque
un’impresa commerciale ma qualora in possesso dei requisiti previsti dall’art. 2135 cod. civ. otterrà lo status di agricola
e in quanto tale non sarà assoggettata al fallimento e alle altre procedure
concorsuali (ex art. 2221 cod. civ.) né
obbligata alla tenuta delle scritture contabili (ex art.
2136 cod. civ.);

ed infatti con il d.lgs.
20 marzo 2004, n. 99 è stata prevista, all’art. 2, espressamente la “società
agricola”, che deve svolgere le attività previste per il singolo imprenditore
e, sebbene non sia vincolata a qualche forma societaria, deve rispettare alcuni
canoni come ad esempio l’espressa qualifica nella ragione sociale o
denominazione;

tale tipo di società può essere costituita nella
forma di società di persone (società semplici, s.n.c. o s.a.s.), società di
capitali (s.r.l. o s.p.a.) e cooperativa e deve essere iscritta al Registro
delle Imprese presso la Camera di Commercio;

ed allora, interpretata la disposizione di cui al
citato art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 in un senso più aderente alla realtà
attuale, non può che intendersi la stessa riferita anche a tale tipo di impresa
agricola;

quindi la sentenza impugnata, sul punto, è pervenuta
ad una conclusione esatta, anche se il percorso argomentativo va corretto nei
termini sopra indicati, ex art. 384 cod. proc. civ.;

6.5. così chiarita l’interpretazione della
disposizione oggetto di esame quanto alla portata oggettiva, va evidenziato
che, dal punto di vista soggettivo, sono fatte salve talune deroghe
specificamente indicate, tra cui quella relativa ai rapporti di lavoro del
personale in part-time c.d. ridotto (ossia con prestazione lavorativa non
superiore al 50% di quella a tempo pieno);

6.6. ciò detto, quello che rileva non è la
remunerazione che il dipendente ottenga da un’attività esterna ma la
sussistenza di un centro di interessi alternativo all’ufficio pubblico
rivestito implicante un’attività che, in quanto caratterizzata da intensità,
continuità e professionalità, pregiudicando il rispetto del dovere di
esclusività, potrebbe turbare la regolarità del servizio o attenuare
l’indipendenza del lavoratore pubblico e conseguentemente il prestigio della
p.a.;

la ratio del divieto che, come detto, permane anche
nel lavoro pubblico privatizzato, è, infatti, da ricercare nel principio
costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore
di lavoro pubblico che trova il proprio fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost. con il quale i nostri Costituenti,
nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della
Nazione” hanno voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo tutti coloro che
svolgono un’attività lavorativa “alle dipendenze” – in senso lato –
delle Pubbliche Amministrazioni dai condizionamenti che potrebbero derivare
dall’esercizio di altre attività (Cass. n. 12626
del 2020; n. 11949 del 2019; n. 3467 del 2019; n. 427 del 2019; n. 20880
del 2018; n. 28975 del 2017; n. 28797 del 2017;
n. 8722 del 2017);

6.7. se il criterio guida è, dunque, l’interferenza
sull’attività ordinaria del dipendente, anche la partecipazione in imprese
agricole è da ritenere incompatibile con un rapporto di lavoro a tempo pieno
laddove sussistano gli indicati caratteri della abitualità e professionalità,
caratteri che la forma societaria prescelta fa indubbiamente presumere;

6.8. nella specie la sentenza impugnata, nelle
conclusioni cui è pervenuta, è assolutamente coerente con gli indicati principi
avendo la Corte cagliaritana valorizzato che il N. era socio ed amministratore
dell’Azienda Agricola N.V. e M. (si trattava, come è pacifico in atti, di una
impresa costituita con la forma della società semplice ed iscritta al registro
delle imprese), il che è già significativo di quella dedizione continua tipica
dell’impresa professionale e rende superflua ogni ulteriore considerazione;

7. con il quarto motivo il ricorrente censura la
sentenza impugnata per violazione dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 79/1997,
conv. in I. n. 140/1997, dell’art. 4 del
c.c.n.l. del 14.9.2000 per il Comparto Regioni e Autonomie locali, della circolare n. 6/97 della Presidenza del Consiglio –
Dipartimento della Funzione pubblica in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.; sostiene il
ricorrente che le indicate disposizioni (nell’interpretazione datane dalla
l’indicata Circolare della Presidenza del Consiglio) prevederebbero un diritto
al rientro a tempo pieno anche quando il posto in organico non sia immediatamente
disponibile;

8. il motivo è inammissibile;

8.1. innanzitutto si osserva che la Circolare della
Presidenza del Consiglio è un mero atto interno destinato ad indirizzare e
disciplinare in modo uniforme l’attività degli organi inferiori e, quindi, ha natura
non normativa, ma di atto amministrativo sicché la sua violazione non è
denunciabile in cassazione ai sensi dell’art. 360,
n. 3, cod. proc. civ. (cfr. Cass. 10 agosto 2015, n. 16644; Cass. 25 luglio
2018, n. 19728;

8.2. per il resto il motivo non coglie la ratio
decidendi della sentenza impugnata secondo la quale un diritto quale quello
rivendicato può sussistere sempre a condizione che non vi siano, come nella
specie, incompatibilità;

9. con il quinto motivo il ricorrente censura la
sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ.; sostiene che la condanna
alle spese è stata eccessivamente onerosa e pari al doppio delle spese
liquidate (in suo favore) dal Tribunale;

10. anche questo motivo è da respingere;

la censura si risolve in un’inammissibile doglianza
quanto all’eccessività della liquidazione, in contrasto con la giurisprudenza
di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 2386/2017) in tema di liquidazione
delle spese processuali successiva al d.m. n. 55
del 2014, non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione
secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il
compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con
apposita motivazione (conf. Cass. n. 26608/2017; Cass. n. 29606/2017; Cass. n.
11601/2018), essendo quindi necessario specificare che la liquidazione sia
avvenuta al di sopra dei massimi ovvero al di sotto dei minimi tariffari (cfr.
Cass. n. 22983/2014), doglianza che invece il ricorrente non ha proposto in
tali termini;

11. in conclusione il ricorso va rigettato;

12. le spese, nella misura liquidata in dispositivo,
seguono la soccombenza;

13. sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, previsto dall’art.
13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per
compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura
del 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 dicembre 2020, n. 27420
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