Il datore di lavoro, in quanto garante della personalità morale del lavoratore, è responsabile anche in caso di mobbing c.d. orizzontale, attuato cioè da più dipendenti nei confronti di un collega di lavoro.
Nota a Cass. 4 dicembre 2020, n. 27913
Maria Novella Bettini
Interessante pronunzia della Corte di Cassazione in tema di mobbing c.d. orizzontale (Cass. 4 dicembre 2020, n. 27913, conforme ad App. Ancona, 19 gennaio 2018), relativamente al ricorso presentato da una lavoratrice fatta oggetto di numerosi e ripetuti “episodi mobbizzanti posti in essere da colleghi di lavoro ed integranti sia il requisito soggettivo di una serie di condotte vessatorie basate su accuse infondate dirette alla lavoratrice medesima e suscettibili di evidenziare la volontà di prevaricazione dei suddetti dipendenti nei confronti della stessa, sia quello oggettivo della pluralità di offese, atti o fatti mortificanti, caratterizzati da sistematicità e quotidianità delle offese e dei rimproveri ingiustificati con cui i colleghi la perseguitavano”.
Come noto, la c.d. mobbizzazione del lavoratore consiste in comportamenti persecutori, reiterati (ad eccezione del demansionamento o straining) ed atipici, attuati sul luogo di lavoro, da parte di uno o più soggetti nei confronti di un altro soggetto più debole in ragione di un “dislivello di potere”, non avendo la vittima le stesse capacità di difendersi dell’aggressore.
Nello specifico, il mobbing può essere: 1) verticale (o gerarchico o “bossing”), praticato da un superiore gerarchico verso uno o più sottoposti; 2) orizzontale, operato tra soggetti di pari grado, generalmente molti contro uno (come nel caso in esame); 3) ascendente, cioè attuato da un gruppo compatto di sottoposti contro il superiore gerarchico; 4) pianificato (strategico) in esito ad una precisa strategia aziendale volta ad allontanare specifici soggetti o a porre in essere una politica di riduzione del personale, scavalcando la rigida disciplina in materia di licenziamenti. Quanto agli effetti della mobbizzazione, assume rilievo il c.d. mobbing di ritorno o doppio mobbing, fenomeno che definisce la condizione in cui è coinvolta la famiglia del mobbizzato. Ed infatti, a seguito delle vessazioni subìte, la vittima sfoga la propria rabbia, l’insoddisfazione e la negatività accumulata sul posto di lavoro, all’interno del contesto familiare. Il che determina un “conflitto” ed uno squilibrio delle dinamiche familiari, dato che i turbamenti del mobbizzato si riversano sulla famiglia, la quale, per proteggersi dalla “distruttività” del mobbing, non presta più il proprio sostegno alla vittima, tanto che il mobbizzato viene isolato, con la conseguenza che gli effetti del mobbing risultano raddoppiati.
Secondo la Cassazione, nell’ ipotesi di mobbing orizzontale, sottoposta al suo giudizio, il datore di lavoro sebbene non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subìte dalla lavoratrice, tuttavia non può essere considerato esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di sicurezza previsti da una serie di disposizioni legislative che sviluppano il più generale diritto alla salute garantito a tutti i cittadini dall’art. 32, co.1, Cost.
Il datore di lavoro è poi garante della tutela della dignità e personalità morale del lavoratore in base ad altre disposizioni di legge quali l’art. 41 Cost., l’art. 2087 c.c., gli artt.1175 e 1375 c.c. e l’art. 2043 c.c.
Quanto alla prima norma (art. 41 Cost.) la Cassazione rileva come la Carta Costituzionale abbia “segnato anche nella materia giuslavoristica un momento di rottura rispetto al sistema precedente”, consacrando “il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato”, nel senso che ha subordinato l’attività produttiva quale manifestazione dell’iniziativa economica privata (co.1), alla utilità sociale, “intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità”. Con la conseguenza che la concezione “patrimonialistica” dell’individuo “deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa -; momenti tutti che “costituiscono il centro di gravità del sistema”, ponendosi come valori apicali dell’ordinamento”.
Per quanto concerne l’art. 2087 c.c., la Corte richiama i consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr., fra tante, Cass. nn. 10145/2017; 22710/2015 e 18626/2013), che si sono espressi nel senso che la responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore deriva, oltre che da norme specifiche (si pensi al D.LGS. n. 81/2008), dall’art. 2087 c.c. Tale disposizione di ordine generale costituisce una norma di chiusura del sistema antinfortunistico, che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, l’esperienza e la tecnica, siano necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori (cfr., tra le molte, Cass. nn. 27964/2018; 16645/2003; 6377/2003).
L’obbligo di proteggere la salute dei lavoratori è estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione. Ciò, in quanto il dovere di sicurezza non si esaurisce “nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico”, ma attiene anche – e soprattutto – alla predisposizione “di misure atte a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio” (v. già Cass. n. 8422/1997).
In quest’ottica, assumono rilievo sia gli artt. 1175 e 1375 c.c., relative al principio di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio e caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di “clausole generali (generalklauseln), cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro”; sia l’art. 2043 c.c., poiché, come sottolinea la Cassazione, seppur nell’ambito della generica responsabilità extracontrattuale, la violazione del dovere del neminem laedere può consistere anche in un comportamento omissivo e “l’obbligo giuridico di impedire l’evento può discendere, oltre che da una disposizione di legge o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività”. Sicché, “a tutela di un diritto altrui, è da considerare responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui è esposto l’altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento dannoso”.

