Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 febbraio 2021, n. 4673

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Posto di
lavoro effettivamente soppresso, Assunzione poche settimane prima del
licenziamento, di altro lavoratore con mansioni analoghe, Volontà datoriale di
riduzione dei costi, Effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso
la soppressione di una individuata posizione lavorativa

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di L’Aquila, con sentenza n.
914/15, ritenne non giustificato il licenziamento per giustificato motivo
oggettivo intimato in data 29 ottobre 2013 dalla soc. F.Ili D.C. di F.F.S.M.
s.p.a. a P.P..

I giudici di appello, pur riconoscendo che il posto
di lavoro era stato effettivamente soppresso, ritennero che l’assunzione poche
settimane prima del licenziamento di altro lavoratore con mansioni analoghe,
comportando un aumento di organico, fosse in contrasto con la asserita volontà
datoriale di riduzione dei costi. In applicazione della c.d. tutela
indennitaria forte, riconobbero al P. un risarcimento complessivo di euro
86.832,36.

2. Sui ricorsi per cassazione proposti da entrambe
le parti, questa Corte, con sentenza n. 9127 del
2018, cassò la sentenza impugnata in accoglimento del secondo motivo del
ricorso incidentale della società, sulla base dell’osservazione per cui
l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto
fattuale che il datore deve necessariamente provare e il giudice accertare,
essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e
all’organizzazione del lavoro causalmente determinino un effettivo mutamento
dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata
posizione lavorativa e non essendo sindacabile, sotto il profilo della
congruità ed opportunità, la scelta datoriale di sopprimere un determinato
posto di lavoro.

Dichiarò inammissibile per novità il primo motivo di
ricorso incidentale della società sul mancato verificarsi della condizione cui
sarebbe stata subordinata l’assunzione del P.. Rigettò i primi tre motivi e il
quinto motivo del ricorso principale del lavoratore, aventi ad oggetto il
rigetto della riqualificazione del licenziamento come discriminatorio e/o
ritorsivo, il rigetto dell’eccezione di nullità del licenziamento per assenza
di motivazione e della violazione del principio di immodificabilità della
contestazione, nonché il rigetto della domanda risarcitoria per perdita di
chance.

Dichiarò assorbiti tutti i restanti motivi del
ricorso principale: il quarto vertente sulla richiesta di applicazione di
tutela reintegratoria sul presupposto (ancora sub iudice) della manifesta
insussistenza del giustificato motivo oggettivo; il sesto e il settimo motivo
sulla omessa pronuncia in ordine alla violazione dei criteri di selezione
indicati dall’art. 5 legge n. 223 del 1991, anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 cod.
civ. (e in via subordinata, sul difetto assoluto di motivazione con riguardo
ad un capo di sentenza specificamente impugnato); l’ottavo e il nono motivo per
omessa pronuncia sul motivo di impugnazione riguardante la violazione
dell’obbligo di repêchage (e in via subordinata, sul difetto assoluto di
motivazione con riguardo ad una capo di sentenza specificamente impugnato); il
decimo e l’undicesimo motivo sulla regolazione delle spese, erroneamente
dichiarate compensate.

3. Pronunciando in sede di rinvio, la Corte di
appello di L’Aquila, con sentenza n. 647 del 2018, ha rigettato il reclamo
proposto da P.P., confermando la pronuncia di illegittimità del licenziamento
per sole violazioni procedimentali, con applicazione della tutela indennitaria
di cui al sesto comma dell’art.
18 legge n. 300 del 1970, come novellato dalla lege
n. 92 del 2012, con condanna del lavoratore alla restituzione del
differenziale già erogato in esecuzione della originaria sentenza di appello
poi cassata e pari ad euro 38.250,16 lordi (pari al netto di euro 29.485,59),
maggiorata di interessi legali maturati dalla data del pagamento al saldo.

4. La Corte di appello ha premesso che il ricorrente
era stato assunto come “responsabile vendite Retail” per il mercato
del Brasile e del Sud America con il compito di provvedere alla vendita diretta
in loco dei prodotti commercializzati dalla società, operando da San Paolo del
Brasile a diretto contatto con i clienti finali; che dopo il suo licenziamento
tale compito venne svolto dal D.E.I. a distanza, cioè dalla sede di Pescara,
avvalendosi di intermediari; che erano state dimostrate in giudizio sia
l’effettività della soppressione della posizione organizzativa rivestita dal
P., sia l’assegnazione di parte delle relative mansioni al direttore della
divisione export I..

5. Passando ad esaminare i motivi vertenti
sull’obbligo di repêchage e sulla dedotta violazione del criterio comparativo
di cui all’art. 5 legge n.
223/91, la Corte di appello ha argomentato, in sintesi, come segue:

– come osservato dal giudice di primo grado, nulla
aveva allegato il P. circa l’esistenza di altre sedi o altri posti rimasti
liberi in posizioni e mansioni professionalmente affini o anche inferiori; né
aveva contestato il documento di parte opposta secondo cui vi era una stabile
occupazione, nei settori “servizi commerciali” e “direzione
export”, di tutte le posizioni organizzative ivi presenti;

– in sede di riassunzione, il P. aveva ribadito che
poche settimane prima del licenziamento era stato assunto D.N., lavoratore con
analogo curriculum, comparabile profilo professionale ed equivalenti mansioni
di vendita all’estero di prodotti della D.C., seppure per diverse aree
geografiche e differenti modalità di attuazione;

– tuttavia, possono considerarsi equivalenti a
quelle espletate solo le mansioni che, non solo siano oggettivamente comprese
nella stessa area professionale e salariale, ma che si armonizzino con la
professionalità acquisita dal lavoratore nel corso del rapporto, sì da
impedirne la dequalificazione;

– inoltre, l’onere probatorio dell’impossibilità di
repêchage posto in capo al datore di lavoro va contenuto entro limiti di
ragionevolezza, facendo carico al lavoratore l’onere di allegare circostanze
atte a dimostrare l’esistenza nell’ambito della struttura organizzativa di
posti di lavoro effettivamente disponibili per mansioni equivalenti e
compatibili con la propria professionalità;

– alla luce di tali principi, va affermato che la
posizione del P. non poteva essere comparata con quella del N., che era stato
assunto per mansioni intrinsecamente diverse, né con quelle dello I., che
ricopriva una posizione apicale nella divisione export, e neppure con quella di
P.G., che curava le vendite verso l’Africa e il Medio Oriente;

– d’altra parte, una volta che il datore sia
addivenuto alla determinazione di sopprimere una ben individuata posizione
organizzativa, non avente equipollenti nell’organico aziendale, non appaiono
sussistenti margini per potere individuare posizioni organizzative alternative
dove collocare il dipendente in esubero;

– il reclamante non ha specificamente allegato
concrete circostanze atte a dimostrare l’esistenza, nell’ambito della struttura
organizzativa aziendale, ulteriori posti di lavoro effettivamente disponibili,
per mansioni equivalenti e compatibili con la sua professionalità;

– tenuto conto del già evidenziato differente ruolo
ricoperto dal P. e dal N. e della conseguente infungibilità delle rispettive
posizioni lavorative, non può essere accolto neppure l’ulteriore motivo secondo
cui, quando il giustificato motivo oggettivo si identifichi nella generica
esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, ai fini del controllo
della conformità della scelta dei lavoratori ai principi di buona fede e
correttezza di cui all’art. 1175 cod. civ., non
essendo utilizzabile il normale criterio della posizione lavorativa da
sopprimere, né quello della impossibilità di repêchage (appunto per essere le
posizioni equivalenti) ben può farsi riferimento, pur nella diversità dei
rispettivi regimi, all’art. 5
della legge n. 223 del 1991, dettato per i licenziamenti collettivi,
prendendo in considerazione in via analogica il criterio dei carichi di
famiglia e dell’anzianità;

– in conclusione, va riconosciuta la sussistenza del
giustificato motivo oggettivo e, non essendo state allegate dalla società
ragioni idonee a ribaltare il giudizio espresso in primo grado in ordine alla
violazione della procedura di cui all’art. 7 legge n. 300 del 1970,
come novellato dalla legge n. 92 del 2012, il
licenziamento, illegittimo solo sotto il profilo procedurale, va sanzionato ai
sensi del comma 6 dell’art. 18
della stessa legge, con applicazione della indennità pari a dodici mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto, come riconosciuto dal primo giudice.

6. Per la cassazione di tale sentenza P.P. ha
proposto ricorso affidato a due motivi. La società ha resistito con
controricorso e memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia
violazione dell’art. 3 legge n.
604 del 1966, in combinato disposto con l’art.
2697 cod. civ. (art. 360, primo comma, n. 3
cod. proc. civ.). Censura la sentenza nella parte in cui ha posto a carico
del lavoratore gli oneri di allegazione di circostanze atte a dimostrare
l’esistenza nella struttura organizzativa di posti di lavoro effettivamente
disponibili, ponendosi così in contrasto con la giurisprudenza di legittimità
secondo cui (Cass. n. 5592 del 2016) grava sul
datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del
lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo del
licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo da parte
del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una
divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte
deducente.

Deduce che era così mancato l’accertamento della
sufficienza delle prove fornite dal datore di lavoro circa l’assenza dei posti
vacanti nella struttura produttiva con riguardo ad ogni sede di essa, comprese
quelle estere, dovendosi pure considerare che tale indagine deve comprendere
l’intero contesto produttivo, non solo il settore di impiego del lavoratore, e
anche in mansioni inferiori (Cass. n. 4500 del
2016 e 22798 del 2016), che devono essere
proposte antecedentemente al licenziamento.

2. Con il secondo motivo si censura la sentenza per
violazione dell’art. 3 legge n.
604 del 1966, in combinato disposto con l’art.
2103 c.c., nonché con l’art.
5 legge 223 del 1991 e con gli artt. 1175 e
1375 cod. civ. (art.
360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.), nella parte in cui ha ritenuto
infungibile la posizione del ricorrente, facendo coincidere l’equivalenza con
l’identità delle modalità esecutive delle mansioni, in violazione dei criteri
interpretativi desumibili dall’art. 2103 cod. civ..

Il ricorrente deduce che il giudizio
sull’equivalenza delle mansioni, al fine di verificare l’utilizzabilità da
parte datoriale in diverse posizioni lavorative, deve essere formulato mediante
un’indagine da compiersi in concreto rispetto alla competenza richiesta e al
livello professionale posseduto e raggiunto (Cass. n. 1510 del 2013 e n. 8527 del 2011), senza che rilevi la specifica
modalità esecutiva delle mansioni, poiché è il bagaglio professionale
valorizzarle l’elemento dirimente per determinare le oggettive possibilità di
impiego. Rileva che, diversamente ragionando sulla identità delle modalità di
svolgimento delle mansioni, non vi sarebbe spazio per il controllo giudiziale
sull’oggettività del corretto esperimento dell’obbligo di repêchage, in quanto
nessuna attività può essere svolta in termini identici ad un’altra. Sostiene
che neppure la collocazione geografica del luogo di esplicazione delle mansioni
appare decisivo.

Censura la sentenza anche nella parte in cui ha
escluso che l’indagine intorno all’adempimento dell’obbligo di repêchage
dovesse involgere anche le posizioni lavorative diverse e/o in mansioni
inferiori per essere di ostacolo il divieto di demansionamento e
dequalificazione. Anche sotto questo profilo, rileva come la sentenza si
collochi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 10018 del 2016, 3040 del 2011, 7046
del 2011, 4509 del 2016, 22798 del 2016, n.
21715 del 2018).

Deduce infine che il giudizio di infungibilità
espresso dal giudice di rinvio con riguardo non alla professionalità, ma alle
mansioni viola i criteri selettivi di cui all’art. 5 legge n. 223 del 1991,
da utilizzare come parametro per la verifica del rispetto del principio
generale di correttezza e buona fede disciplinanti il rapporto di lavoro anche
nella sua fase estintiva.

Conclude per l’insussistenza del giustificato motivo
oggettivo del licenziamento e per l’applicazione, in via principale, della
tutela reintegratoria e, in via subordinata, di quella indennitaria c.d. forte.

3. Entrambi i motivi di ricorso appaiono meritevoli
di accoglimento.

4. La soluzione accolta dal giudice di rinvio
contrasta con i principi elaborati dalla più recente giurisprudenza di questa
Corte.

5. Secondo l’orientamento oramai consolidato di
questa Corte, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova
dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche
l’impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di
lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. Sul datore di lavoro incombe
l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del
potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente
all’attività produttiva, all’organizzazione o al funzionamento dell’azienda
nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni
diverse da quelle precedentemente svolte (cfr. Cass.
n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016,
Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017; v. pure, tra le più
recenti, Cass. n. 24195 del 2020).

6. L’impossibilità di reimpiego del lavoratore in
mansioni diverse costituisce elemento che, inespresso a livello normativo,
trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel
carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale,
che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del
lavoratore (Cass. n. 24882 del 2017).

7. In ordine all’onere di allegazione di posti
disponibili per una utile ricollocazione, è stato osservato che esigere che sia
il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato
all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere
della prova (che – invece – l’art.
5 legge n. 604 del 1966 pone inequivocabilmente a carico del datore di
lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere
probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il
secondo all’altra, una scissione che non si rinviene in nessun altro caso nella
giurisprudenza di legittimità. Invece, alla luce dei principi di diritto
processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere
sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario
(costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello
stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione
(sull’impossibilità di disgiungere fra loro onere di allegazione e relativo
onere probatorio gravante sulla medesima parte v., ex aliis, Cass. n. 21847 del
2014) (in tali termini, Cass. n. 12101 del 2016
cit.).

8. Tanto premesso, va osservato che si collocano
nell’alveo di un diverso orientamento interpretativo i due passaggi
argomentativi contenuti nella sentenza impugnata, posti a base del decisum, in
cui si è affermato che spettava al lavoratore l’onere di allegare l’esistenza
di posti di lavoro effettivamente disponibili in cui potere essere utilmente
inserito.

Da tale assunto la sentenza ha fatto discendere un
accertamento giudiziale limitato all’ambito delle posizioni indicate dal
lavoratore come fungibili con la propria, così sostanzialmente invertendo gli
oneri di allegazione e di prova gravanti invece sulla parte datoriale.

9. Occorre solo aggiungere che in alcune recenti
pronunce si è affermato che, sebbene non sussista un onere del lavoratore di
indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai
fini del repêchage, ove il lavoratore medesimo, in un contesto di accertata e
grave crisi economica ed organizzativa dell’impresa, indichi le posizioni
lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale
verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la
possibilità del predetto repêchage (Cass. n. 30259
del 2018 e n. 15401 del 2020). Tali
principi operano su un piano diverso da quello che viene in esame nella
presente fattispecie.

In uno dei casi esaminati (Cass. n. 30259 del 2018), la società aveva
dimostrato di versare in una grave crisi con drastica riduzione degli impianti,
licenziamenti collettivi e ricorso a cassa integrazione guadagni e in tale
contesto di allegazioni e di prove di parte datoriale, il giudice di merito
aveva valutato anche l’incollocabilità del lavoratore presso altre posizioni
lavorative che lo stesso, pur non essendovi tenutovi, aveva indicato come disponibili.
L’allegazione del ricorrente valeva quindi a integrare il quadro della prova
presuntiva nel quadro complessivo degli elementi acquisiti al processo che la
sentenza impugnata, secondo l’accertamento di merito che le era demandato,
aveva ritenuto utilizzabili per giungere ad escludere, nel giudizio finale e
complessivo, la possibilità di ricollocazione del ricorrente in azienda.

Nell’altro caso (Cass.
n. 15401 del 2020), il giudice di merito aveva escluso la possibilità di un
reimpiego del lavoratore, anche in mansioni inferiori rientranti nel suo
bagaglio professionale, per avere ciò verificato anche mediante l’accertata
insussistenza delle posizioni lavorative indicate dal lavoratore reclamante
come disponibili, con accertamento in fatto insindacabile in sede di
legittimità.

10. In entrambi i casi, il giudizio espresso dal
giudice di merito, ritenuto conforme a diritto, è quello condotto nell’ambito
della prova presuntiva del fatto negativo acquisibile anche attraverso fatti
positivi, tra i quali ben possono essere inclusi i fatti indicati dal
lavoratore ed acquisiti al processo. Il principio non vale invece ad invertire
l’onere della prova di cui ai principi sopra indicati, peraltro espressamente
richiamati e condivisi anche dalle due sopra citate pronunce.

11. Sempre nell’ambito del primo motivo, va ribadito
il principio per cui (Cass. n. 4509 del 2016)
in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per la soppressione
del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha
l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva
alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di
mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e
buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la
possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio
professionale. In tal senso si era espressa anche la giurisprudenza più
risalente: Cass. n. 21579 del 2008 e n. 23698 del 2015 (v. più recentemente, Cass. n. 29099 del 2019). Dovendosi solo
precisare che, in tale contesto, non vengono in rilievo tutte le mansioni
inferiori dell’organigramma aziendale ma solo quelle che siano compatibili con
le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state
effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia
previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un’ulteriore o diversa
formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro (Cass. n. 31520 del 2019).

12. In conclusione, la Corte di appello, dopo avere
accertato l’effettività della soppressione del posto e la riferibilità della
soppressione ad una scelta datoriale (insindacabile dal giudice quanto ai
profili di congruità e opportunità), non si è attenuta, quanto all’accertamento
dell’ulteriore requisito – anch’esso costitutivo della legittimità del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo – relativo all’impossibilità di
reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, ai principi giurisprudenziali
espressi da questa Corte circa il riparto degli oneri probatori, dovendosi
escludere che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti
assegnabili (Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 5592 e 12101
del 2016): elemento, questo dell’impossibilità di reimpiego in altre
posizioni di lavoro e/o con diverse mansioni, che, se pure normativamente
inespresso nella formulazione testuale dell’art. 3 I. n. 604/1966, trova
la sua giustificazione sia sul piano dei valori, nella prospettiva del
licenziamento come extrema ratio all’interno di un ordinamento che tutela il
lavoro già a livello costituzionale, limitando, per converso, l’iniziativa
economica privata, ove il suo esercizio risulti in contrasto con la dignità
umana (art. 41, secondo comma, Cost.); sia come
riflesso logico del carattere effettivo e non pretestuoso che deve accompagnare
la scelta tecnico-organizzativa del datore di lavoro, la quale, siccome
univocamente diretta al conseguimento delle ragioni proprie dell’impresa, non
può riconoscere il condizionamento di finalità espulsive diversamente legate
alla persona del lavoratore (in tal senso, v. Cass.
n. 24882 del 2017, in motivazione).

13. Anche il secondo motivo appare meritevole di
accoglimento.

14. È vero che, quando la ragione del recesso
consiste nella soppressione di uno specifico servizio e non si identifica nella
generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il nesso
causale tra detta ragione e la soppressione del posto di lavoro è idoneo di per
sé a individuare il personale da licenziare, senza che si renda necessaria la
comparazione con altri lavoratori dell’aziendale l’applicazione dei criteri
previsti dall’art. 5, I. n. 223
del 1991 (Cass. 25653 del 2017).

15. Tuttavia, nel caso in esame, la stessa sentenza
impugnata, dopo avere dato atto che la soppressione della posizione lavorativa
occupata dal V. non era avvenuta nel contesto della soppressione della funzione
(che era invece stata mantenuta ma diversamente distribuita), è pervenuta a
formulare un giudizio di esclusione della fungibilità con riguardo alla natura
delle mansioni di fatto svolte anziché, come avrebbe dovuto, con riguardo
all’eventuale professionalità omogenea (cfr. Cass.
n. 25192 del 2016). La comparazione è stata così operata per ruoli e
mansioni, ossia attraverso un criterio inadeguato.

16. In conclusione, la sentenza va cassata per il
riesame del merito delle questioni oggetto del ricorso qui accolto, con rinvio
alla Corte di appello di L’Aquila in diversa composizione, la quale provvederà
anche in ordine alle spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata in
parte qua e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di L’Aquila in
diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 febbraio 2021, n. 4673
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: