Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 febbraio 2021, n. 5253

Lavoro, Contratto di agenzia e di procacciamento di affari,
Tratti distintivi, Qualificazione giuridica del rapporto

 

Rilevato

 

che la Corte di Appello di Napoli, con sentenza
pubblicata il 2.2.2016, ha rigettato il gravame interposto da G.D.F. A. &
C. S.n.c., nei confronti di G.C., avverso la pronunzia del Tribunale di Noia,
resa il 2.10.2010, con la quale era stata respinta l’opposizione proposta dalla
società avverso il decreto ingiuntivo emesso dallo stesso Tribunale, con cui
era stato ingiunto alla società «di porre a disposizione copia delle fatture di
vendita alla clientela, nonché copia dei libri contabili ed estratto conto
provvigionali relativamente alla zona individuata nel contratto di agenzia del
5.7.2004 stipulato tra la società ed il predetto Caruso ed al periodo di durata
del rapporto»;

che la Corte di merito, per quanto ancora di
interesse in questa sede, ha sottolineato che «condivisibilmente il Tribunale,
dopo aver sottolineato i tratti distintivi del rapporto di agenzia e del
rapporto di procacciamento di affari, ha motivato la ritenuta applicabilità in
via analogica dell’art. 1749 c.c. alla
fattispecie del procacciamento di affari fondandola non sul carattere stabile
del rapporto bensì sulla funzionalità dell’obbligo, da tale norma sancito, di
consegna di un estratto conto provvigionale e del corrispondente diritto
dell’agente a che gli siano fornite tutte le informazioni necessarie per
verificare l’importo delle provvigioni liquidate, cioè sulla funzionalità di
detta previsione – relativa alle provvigioni – ad una corretta e trasparente
regolamentazione dei rapporti tra le parti in ordine all’ammontare delle
provvigioni stesse»;

che per la cassazione della sentenza ricorre la
G.D.F. A & C S.n.c., articolando due motivi;

che G.C. è rimasto intimato;

che il P.G. non ha formulato richieste

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si censura: 1) la violazione e
falsa applicazione dell’art. 1742 c.c.», perché
la Corte di Appello sarebbe «andata oltre la motivazione espressa dal Giudice
di prime cure, nella parte in cui ha valutato il rapporto intercorso tra le
parti non di procacciamento di affari bensì di agenzia, in base al tenore delle
previsioni contenute nella lettera di incarico del 5.7.2004; …. In altri
termini, se il Tribunale aveva considerato irrilevante, ai fini
dell’applicazione dell’art. 1749 c.c., la
natura del rapporto in esame, che fosse di agenzia o di procacciamento di
affari, la Corte si Appello, invece, ha affermato espressamente la
riconducibilità di quest’ultimo al rapporto di agenzia» e, tale «statuizione»,
a parere della ricorrente, «non può essere in alcun modo condivisa, in quanto
fondata unicamente sul contenuto della clausola 5 della lettera di incarico di
procacciamento di affari del 5.7.2004», non potendo «le previsioni della
predetta clausola costituire un sufficiente parametro di valutazione circa la sussistenza
in concreto degli elementi distintivi del rapporto di agenzia e,
correlativamente, della insussistenza di quelli propri del rapporto di
procacciamento di affari, per il quale indubbiamente depone il nomen iuris
utilizzato tra le parti»; 2) la violazione e falsa applicazione dell’art. 1749 c.c., perché la Corte territoriale
avrebbe erroneamente «ritenuto applicabile, in via analogica, l’art. 1749, dettato per il rapporto di agenzia, al
rapporto di procacciamento di affari del controricorrente, considerando,
quindi, irrilevante che il rapporto del C. fosse di procacciamento di affari»;

che i motivi – da trattare congiuntamente per
ragioni di connessione – sono inammissibili, innanzitutto, in quanto,
all’evidenza finalizzati ad ottenere un nuovo esame del merito, non consentito
in questa sede, attraverso la censura della qualificazione giuridica assegnata
dai giudici di merito al rapporto di cui si tratta. Ed invero, nella sostanza, le
doglianze vertono sulla interpretazione del contenuto e dell’ampiezza della
domanda (v., in particolare, pagg. 3 e 4 del ricorso); attività, quest’ultima,
che integra un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito,
insindacabile in Cassazione, se non sotto il profilo della correttezza della
motivazione della decisione impugnata sul punto (cfr., tra le molte, Cass. nn.
7932/2012; 20373/2008). Il giudice, infatti, ha il potere-dovere di qualificare
giuridicamente l’azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un
nomen iuris diverso da quello indicato dalle parti, purché non sostituisca la
domanda proposta con una diversa, modificando i fatti costitutivi e fondandosi
su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio. Nel caso di specie,
i giudici di secondo grado non hanno introdotto nel processo una causa petendi
diversa da quella enunciata dalla parte a sostegno della domanda, ma, facendo
corretta applicazione del principio iura novit curia di cui all’art. 113, primo comma, c.p.c., da porre in
immediata correlazione con quello sancito al precedente articolo, hanno
assegnato una diversa qualificazione giuridica al rapporto dedotti in lite,
ricercando le norme giuridiche applicabili alla fattispecie (cfr., tra le
altre, Cass. nn. 13945/2012; 25140/2010;
18249/2009) ed effettuando, appunto, una operazione di qualificazione giuridica
del rapporto;

che, ciò precisato, è da aggiungere che, in ordine
alla questione relativa alla qualificazione del rapporto contrattualmente
operata dalle parti, alla stregua dell’insegnamento della giurisprudenza di
legittimità, onde pervenire alla identificazione della natura del rapporto di
lavoro, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti,
dovendosi tra l’altro tener conto del relativo reciproco affidamento e di
quanto dalle stesse voluto nell’esercizio della loro autonomia contrattuale.
Pertanto, il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è
vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di
effettive, univoche, diverse modalità di esenzione della prestazione, essendo
il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento
necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell’art. 1362, secondo comma, c.c.), ma anche ai fini
dell’accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel
corso dell’attuazione del rapporto medesimo e diretta a modificare singole sue
clausole e, talora, la  stessa natura del
rapporto lavorativo inizialmente prevista;

che, inoltre, in entrambi i mezzi di impugnazione,
si fa espresso riferimento alla lettera di incarico del 5.7.2004, che non è
stata prodotta, né trascritta per intero (ma solo relativamente alla clausola
n. 5) e neppure indicata nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione
unitamente al ricorso per cassazione. E ciò, in violazione del principio (v. art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c.), più volte
ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente
quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale
da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità
delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (cfr., ex
multis, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti,
contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si
chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione
della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti
esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado
di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass.
nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non
è stata messa in grado di poter compiutamente apprezzare la veridicità delle
censure mosse dal ricorrente le quali si risolvono, quindi, in considerazioni
di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria
(cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);

che per tutto quanto in precedenza esposto, il
ricorso va dichiarato inammissibile;

che nulla va disposto in ordine alle spese del
presente giudizio, poiché il C. non ha svolto attività difensiva;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, nei termini specificati in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

 

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