Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 febbraio 2021, n. 5476

Personale degli enti pubblici, Mancata proroga del contratto
di lavoro a tempo determinato, Procedura di stabilizzazione, Natura
discriminatoria della mancata concessione della proroga, Esercizio di un
potere discrezionale circa l’opportunità di disporre il rinnovo di un contratto
in scadenza, Possibile verifica se sia stato riservato un trattamento meno
favorevole, a parità di situazioni, Discriminazione collegata alla gravidanza
e alla maternità

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’appello di Roma, in parziale riforma
della sentenza del locale Tribunale, respingeva le domande proposte da S.C.
relative alla mancata proroga del contratto di lavoro a tempo determinato,
avente scadenza in data 1/4/2004 ed al diritto dell’appellata all’accesso alla
procedura di stabilizzazione e confermava la statuizione di prime cure nella
parte in cui aveva respinto la domanda di accertamento dell’esistenza di un
rapporto di lavoro subordinato dal 15/10/1998 al 31/12/2002.

2. S.C. aveva lavorato presso l’A. dal 15/10/1998
dapprima quale vincitrice di borsa di studio e poi in virtù di conferimenti di
incarichi individuali fino al 31/12/2002. Era stata successivamente assunta
dall’A. con contratti a termine del 2/1/2003 prorogato fino all’1/8/2003 e del
2/9/2003 fino all’1/4/2004, senza ottenere, a differenza di altri colleghi, la
proroga dell’ultimo contratto a termine. Aveva, poi, partecipato come esterna
ad un concorso per l’assunzione a tempo determinato presso A. per la durata di
un anno, era stata dichiarata vincitrice di tale concorso con disposizione
commissariale n. 142 del 3/3/2007 ed era inquadrata al terzo livello del
c.c.n.I. enti pubblici ricerca, aveva inviato all’amministrazione la
documentazione dalla medesima richiesta ma non era stata convocata per la
sottoscrizione del contratto.

3. Aveva, quindi, agito innanzi al Tribunale di Roma
chiedendo che fosse dichiarata la natura discriminatoria della mancata
concessione della proroga del termine del contratto a tempo determinato invece
concessa, in forza delle leggi finanziarie del 2004 e 2005, a tutti i suoi
colleghi che si trovavano nella stessa situazione contrattuale e fosse
accertato il suo diritto al rinnovo di tale contratto e conseguentemente il suo
diritto all’accesso alla procedura di stabilizzazione indetta dall’I. ed
altresì chiedendo che fosse accertato il suo diritto all’assunzione con
contratto a tempo determinato per la durata di un anno con decorrenza dal
15/7/2007 nonché l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dal
15/10/1998 al 31/12/2002;

4. Il Tribunale respingeva l’ultima domanda ed
accoglieva le altre.

5. La Corte d’appello, invece, riteneva infondate
anche le pretese relative alla dedotta illegittimità della mancata proroga del
contratto e quelle relative alla stabilizzazione, mentre confermava la
pronuncia di prime cure nella parte in cui aveva accertato il diritto della C.
all’assunzione con contratto a tempo determinato per la durata di un anno con
decorrenza dal 15/7/2007.

Per quanto ancora di interesse nel presente giudizio
riteneva la Corte territoriale che la predetta non avesse fornito alcuno
specifico elemento di fatto idoneo a provare la lamentata discriminazione e che
in particolare non avesse fornito elementi circa le proroghe ovvero le stipule
di nuovi contratti da parte degli altri colleghi, fondati sulla medesima
causale di quello dell’appellata, che solo avrebbero consentito di ritenere
integrata una discriminazione.

Quanto alla domanda di accertamento della sussistenza
di un rapporto di lavoro subordinato dal 15/10/1998 al 31/12/2002 evidenziava
che, essendo preclusa la possibilità di costituzione di un rapporto a tempo
indeterminato e non essendo stata avanzata alcuna richiesta risarcitoria, fosse
inammissibile una richiesta di accertamento della effettiva natura del rapporto
ai soli fini giuridici.

Riteneva, conseguentemente, che non sussistessero i
presupposti per l’accesso della C. alla procedura di stabilizzazione.

5. Per la cassazione della sentenza S.C. ha proposto
ricorso sulla base di quattro motivi, successivamente illustrato da memoria,
cui l’I. ha resistito con tempestivo controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in
relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione dell’art. 40 del d.lgs.
11 aprile 2006 n. 198 per omessa applicazione dell’art. 1, comma 119, I. 30 dicembre
2004, n. 311.

Censura la sentenza impugnata per non aver
considerato che, essendo pacifica la circostanza che tutti gli altri contratti
stipulati dai colleghi trovatisi nella sua medesima situazione contrattuale
erano stati prorogati, ricadesse sull’Ente l’onere di provare l’insussistenza
della discriminazione nella mancata proroga di quello della C.

Lamenta, poi, che i giudici di appello non avrebbero
tenuto conto della legge finanziaria del 2004 ed anche della disposizione di
cui all’art. 1, comma 119, I. n.
311 del 2004 (finanziaria del 2005) secondo cui l’A. avrebbe potuto
continuare ad avvalersi (vuoi con la proroga vuoi con il rinnovo), sino al 31
dicembre 2004 e poi fino al 31 dicembre 2005, del personale in servizio
nell’anno in corso con contratto a tempo determinato o con convenzione o con
altra forma di flessibilità e di collaborazione nel limite massimo di spesa
complessivamente stanziata per lo stesso personale nell’anno 2004 dalla
predetta Agenzia.

Sostiene che nel 2004 era in servizio (con scadenza
del contratto fissata al 1° aprile 2004), essendo stata assente per maternità
dal 22/12/2003 al 24/9/2004 (con conseguente sospensione del rapporto nel
medesimo periodo).

Richiama le pronunce della CGUE (C-438/99 e
C-109/00) rese proprio con riferimento alla discriminazione in danno di donne
in stato di gravidanza.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in
relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione dell’art. 40 del d.lgs.
11 aprile 2006 n. 198 in combinato disposto con art. 10, comma 8, d.lgs. n.
368/2001.

Lamenta una poco attenta valutazione della
documentazione allegata al ricorso introduttivo che avrebbe dovuto indurre a
ritenere il contratto stipulato dalla C. prorogabile.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, in
relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione e falsa applicazione degli artt. 416
e 437 cod. proc. civ.

Si duole del fatto che la Corte territoriale abbia
ritenuto che nulla fosse stato allegato in ricorso circa la proroga concessa
agli altri lavoratori e circa la situazione dei contratti degli altri colleghi.

Sostiene che le doglianze non riguardavano la
mancata proroga bensì il mancato rinnovo e che tale questione era stata
ritualmente prospettata in appello afferendo alle mere difese, ammissibili.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia
violazione dell’art. 3, comma 90,
I. 24.12.2007, n. 244, in relazione all’art.
360, n. 3, cod. proc. civ., e omessa disamina di un fatto decisivo in
relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ..

Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto
preclusa la stabilizzazione e sostiene che con il computo del periodo aprile
2004-dicembre 2005, escluso in appello per il rigetto del carattere
discriminatorio del mancato rinnovo, il raggiungimento del triennio vi sarebbe
stato.

5. Il ricorso è fondato nei termini di seguito
illustrati.

6. Occorre premettere che, come si evince dalla
puntuale ricostruzione delle vicende di causa operata dalla ricorrente, la
questione sottoposta dalla C. ai giudici di merito non è mai stata la
sussistenza di un diritto soggettivo al rinnovo di un contratto a termine in
essere tra le parti ma la sussistenza di una discriminazione per avere
l’Istituto convenuto concesso il rinnovo dei contratti a tutti i colleghi nelle
medesime condizioni contrattuali della C. e per non averlo riconosciuto a
quest’ultima a causa del suo stato di gravidanza.

Non vale, allora, invocare l’esercizio di un potere
discrezionale circa l’opportunità di disporre il rinnovo di un contratto in
scadenza e dedurre, come fa il controricorrente, che, nella specie, poteva solo
sussistere una mera aspettativa di per sé non giuridicamente tutelata.

Pur nell’ambito dell’esercizio di un potere
discrezionale è, infatti, possibile verificare se sia stato riservato un
trattamento meno favorevole, a parità di situazioni, ad una lavoratrice in
ragione del suo stato di gravidanza.

7. Occorre, perciò, innanzitutto, esaminare la
questione della discriminazione posta dalla ricorrente alla luce del quadro
normativo e giurisprudenziale di riferimento.

7.1. La discriminazione collegata alla gravidanza e
alla maternità costituisce una forma particolare di discriminazione di genere.

Per proteggere la gravidanza, la maternità e la
genitorialità, l’UE ha gradualmente sviluppato un complesso corpus di
legislazione primaria e derivata.

7.2. L’art.
157 del TFUE sancisce l’obbligo della parità di retribuzione tra lavoratori
di sesso maschile e quelli di sesso femminile e stabilisce un fondamento
giuridico generale per l’adozione di misure riguardanti l’uguaglianza di
genere, incluse la parità e la lotta alla discriminazione sulla base della
gravidanza o della maternità sul luogo di lavoro.

7.3. L’art.
33, paragrafo 2, della Carta dell’UE afferma che: «Al fine di poter
conciliare vita familiare e vita professionale, ogni individuo ha il diritto di
essere tutelato contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e
il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo
la nascita o l’adozione di un figlio».

7.4. Le direttive europee contro la discriminazione
vietano la differenza di trattamento fondata su taluni motivi oggetto di
protezione – secondo un elenco circoscritto, che corrisponde alla elencazione
contenuta nell’articolo 10 TFUE
– e, tra essi, il genere. Trattasi della direttiva sulla parità di trattamento
tra uomini e donne in materia di accesso ai beni e ai servizi (direttiva 2004/113/CE) e, per quanto più
specificamente rileva in causa, la direttiva sulla parità di trattamento fra
uomini e donne in materia di occupazione e di impiego 2006/54(CE (cd. di rifusione, che ha riunito e
modificato le direttive riguardanti l’attuazione del principio delle pari
opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di
occupazione e impiego: la direttiva 76/207/CEE
relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli
uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e
alla promozione professionali e le condizioni di lavoro; la direttiva
86/378/CEE relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento
tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza
sociale; la direttiva 75/117/CEE per il ravvicinamento delle legislazioni degli
Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle
retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile; la
direttiva 97/80/CE riguardante l’onere della
prova nei casi di discriminazione basata sul sesso).

Il quadro delle tutele in relazione alla
genitorialità è stato completato dalla direttiva
92/85/CE concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il
miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici
gestanti, puerpere o in periodo di allattamento e dalla direttiva 2010/18/UE che attua l’accordo quadro
riveduto in materia di congedo parentale.

7.5. Anche la CGUE ha contribuito notevolmente allo
sviluppo di questo settore del diritto, offrendo ulteriori chiarimenti,
applicando i principi espressi nella legislazione e fornendo ampie interpretazioni
dei relativi diritti. Secondo la CGUE, la tutela dei diritti alla maternità e
alla gravidanza non si traduce solo nella promozione di una sostanziale parità
di genere, bensì anche della salute della madre dopo il parto e del legame tra
madre e neonato. Nelle decisioni CGUE, C- 177/88, Dekker del 14 novembre 1989 e
CGUE, C-179/88, Hoejesteret dell’8 novembre 1990; la Corte di Giustizia ha
stabilito che, poiché soltanto le donne possono rimanere incinte, il rifiuto di
assumere o il licenziamento di una donna incinta per il suo stato di gravidanza
o maternità costituiscono una discriminazione diretta fondata sul sesso che non
può essere giustificata da alcun interesse, compreso quello economico del
datore di lavoro. Nella decisione CGUE, C-438/99, Jiménez Melgar del 4 ottobre
2001 la Corte ha dichiarato che «qualora il mancato rinnovo di un contratto di
lavoro a tempo determinato sia motivato dallo stato di gravidanza della
lavoratrice, esso costituisce una discriminazione diretta basata sul sesso» incompatibile
con il diritto dell’UE. Inoltre, una donna non è tenuta a comunicare la sua
gravidanza al datore di lavoro nel processo di assunzione o in qualsiasi altra
fase del rapporto di lavoro (CGUE, C-32/93, Webb, 14 luglio 1994; CGUE, C-320/01, Busch, 27 febbraio 2003.). La CGUE
ha inoltre decretato che qualsiasi trattamento sfavorevole direttamente o
indirettamente connesso alla gravidanza o alla maternità costituisce una
discriminazione diretta fondata sul sesso (CGUE, C-32/93, Webb cit.; CGUE,
C-421/92, Habermann- Beltermann, 5 maggio 1994; si veda anche CGUE C- 531/2015
Otero Ramos, 19 ottobre 2017 secondo cui, punto 55:«in base all’articolo 2, paragrafo 2, lettera c),
della direttiva 2006/54, la discriminazione comprende, in particolare,
qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni
collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva»
e, punto 61: «per quanto riguarda la protezione della gravidanza e della
maternità, la Corte ha ripetutamente affermato che, riservando agli Stati
membri il diritto di mantenere in vigore o di istituire norme destinate ad
assicurare tale protezione, l’articolo
2, paragrafo 2, della direttiva 2006/54 riconosce la legittimità, in
relazione al principio della parità di trattamento tra i sessi, in primo luogo,
della protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la
gravidanza, e, in secondo luogo, della protezione delle particolari relazioni
tra la donna e il bambino, durante il periodo successivo al parto (sentenza del 30 settembre 2010, Roca Álvarez,
C-104/09, EU:C:2010:561, punto 27 e giurisprudenza ivi citata)».

7.6. Anche nell’ambito della Cedu, la protezione
contro la discriminazione fondata sul sesso è ben sviluppata.

La Cedu ha dichiarato che l’uguaglianza di genere è
uno dei principali obiettivi perseguiti dagli Stati del Consiglio d’Europa (Cedu,
Konstantin Markin c. Russia [GC], n. 30078/06, 22 marzo 2012, punto 127). Il
principio di uguaglianza tra uomini e donne ha portato, ad esempio, la Cedu a
riscontrare una violazione nel contesto dell’occupazione e del congedo
parentale (v. Cedu, Emel Boyraz c. Turchia, n. 61960/08, 2 dicembre 2014).

7.7. Nel nostro ordinamento il d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari
opportunità tra uomo e donna) si è specificamente occupato del comportamento
discriminatorio fondato sul sesso ed ha promosso, sul piano sostanziale, le
pari opportunità di carriera e di lavoro tra i sessi, lasciando all’attore la
scelta tra il rito “ordinario” del lavoro e un rito speciale
appositamente delineato.

Il d.lgs. 25 gennaio
2010, n. 5 ha, poi, dato attuazione alla direttiva
2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di
trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione).

Il d.lgs. 1° settembre
2011, n. 150 ha, quindi, ricondotto il procedimento contro le
discriminazioni al modello del rito sommario di cognizione ex art. 702 bis e ss. cod. proc. civ.

L’art.
25, comma 1, del d.lgs. n. 198 del 2006, come modificato dall’art. 8- quater, comma 1, lettera a),
del già citato d.l. n. 59 del 2008 convertito con modificazioni dalla I. n. 101 del 2008 e successivamente dall’art. 1, comma 1, lettera p), numero
1), del d.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, prevede che: «Costituisce discriminazione
diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio,
prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto
o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le
lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il
trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un
altro lavoratore in situazione analoga». Il comma 2 della medesima disposizione
stabilisce, poi, che: «Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente
titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o
un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori
di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a
lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo
svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i
mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari». Il
successivo comma 2-bis, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lettera p), numero
2), del d.lgs. n. 5 del 2010, stabilisce che: «Costituisce discriminazione,
ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello
stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in
ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti».

8. Quel che rileva, dunque, è che, in presenza di
situazioni analoghe, sia stato posto in essere un atto o un comportamento
pregiudizievole e comunque sia stato attribuito un trattamento meno favorevole
ad una lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza.

Così il mancato rinnovo di un contratto a termine ad
una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una
discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione
lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di
rinnovo da parte della p.a. anche con riguardo alla prestazione del contratto
in scadenza della suddetta lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il
mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi, ben può
essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno
favorevole in ragione del suo stato di gravidanza.

Nella sopra citata sentenza della Corte di Giustizia
CE del 4 ottobre 2001 – C-438/99 è stato precisato, punti 45 e 46: «E’
altrettanto evidente che il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a tempo
determinato, quando questo è arrivato alla sua normale scadenza, non può essere
equiparato ad un licenziamento e, di per sé, non è in contrasto con l’art. 10 della direttiva 92/85.
Tuttavia [….], in determinate circostanze il mancato rinnovo di un contratto
a tempo determinato può essere considerato alla stregua di un rifiuto di
assunzione. Ora, secondo una giurisprudenza costante, un rifiuto d’assunzione
per motivo di gravidanza di una lavoratrice pur giudicata idonea a svolgere
l’attività di cui trattasi rappresenta una discriminazione diretta basata sul
sesso in contrasto con gli artt.
2, n. 1, e 3, n. 1, della direttiva 76/207» (si vedano anche la già citata
sentenza 8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker, punto 12 nonché la sentenza 3
febbraio 2000, causa C-207/98, Mahlburg, punti 27-30).

9. Quanto alla concreta dimostrazione di una
situazione di tal genere, si osserva che l’art. 40 del d.lgs. 5 aprile 2006 n.
198 (il cui contenuto corrisponde a quanto già previsto dall’art. 4, comma 5, della I. 10 aprile
1991, n. 125 “Azioni positive per la realizzazione della parità
uomo-donna nel lavoro” ed è stato, poi, riprodotto dal d.lgs. 150/2011, art. 28, comma
4) prevede che: «Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche
da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi
retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla
progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini
precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o
comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere
della prova sull’insussistenza della discriminazione».

La disposizione, fonda la propria ratio nell’art. 4 della direttiva 97/80/CE
riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso
(«1. Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i
provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare
l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove
chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale
principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi
ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa
presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta. 2. La presente
direttiva non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più
favorevole alla parte attrice»).

Tale direttiva è stata oggetto di interpretazione da
parte della Corte di Giustizia UE, C-104/10
sentenza del 21 luglio 2011, Kelly, punto 29 «La direttiva 97/80 enuncia,
all’art. 4, n. 1, che gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari
affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione
del suddetto principio ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei
propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo
giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di
fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione
diretta o indiretta»: v. anche sentenza Corte di Giustizia UE 10 marzo 2005,
causa C-196/02, Nikoloudi, punto 68, e più di recente Corte di Giustizia 19 ottobre 2017 in causa C-531/15
Otero Ramos cit.

10. Circa l’operatività dell’art. 40 del d.lgs. n. 198 del 2006,
questa Corte ha già da tempo affermato che, nei giudizi antidiscriminatori (sia
proposti con le forme del procedimento speciale sia con quelle dell’azione
ordinaria – v. Cass. 5 giugno 2013, n. 14206
-), i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari di
cui all’art. 2729 cod. civ. (finendosi
altrimenti per porre a carico di chi agisce l’onere di una prova piena del
fatto discriminatorio, ancorché raggiunta per via presuntiva), bensì quelli
speciali, che non stabiliscono un’inversione dell’onere probatorio, ma solo
un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente; ne consegue che
il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che
assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in
condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di
lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della direttiva n. 2006/54/CE
– che ha riprodotto il testo dell’art. 4 della direttiva 97/80/CE
citata -, le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione,
gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta,
in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi
parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio,
che si fosse trovato nella stessa posizione (v. in tal senso, tra le più
recenti, Cass. 2 gennaio 2020, n. 1; Cass. 12
ottobre 2018, n. 25543).

11. Nella specie, per quanto si evince dal ricorso
per cassazione – che trascrive puntualmente i passaggi della pronuncia del
Tribunale – e dalla stessa sentenza qui impugnata, le circostanze addotte dalla
C. con riguardo alla domanda di accertamento della natura discriminatoria della
mancata proroga del contratto di lavoro a tempo determinato (e cioè lo stato di
gravidanza, la sospensione del rapporto dal 22/12/2003 al 24/9/2004 – che
evidentemente le aveva dato diritto alla conservazione del posto ai sensi dell’art. 56 del d.lgs. 26 marzio 2001, n.
151 -, l’avvenuta concessione del rinnovo del contratto a ‘tuttì i suoi colleghi
che si erano trovati nella medesima situazione contrattuale e ciò sulla base
delle possibilità riconosciute dalle finanziarie del 2004 e 2005) non erano
state contestate dall’I.

Quest’ultimo, del resto, in sede di appello si era
limitato a prospettare la questione della sussistenza di una diversità tra
proroga e rinnovo del contratto della C. ed a sostenere che non vi era stata
alcuna proroga successiva al 1° aprile 2004.

12. Ed allora se, da un lato, questa Corte condivide
l’impostazione dei giudici d’appello secondo cui non ha carattere decisivo
parlare di proroga o di rinnovo, visto che il petitum sostanziale è chiaro e
consiste nella denuncia di un trattamento discriminatorio per la negata
permanenza nel lavoro della C., derivante dal congedo per maternità, a fronte
del mantenimento in servizio di “tutti” i suoi colleghi nelle medesime
condizioni contrattuali, dall’altro, deve evidenziare che detti giudici hanno
errato laddove hanno ritenuto che, nel caso in esame, la lavoratrice avesse
omesso ogni allegazione di specifiche circostanze di fatto essenziali per
ottenere l’attenuazione del regime probatorio ordinario rimarcando che la
medesima avrebbe dovuto fornire elementi circa i contratti prorogati e/o
rinnovati agli altri suoi colleghi per poterne dedurre che le causali apposte
agli stessi erano completamente sovrapponibili al contratto stipulato dalla
prima.

Con tale ragionamento, in sostanza, la Corte
territoriale ha finito per porre a carico della ricorrente una prova piena di
tutti gli elementi significativi di una discriminazione laddove, come detto, il
legislatore ha posto a carico della stessa solo la dimostrazione di una
ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di
particolare svantaggio, dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in
termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il
resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare che non vi sia stata
violazione del principio di non discriminazione.

13. Si aggiunga che l’onere della prova attenuato
riferito al fattore di rischio nei termini di cui si è detto va anche
coordinato con il principio di “vicinanza della prova” che porta a ritenere
che, nella specie, i contratti rinnovati ovvero prorogati fossero nella materiale
disponibilità dell’I. (che, si ribadisce, non ha mai contestato che, con le
proroghe ovvero con i rinnovi, di fatto, i colleghi della C., come quest’ultima
legati all’Istituto da contratti a termine, avessero proseguito nei rapporti di
lavoro).

Tale principio (v. Cass., Sez. Un., Cass. 30 ottobre
2001, n. 13533), come è noto, muove dalla considerazione che spesso una parte
può incontrare difficoltà, spesso insuperabili, per soddisfare l’onere della
prova che perciò, in concreto, viene ripartito tenendo conto della possibilità
per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono
nelle rispettive sfere di azione e risponde ad una finalità di agevolare e
rendere efficace ed effettivo il processo, supplendo alla carenza probatoria
mediante criteri indiziari e presuntivi, di cui può avvalersi il soggetto
debole del rapporto nei confronti della parte prossima alla fonte prova e in
posizione strategicamente privilegiata, nell’intento di recuperare l’equilibrio
di posizioni tra le parti in causa, al fine di assicurare un giusto processo in
condizioni di parità tra i contendenti, secondo il dettato dell’art. 111 Cost. e dell’art. 47 della Carta di Nizza.

14. Nel caso in esame, dunque, considerata
l’agevolazione probatoria di cui all’art.
40 del d.lgs. n. 198 del 2006, a fronte dell’avvenuta deduzione delle
circostanze minime essenziali da cui presuntivamente inferire la lamentata
discriminazione, l’onere di provare, all’interno di esse, i fatti negativi
gravava sul datore di lavoro, fermo restando il potere d’ufficio del giudice di
integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, in
ragione dei rispettivi oneri, per colmare eventuali lacune delle risultanze di
causa.

15. In conclusione, il ricorso va accolto per le
ragioni sopra evidenziate e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla
Corte d’appello di Roma che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo
esame attenendosi agli indicati principi e provvederà anche sulle spese del
presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la
sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Roma in
diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 febbraio 2021, n. 5476
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