È legittimo il diniego di assegnazione al lavoro agile al lavoratore in condizione di fragilità se le sue mansioni non possono essere in alcun modo svolte in modalità “da remoto”, ma richiedono la necessaria presenza in azienda.

Nota a Trib. Roma ord. 8 marzo 2021

Gennaro Ilias Vigliotti

La disciplina emergenziale adottata per ovviare agli effetti pregiudizievoli della pandemia da Covid-19 ha introdotto l’istituto del c.d. smart working “semplificato”, una particolare modalità di esecuzione della prestazione in modalità agile in cui sono agevolati alcuni essenziali adempimenti formali, a cominciare dall’accordo tra le parti.

La ragione per la quale questo speciale tipo di smart working può essere disposto anche unilateralmente dal datore e, quindi, in assenza di consenso del lavoratore interessato, risiede nella sua funzione essenziale: mentre quello ordinario, infatti, è volto ad agevolare un miglior adeguamento della vita del dipendente ai ritmi ed alle esigenze produttive ed organizzative dell’azienda, favorendo una maggiore conciliazione vita-lavoro, il lavoro agile “semplificato” assurge a misura idonea e necessaria, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, a salvaguardare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (ex art. 2087 c.c.). Esso costituisce, dunque, una sorta di dispositivo di protezione individuale “atipico”, che riveste un ruolo centrale nell’ambito della strategia legislativa anti-pandemia.

L’art. 39, D.L. n. 18/2020, come convertito dalla L. n. 27/2020, ha stabilito che alcune categorie di lavoratori abbiano diritto di godere dello smart working semplificato. Si tratta, in particolare, dei lavoratori del settore pubblico e privato che si trovino in una condizione di “fragilità”, cioè versino in uno degli status di disabilità previsti dall’art. 3, co. 3, L. n. 104/1992 o abbiano nel nucleo familiare una persona affetta da disabilità grave. Inoltre, sono considerati lavoratori particolarmente esposti al rischio connesso al virus Sars-Cov-2 anche i lavoratori affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità respiratoria e quelli immunodepressi o conviventi con familiari immunodepressi.

Il diritto allo smart working semplificato, però, anche per questi soggetti esposti non si delinea come un diritto soggettivo perfetto. La regola dell’adibizione al lavoro agile, infatti, soffre una importante eccezione, ossia quella della impossibilità oggettiva di svolgere le mansioni di assegnazione tramite modalità “da remoto”, cioè tramite dispositivi telematici e senza recarsi fisicamente a lavoro. Se dunque l’attività lavorativa risulta ineseguibile da casa e tramite tecnologia digitale, lo smart working semplificato perde le caratteristiche del diritto soggettivo ed il datore può negarne validamente l’adibizione.

Il meccanismo di tutela predisposto dal D.L. n. 18/2020 è peraltro confermato da altra norma emergenziale, l’art. 21-ter del D.L. n. 104/2020, convertito dalla L. n. 126/2020, il quale ha stabilito che, fino al 30 giugno 2021, i genitori lavoratori del settore privato che abbiano figli affetti da handicap hanno diritto allo smart working se l’altro genitore è anch’egli lavoratore e sempre che la prestazione non debba essere resa necessariamente in presenza.

Sul valore dispositivo di tali regole è intervenuta di recente una interessante ordinanza del Tribunale di Roma, Sez. Lav., la quale ha deciso del ricorso ex art. 700 c.p.c. inoltrato da un dipendente dell’azienda romana che gestisce il trasporto pubblico locale il quale, in quanto padre di un bimbo affetto da handicap, aveva richiesto al giudice di annullare il provvedimento aziendale che disponeva la sua adibizione al lavoro agile per il solo 50% dell’orario lavorativo, dichiarando così il suo diritto ad una estensione al 100% della prestazione settimanale.

Il lavoratore, però, nulla aveva dedotto circa la clausola di condizionalità indicata nella legge e nemmeno aveva replicato alle deduzioni dell’azienda, la quale aveva invece insistito sulla necessità del suo rientro in servizio per rendere una prestazione utile.

Secondo il giudice, l’omessa rilevazione della compatibilità tra mansioni e smart working al 100% preclude al lavoratore, anche in presenza dei presupposti soggettivi della legge, di poter invocare il diritto a tale modalità lavorativa. Quella della compatibilità con le mansioni, infatti, è una «condizione essenziale perché possa esercitarsi la pretesa», con la conseguenza che «solo quando ricorra tale compatibilità l’assegnazione al lavoro agile è dovuta dal datore in adempimento del c.d. debito di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., costituendo tale modalità una misura necessaria a garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori».

L’esito di una simile omissione, secondo il Tribunale, non può che essere il rigetto del ricorso cautelare, per assenza del necessario fumus boni iuris. Il giudice, inoltre, ha rilevato che, nel caso di specie, non risultava nemmeno ricorrente il periculum in mora, ossia il rischio concreto della verificazione di un danno irrimediabile alla sfera soggettiva del ricorrente. L’azienda, infatti, aveva provato che presso la sede di assegnazione del lavoratore era in attuazione un protocollo di sicurezza specifico ed analitico, che non vi erano stati casi recenti di contrazione del virus e che l’azione giudiziale era stata avviata con diversi mesi di ritardo rispetto alla verificazione del presunto disagio familiare, con la conseguenza di tradire una effettiva assenza di rischio di compromissione del diritto protetto.

Il diritto allo smart working per i lavoratori c.d. “fragili”
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