Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 aprile 2021, n. 11086

Tributi, Accertamento, Avvocato, IRAP, Autonoma
organizzazione, Utilizzo di due studi per l’esercizio dell’attività

 

Rilevato che

 

1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia
rigettava l’appello proposto da A.S.M., Avvocato, avverso la sentenza della
Commissione tributaria provinciale di Milano (n. 291/2011), che aveva respinto
il ricorso del contribuente contro l’avviso di accertamento ai fini Irap, Irpef
ed Iva, emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle entrate per l’anno 2005.
In particolare, dalla documentazione emergeva che le prestazioni dell’Avvocato
M. risultavano fatturate per euro 320.000,00 allo studio legale associato
D.-M.-G. di piazza B., Milano, e per euro 5.942,02 a terzi; inoltre, i costi
per l’utilizzo dello studio di piazza Castello, Milano, ammontavano ad euro
243.000, oltre Iva, fatturati dallo studio legale associato D.-M.-G. e per
ulteriori euro 50.000 oltre spese condominiali per euro 2.765,51 ed Iva,
relativi al periodo data 10 novembre 2005 al 31 dicembre 2005, dalla locatrice
B. Srl. Pertanto, secondo il giudice di appello l’attività professionale del
contribuente era svolta quasi esclusivamente nell’ambito dello studio legale
associato D.-M.-G., di Piazza B. Milano, e non in piazza C. a Milano, mentre le
spese oggetto di contestazione non erano inerenti ed erano elevate, sì da non
costituire il minimo necessario per l’esercizio dell’attività.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per
cassazione il contribuente.

3.L’agenzia delle entrate si “costituisce”
ai soli fini della partecipazione all’udienza di discussione.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di impugnazione il
contribuente deduce la “nullità della sentenza per violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992,
in combinato disposto con l’art.
61 del d.lgs. n. 546/1992 e con l’art. 118
disp. att. c.p.c. (art. 360, comma 1, c.p.c.)”,
in quanto la sentenza di secondo grado sarebbe stata emessa in assenza degli
elementi prescritti normativamente per la sua validità, ed in particolare
mancherebbe dell’esposizione dello svolgimento del processo.

1.1. Invero, per questa Corte , in tema di contenuto
della sentenza, la concisione della motivazione non può prescindere
dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di
diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità
della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo
della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua
eventuale verifica in sede di impugnazione (Cass., 15 novembre 2019, n. 29721;
Cass., sez. 6-5, 20 gennaio 2015, n. 920).

Nella specie, nonostante l’assoluta stringatezza
della motivazione, che si articola in poche decisive battute, emerge, però, il
percorso argomentativo del giudice di appello che richiama gli elementi
decisivi per la soluzione della controversia, rendendo accessibile il contenuto
della controversia e la ratio decidendi.

2. Con il secondo motivo di impugnazione il
ricorrente si duole della “violazione dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000,
dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del
1973, dell’art. 56 del d.P.R. n.
633 del 1972, nonché dell’art.
3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (art. 360,
comma 1, n. 3, c.p.c.)”, in quanto il giudice di appello avrebbe
ritenuto erroneamente che l’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento
era stato assolto, avendo posto il contribuente in condizione di contestare
validamente la pretesa tributaria. La Commissione tributaria provinciale aveva
omesso di pronunciarsi completamente in ordine al motivo di doglianza riferito
all’assenza di motivazione dell’atto impositivo, in quanto privo delle
specifiche ragioni di fatto e di diritto in base alle quali l’ufficio aveva
determinato maggiori imposte. Con l’appello il contribuente aveva riprodotto il
contenuto dell’avviso di accertamento con cui era stata determinata una
maggiore imposta per Irpef, addizionali, Irap ed Iva complessivamente pari ad
euro 37.954,00, oltre sanzioni ed interessi. Il giudice di appello si è
pronunciato sull’eccezione respingendola, ma tale sentenza è stata resa in violazione
degli articoli 7 della legge n.
212 del 2000, 42 del d.P.R. n.
600 del 1973 e 56 del d.P.R. n.
633 del 1972, i quali dispongono che l’avviso di accertamento debba essere
motivato a pena di nullità in relazione ai presupposti di fatto e alle ragioni
di diritto che lo hanno determinato.

2.1. Tale motivo è infondato.

2.2.Invero, per questa Corte l’art. 42, secondo comma, del d.P.R. 29
settembre 1973 n. 600 richiede l’indicazione nell’avviso di accertamento
non soltanto degli estremi del titolo e della pretesa impositiva, ma anche dei
presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, al fine di
porre il contribuente in condizione di valutare l’opportunità di esperire
l’impugnazione giudiziale e, in caso positivo, di contestare efficacemente
l'”an” ed il “quantum debeatur”. Tali elementi conoscitivi
devono essere forniti non solo tempestivamente (“ab origine” nel
provvedimento) ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che
permetta all’interessato un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa (Cass., sez. 5, 24 luglio 2014, n. 16836).
Infatti, la motivazione dell’avviso di accertamento assolve ad una pluralità di
funzioni atteso che garantisce il diritto di difesa del contribuente,
delimitando l’ambito delle ragioni deducibili dall’ufficio nella successiva
fase processuale contenziosa, consente una corretta dialettica processuale,
presupponendo l’onere di enunciare i motivi di ricorso, a pena di
inammissibilità, e la presenza di leggibili argomentazioni dell’atto
amministrativo, contrapposte a quelle fondanti l’impugnazione, e, infine,
assicura, in ossequio al principio costituzionale di buona amministrazione,
un’azione amministrativa efficiente e congrua alle finalità della legge,
permettendo di comprendere la “rado” della decisione adottata (Cass., sez. 5, 17 ottobre 2014, n. 22003). Si è
chiarito che la motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica,
presidiata dall’art. 7 della
legge 27 luglio 2002, n. 212, ha la funzione di delimitare l’ambito delle
contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di
mettere il contribuente in grado di conoscere l’ “an” ed il
“quantum” della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa,
sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei
presupposti adottati e delle relative risultanze, mentre le questioni attinenti
all’idoneità del criterio applicato in concreto attengono al diverso piano
della prova della pretesa tributaria (Cass., sez. 5, 7 maggio 2014, n. 9810).

2.3.Nella specie, dal tenore dell’avviso di
accertamento, ritualmente trascritto nel ricorso per cassazione, emerge che
l’Agenzia delle entrate ha indicato con precisione gli elementi da cui ha
desunto la non inerenza di alcune spese sostenute dal contribuente ed i
presupposti per l’applicazione dell’Irap per l’anno 2005.

In particolare, nell’avviso si precisa che alcuni
costi non erano inerenti (” costi non inerenti per euro 4999,50…in
quanto, non potendo annoverarsi fra quelli funzionali alla produzione del
reddito e non trovandosi in rapporto di stretta correlazione con l’attività di
ricavo imponibile (rapporto di causa-effetto), sono da inquadrarsi nel novero
delle spese e/o liberalità non inerenti a favore di terzi..”).

Quanto ai costi non documentati per euro 50.000, si
chiarisce che il contribuente “ha dedotto l’importo di euro 50.000
relativo alla locazione dell’immobile adibito a studio del periodo 10 novembre
2005-31 dicembre 2005. Come si evince dal suddetto valore si rileva chiaramente
l’aspetto antieconomico dell’operazione effettuata, suffragata inoltre dalla
carente documentazione attestante la certezza requisito obbligatorio e
fondamentale per la deducibilità del costo…”.

Nella prima parte dell’avviso, peraltro, si
evidenzia che il contribuente, “esercente l’attività di avvocato”,
era stato selezionato in base ad una lista locale di iniziativa dell’Ufficio
relativa a professionisti che non avevano presentato la dichiarazione ai fini
Irap. Si è costatato che nell’anno d’imposta 2005 erano state dedotte spese
documentate per un totale di euro 310.970,00.

Pertanto, da quanto sopra esposto emerge che
l’avviso di accertamento era munito di idonea e completa motivazione.

3.Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente
deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 109, comma 5 del d.P.R. n. 917
del 1986, nonché dell’art. 2697 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)”, in quanto
con il ricorso introduttivo si era dimostrato che le spese sostenute dal
contribuente erano riferibili, in parte all’acquisto di mobili per l’ufficio
avvenuto nell’anno 2004, ed a tale anno assoggettate alla procedura di
ammortamento, in parte al canone di locazione di un posto auto e delle relative
spese condominiali (contratto stipulato in data prima dicembre 2004 con la G.P.
s.p.a.), in parte ancora all’immobile condotto in locazione “adibito a
studio”, nel periodo 10 novembre 2005-31 dicembre 2005 (contratto
stipulato in data 5 dicembre 2005, con decorrenza dal 10 novembre 2005 e
registrato presso l’agenzia delle entrate di Busto Arsizio in data 7 dicembre
2005; fattura emessa dalla proprietà). Secondo il giudice d’appello tutte le
spese sopra indicate non sono deducibili in quanto l’attività professionale è
stata svolta quasi esclusivamente nell’ambito dello studio legale associato
D.-M.-G. di piazza B. a Milano, e non in piazza C. a Milano. Tale conclusione
violerebbe il disposto di cui all’art.
109, comma cinque, d.P.R. n. 917 del 1986, in quanto il criterio
dell’inerenza comporta che un costo è deducibile ove esso sia ontologicamente
riferito l’attività di impresa. I costi, dunque, sarebbero deducibili
trattandosi di spese sostenute per l’immobile adibito ad uso professionale e,
quindi, oggettivamente connessi all’attività esercitata, indipendentemente dal
fatto che “il ricorrente ritraesse la maggior parte dei suoi compensi
dell’attività prestata per un altro studio professionale”. Ben poteva,
dunque, il contribuente svolgere la propria attività a favore della struttura
professionale utilizzando un proprio immobile che conduceva in locazione che
era, appunto, adibito a studio professionale. Inoltre, il giudice di appello
avrebbe violato il disposto dell’art. 2697 c.c.,
perché l’Ufficio si sarebbe limitato a mere asserzioni basate sui dati numerici
esposti nella dichiarazione, non essendo state fornite le prove per le quali le
quote di ammortamento di beni strumentali o i canoni di locazione di immobili
ad uso ufficio non sarebbero deducibili dal reddito di un professionista che ha
destinato tali beni alla propria attività.

3.1. Tale motivo è infondato.

3.2.Nella specie, l’Agenzia delle entrate ha
contestato l’antieconomicità e la non congruità del costo, in quanto il canone
mensile del contratto di locazione era stato stipulato per la somma esorbitante
di euro 50.000,00, per il limitato periodo dal 10 novembre 2005 sino al
31/12/2005, con un contratto peraltro concluso solo in data 5 dicembre 2005 e
registrato il 7 dicembre 2005, con decorrenza dalla data anteriore.

Inoltre, il giudice di appello ha chiarito che il
contribuente esercitava l’attività di Avvocato quasi esclusivamente per conto
dello studio professionale D.- M.-G. di piazza B. a Milano, con prestazioni da
lui fatturate nei confronti di tale studio per euro 320.000,00 mentre le
prestazioni residue ammontavano ad appena euro 5942,02. Per tale ragione i
costi per l’utilizzo dello studio di piazza C. a Milano, ammontanti a quasi
euro 300.000,00 non erano inerenti all’attività professionale, proprio per gli
importi esorbitanti rispetto alle minime prestazioni rese in favore dei terzi.

3.3.Di fronte a tali importanti allegazioni
dell’Amministrazione e, quindi, ad argomentate e puntuali contestazioni, il
contribuente, cui incombeva l’onere della prova della inerenza dei costi per
smentire le contestazioni dell’Ufficio (Cass., 16
novembre 2011, n. 24065; Cass., 9 agosto 2006,
n. 18000; Cass., 25 febbraio 2010, n. 4554;
Cass., 26 aprile 2017, n. 10269; Cass., 5 maggio 2011, n. 9892; Cass., 16 maggio
2007, n. 11205; Cass., 30 maggio 2018, n. 13588,
che valorizza il principio di “vicinanza alla prova”), non ha dimostrato
in alcun modo l’inerenza di tali costi, ma si è limitato a riferire, come
riportato nella motivazione della sentenza della Commissione tributaria
provinciale di Milano, che avendo egli clientela di notevole importanza, era
indispensabile accoglierla in uno studio di un certo prestigio, sicché
l’economicità dell’operazione doveva “parametrarsi” anche in termini
di immagine.

4. Con il quarto motivo di impugnazione il
ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997 e
dell’art. 2697 c.c. (art.
360, comma 1, n. 3, c.p.c.)”, in quanto il giudice di appello avrebbe
errato nel ritenere il contribuente assoggettabile all’Irap per l’esistenza di
una autonoma organizzazione. In realtà, è soggetto all’Irap soltanto chi ha
investito capitali e si sia avvalso di dipendenti e collaboratori, così da
integrare il requisito dell’autonoma organizzazione. Non vi è, invece, autonoma
organizzazione se l’attività professionale e imperniata esclusivamente sulla
persona del professionista, supportata da quel minimo di beni strumentali
indispensabili e di corredo all’attività. Il mero richiamo all’ammontare delle
spese sostenute non può essere sufficiente al fine di configurare una autonoma
organizzazione.

L’entità dei costi sostenuti, infatti, va calibrata
sulla tipologia dei beni strumentali adoperati, sul loro concreto utilizzo,
nonché sulle peculiarità della specifica professione e delle relative modalità
di svolgimento. Nella specie, le spese di notevole entità hanno riguardato
soprattutto il canone di locazione dello studio, mentre non vi erano spese per
dipendenti e collaboratori.

4.1. Tale motivo è infondato.

4.2.Invero, per questa Corte a sezioni unite, il
requisito dell’autonoma organizzazione, previsto dall’art. 2 del d.lgs. 15 settembre 1997, n.
446, il cui accertamento è rimesso al giudice di merito ed è insindacabile
in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il
contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile
dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative
riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali
eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per
l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in
modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un
collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive (Cass., sez. un., 10 maggio 2016, n. 9451; Cass., n. 22468 del 2015). È stata esclusa,
quindi, l’autonomia organizzativa di uno studio legale dotato soltanto di un
segretario e di beni strumentali minimi (Cass.,
sez. 5, 5 settembre 2014, n. 18749), come pure nel caso di compensi
corrisposti da un avvocato per le domiciliazioni presso i colleghi (Cass., sez. 6-5, 8 novembre 2016, n. 22695),
nonché per l’attività svolta da un tirocinante, atteso che la funzione della
pratica e l’apprendimento e non il potenziamento della produttività dello studio
(Cass., sez. 6-5, 8 novembre 2016, n. 22705).

Inoltre, si è chiarito, in tema di Irap nel caso di
attività professionale, che tale imposta coinvolge una capacità produttiva
“impersonale ed aggiuntiva” rispetto a quella propria del
professionista (determinata dalla sua cultura e preparazione professionale) e
colpisce un reddito che contenga una parte aggiuntiva di profitto, derivante da
una struttura organizzativa “esterna”, cioè da “un complesso di
fattori che, per numero, importanza e valore economico, siano suscettibili di
creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata
dagli strumenti indispensabili e di corredo al Know-how del professionista (dal
lavoro dei collaboratori e dipendenti, dal numero e grado di sofisticazione dei
supporti tecnici e logistici, dalle prestazioni di terzi, da forme di
finanziamento diretto ed indiretto)”; cosicché è “il surplus di
attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista..,
ad essere interessato dall’imposizione che colpisce l’incremento potenziale, o
quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività auto organizzata del solo
lavoro personale (Cass., 6-5, 12 dicembre 2019, n. 32510; Cass., 26 settembre
2018, n. 22969; Cass., n. 17754 del 2008; Cass.,
sez.un., n. 12109 del 2009; Cass., n. 23370
del 2010; Cass., n. 16628 del 2011;).

4.3. Con particolare riferimento alla locazione
dello studio professionale da parte dell’avvocato, si è ritenuto che non è
soggetto ad Irap or il professionista che svolga l’attività all’interno di una
struttura altrui (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21150),
in tal caso difettando autonomia organizzativa, che è presupposto dell’imposta;
con la precisazione che la locazione di uno studio, da parte di un avvocato,
l’utilizzazione di software per il collegamento ad una banca dati, la
formazione di un archivio, non costituiscono elementi idonei a configurare la
sussistenza dei presupposti impositivi, poiché detti elementi, quali che siano
il loro valore o le loro caratteristiche, rientrano nelle attrezzature usuali,
o che dovrebbero essere usuali, per il suddetto professionista” (Cass.,
6-5, 12 dicembre 2019, n. 32510; Cass., 26 settembre 2018, n. 22969, cit.; Cass., 28 giugno 2017, n. 16072; Cass., sez. 6-5, 28 dicembre 2012, n. 24117; Cass., n. 9692 del 2012; Cass., n. 13048 del 2012).

4.4. Non rileva, poi, l’entità dei compensi
conseguiti dal professionista (Cass., sez. 5, 8
novembre 2018, n. 26681).

4.5. Tuttavia, nella specie, il giudice d’appello,
con motivazione fondata sull’esame diretto delle risultanze istruttorie, ha
accertato, con congruo giudizio di merito, che il contribuente svolgeva la
parte preponderante della sua attività in favore dello studio associato D.-M.-G.
di piazza B., a Milano, di cui evidentemente faceva parte, fatturando nei
confronti dello stesso somme per euro 320.000,00. Solo una parte minima dei
suoi compensi era fatturata nei confronti di terzi (euro 5.942,02). I costi per
l’utilizzo dello studio di piazza C. a Milano, ammontanti ad euro 243.000,
oltre Iva, erano fatturati dallo studio legale associato D.-M.-G. nei confronti
del contribuente. Inoltre, la somma di euro 50.000,00 atteneva al pagamento del
canone di locazione da parte del contribuente dello studio sito a Milano, in
piazza C., per il periodo dal 10 novembre 2005 al 31 dicembre 2005, con
locatrice la B. Srl.

Pertanto, è pacifico, in atti, che il contribuente
abbia utilizzato per la sua attività professionale due studi, dando così dimostrazione
della sussistenza dell’autonoma organizzazione, per le ragioni che seguono.
Infatti, come ritenuto dal giudice di merito, con valutazione sufficientemente
motivata, risulta “che l’attività professionale sia stata svolta quasi
esclusivamente nell’ambito dello studio legale associato D.-M. G. di Piazza B.
Milano”. Va però evidenziato che il contribuente ha utilizzato anche lo
studio di piazza C. a Milano, benché le spese dichiarate per la locazione
risultino del tutto sproporzionate, in quanto ammontano solo per l’anno 2005 a
circa € 300.000,00, di cui € 50.000, solo nel mese da novembre a dicembre del
2005.

Pertanto, l’autonoma organizzazione risulta sia
dalle somme esorbitanti erogate per il pagamento dei canoni di locazione
dell’anno 2005, sia dall’utilizzo di due studi da parte del contribuente. Uno
studio, infatti, è stato utilizzato proprio nell’ambito dello studio legale
associato cui il ricorrente partecipava direttamente (D.-M.-G.); l’altro è
stato utilizzato in via esclusiva dal M..Peraltro, sebbene l’uso di uno studio
non sia di per sé indice dell’esistenza di autonoma organizzazione, costituisce
però oggetto dell’accertamento di fatto del giudice di merito, che deve
valutare anche il profilo delle dimensioni e delle caratteristiche dello studio,
poste in relazione al normale svolgimento di quella specifica attività, la
verifica della “eccedenza” del bene strumentale rispetto al
“minimo indispensabile per l’esercizio di attività in assenza di
organizzazione” (Cass., 28 giugno 2017, n.
16072, in relazione ad un ragioniere).

L’utilizzo di due studi, ed in particolare di uno
studio con costi di locazione per  la
somma di circa euro 300.000 l’anno, con euro 50.000 versati solo per il mese
novembre-dicembre del 2005, non può essere ritenuto, come affermato dal giudice
del merito, una spesa rientrante nel “minimo indispensabile” per
l’esercizio dell’attività di avvocato.

4.6. Per questa Corte, in caso di utilizzo di tre
studi professionali da parte di un medico, seppure con impiego di beni
strumentali di elevato ammontare, il professionista appare impiegare beni
strumentali potenzialmente eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit il
minimo indispensabile all’esercizio dell’attività (Cass.,
7495/2018; in conformità Cass., 25720/2014, anche se si trattava di 2 studi
e 4 centri sanitari; Cass., 19011/2016, con tre studi anche per consulenze
private; Cass., 17742/2016, in caso di
pluralità di studi, dotati ciascuno di beni strumentali di natura elevata;
Cass., 25720/2014; Cass., 10240/2010; Cass.,
17569/2016, in caso di due studi con il possesso di beni strumentali eccedenti
il minimo indispensabile; mentre Cass., 2967/2014
ha negato l’applicazione dell’irap in caso di utilizzo di due soli studi
professionali).

Il contribuente può poi allegare e dimostrare la
presenza di peculiari situazioni e specifici bisogni territoriali eventualmente
trascurati dal giudice di merito (Cass., 18 gennaio 2017, n 7459; Cass., 7
dicembre 2016, n. 25238) per l’utilizzo di più studi.

4.7. Peraltro, il contribuente risulta inserito
all’interno dello studio professionale D.-M.-G., al quale fatturava la maggior
parte delle proprie prestazioni professionali, sicché, utilizzava anche
l’organizzazione dello studio legale cui apparteneva.

In tal senso, questa Corte ha ritenuto sussistente
l’Irap nei confronti dei tassisti organizzati in cooperativa, in ragione delle
specifiche modalità di esercizio dell’attività, integrata dall’apporto
qualificante della stabile struttura societaria, che assicurava al singolo
tassista, in via atipica e costante, continuità di lavoro, migliori condizioni
economico-professionali, centralizzazione della raccolta pubblicitaria,
assistenza amministrativa e fiscale (Cass., sez.
5, 18 settembre 2013, n. 21326).

Si è chiarito che per la soggezione ad Irap dei
proventi di un lavoratore autonomo è necessario che la struttura organizzativa
di cui questi si avvalga faccia capo allo stesso non solo ai fini operativi, ma
anche sotto il profilo organizzativo.

Pertanto, è stata cassata la sentenza di merito che
aveva riconosciuto la soggettività passiva all’imposta di un avvocato che,
collaborando presso importanti studi legali, ne aveva utilizzato la struttura
organizzativa, traendo le utilità (Cass., sez.
6-5, 16 febbraio 2017, n. 4080).

Nella specie, però, è evidente che il contribuente
si è avvalso della struttura organizzativa dello studio cui lo stesso
partecipava, non trattandosi di studio altrui.

5. Non si provvede sulle spese del giudizio di
legittimità, in quanto la controricorrente non ha svolto attività difensiva.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, previsto a norma del
comma 1 bis, dello stesso articolo
13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 aprile 2021, n. 11086
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