Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 aprile 2021, n. 11106

Contratto di somministrazione a tempo determinato, Proroga,
Accertamento della nullità dell’accordo transattivo e del termine,
Riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato

 

Rilevato che

 

1. R.B. adiva il Giudice del lavoro del Tribunale di
Trapani esponendo di avere lavorato presso la T.S. s.p.a. in forza di un
contratto di somministrazione a tempo determinato decorrente dal 7 marzo 2005 e
in seguito più volte prorogato sino al 30 settembre 2010; di essere stato poi
riassunto dalla stessa società con contratto di lavoro a tempo determinato
della durata di dodici mesi in esecuzione di un accordo transattivo del 15
marzo 2011, con cui egli aveva rinunciato ai diritti nascenti dal pregresso
rapporto di lavoro, nella prospettiva di una riassunzione a tempo
indeterminato, aspettativa non realizzatasi. Conveniva in giudizio la società
T.S. s.p.a. per l’accertamento della nullità dell’accordo transattivo e del
termine apposto ai contratti di somministrazione e per il riconoscimento di un
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze della
convenuta e per la condanna della società al pagamento delle retribuzioni
maturate dall’interruzione del rapporto (settembre 2010) sino alla effettiva
riammissione in servizio, oltre al risarcimento dei danni.

2. Il Giudice di primo grado, accogliendo
l’eccezione di parte resistente, dichiarava inammissibile la domanda di
conversione del rapporto per intervenuta decadenza ex art. 32 legge n. 183 del 2010 e
dichiarava la nullità della domanda risarcitoria per indeterminatezza del
petitum.

3. La Corte di appello di Palermo, con sentenza n.
618/16, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trapani, rigettava
le domande proposte da R.B., argomentando – in sintesi – come segue:

a) Non è maturata la decadenza dall’azione, dovendo
sul punto essere riformata la sentenza impugnata, avuto riguardo
all’interpretazione offerta dalla sopravvenuta sentenza delle S.U. della S.C.
n. 4913/2016 in ordine al differimento di efficacia del termine di decadenza
per le impugnazioni (anche dei contratti a termine e somministrazione) di cui
dell’art. 32, comma 1-bis, I. n.
183 del 2010, introdotto dal d.l. 225 del 2010,
conv. In I. n. 10 del 2011. Nel caso di
specie, il lavoratore impugnò il rapporto di somministrazione concluso il 30
settembre 2010, comunicando in data 7 ottobre 2010 la richiesta di tentativo di
conciliazione; a tale impugnazione stragiudiziale fece seguito, entro ¡I
prescritto termine di 270 giorni decorrente dal 1° gennaio 2012 (per effetto del
suddetto differimento di efficacia), il deposito del ricorso.

b) Stante l’insussistenza della eccepita decadenza,
le domande, riproposte dall’appellante, devono essere esaminate nel merito.

c) E’ pacifico che le parti intesero definire la
controversia riguardante il rapporto di somministrazione e la pretesa del
lavoratore di essere assunto a tempo indeterminato stipulando un accordo
transattivo, nel quale era prevista la stipula di un nuovo contratto a termine
della durata di dodici mesi a decorrere dal 23 marzo 2011. Tale accordo venne
siglato su istanza dello stesso lavoratore, che ne ha poi lamentato la nullità
assumendo che il diritto all’assunzione sarebbe indisponibile e che egli
sarebbe stato indotto a sottoscrivere l’accordo per violenza morale.

d) Le censure del ricorrente sono infondate: a) non
vi è alcun concreto elemento volto a suffragare l’ipotesi della violenza
morale, circostanza smentita proprio dalla incontestata iniziativa assunta dal
lavoratore a volere procedere ad una transazione; b) è valida la proposta
transattiva contenente la proposta di stipulazione di un contratto a termine,
essendo il diritto all’assunzione un diritto disponibile, come ogni diritto
patrimoniale, purché di tale ulteriore contratto sussistano le condizioni
formali e gli elementi di specificazione richiesti dalla normativa vigente.

e) Pertanto, ogni questione relativa alla denunciata
nullità del rapporto di somministrazione concluso il 30 settembre 2010 è stata
risolta con tale accordo, con cui il lavoratore ha sostanzialmente rinunciato a
far valere eventuali violazioni dei propri diritti.

f) Non è possibile esaminare la validità del
successivo contratto di lavoro a tempo determinato, atteso che in primo grado
il ricorrente non aveva mosso alcuna doglianza in merito alla nullità del
termine finale del 22 marzo 2012. Solo tardivamente in primo grado il
ricorrente prospettò l’assenza delle condizioni di cui all’art. 1 d.lgs. n. 368 del 2001,
per cui è da ritenere inammissibile la riproposizione in appello della
questione, ormai preclusa in quanto non tempestivamente dedotta in giudizio.

g) Non può essere validamente richiamato l’art. 421 cod. proc. civ., poiché il rilievo
d’ufficio della nullità va contemperato con il principio della domanda, che in
concreto era diretta a far valere l’invalidità del negozio transattivo e la
nullità della somministrazione. La medesima sanzione di inammissibilità va
estesa alla pretesa relativa all’indennità omnicomprensiva, formulata ex novo
in grado di appello. Restano assorbite le censure relative alla legittimità del
contratto di somministrazione e la pretesa risarcitoria.

4. Per la cassazione di tale sentenza R.B. ha
proposto ricorso principale, affidato a tre motivi. La T.S. s.p.a. ha resistito
con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato ad un
motivo.

5. La società T.S. ha altresì depositato memoria ex art. 380-bis cod. proc. civ., depositando in allegato
l’avviso di ricevimento della notifica del controricorso con ricorso
incidentale.

 

Considerato che

 

6. Il primo motivo del ricorso principale denuncia
violazione degli artt. 1965, 1966 e 2113 cod. civ.,
in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod.
proc. civ., per non avere la sentenza impugnata debitamente considerato che
il negozio transattivo richiede ai sensi dell’art.
1966 cod. civ. lo scambio di reciproche concessioni, sicché, ove manchi
tale elemento essenziale, l’accordo è da ritenere nullo. Nel caso in esame, la
T.S. non aveva fatto alcuna concessione, pretendendo che il lavoratore
rinunciasse a tutti gli effetti economici derivanti dalla pregressa situazione
lavorativa, approfittando delle sue condizioni di bisogno. Con lo stesso motivo
si contesta che possano essere oggetto di disponibilità i diritti derivanti dai
pregressi contratti di somministrazione.

7. In ordine alla prima censura, che investe
l’accertamento dell’aliquid datum e dell’aliquid retentum, è assorbente
rilevare la novità della contestazione, di cui non vi è cenno nella sentenza
impugnata e della quale il ricorrente non illustra i termini della sua
eventuale introduzione in giudizio (cfr. Cass. n.
2038 del 2019, 20518 del 2008; v. pure Cass. 15430 del 2018). La stessa è
dunque inammissibile, vertendo su una contestazione che doveva essere
sottoposta al giudice di merito.

8. Quanto alla seconda censura, sostiene il
ricorrente che, ai sensi dell’art. 2113 cod. civ.,
le rinunzie e transazioni che abbiano ad oggetto diritti derivanti da norme
inderogabili di legge o di contratto collettivo sono affette da invalidità e
che, anche a norma dell’art. 1966, secondo comma,
cod. civ., la transazione è nulla se tali diritti, per loro natura o per
espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti.

9. La censura è infondata.

10. Dal tenore complessivo della sentenza impugnata
risulta che la transazione intervenne allo scopo di evitare l’insorgere o
comunque porre fine alla controversia in ordine al rapporto di lavoro
pregresso, a seguito dell’inutile esperimento del tentativo obbligatorio di
conciliazione ex art. 410 cod. proc. civ., e
che con lo stesso accordo transattivo fu prevista la stipulazione di un nuovo
contratto di lavoro a tempo determinato, che ebbe poi regolare esecuzione tra
le parti. Dunque, sotteso al ragionamento della Corte di appello sta il rilievo
che le parti, mediante l’accordo, avessero perseguito la finalità di porre fine
all’incertus litis eventus, ai sensi dell’art. 1965
cod. civ..

11. Il regime di eventuale annullabilità degli atti
contenenti rinunce del lavoratore a diritti garantiti dal norme inderogabili di
legge o di contratto collettivo, previsto dall’art.
2113 cod. civ., riguarda le ipotesi di rinuncia a un diritto già acquisito,
mentre il diritto ancora controverso in quanto oggetto di una pretesa
giudiziale non può ritenersi già acquisito nel patrimonio del rinunciante (cfr.
Cass. n. 1846 del 1983; Cass. 8 luglio 1988 n. 4529; Cass. 19 gennaio 1999 n.
477 e, tra le più recenti, Cass. n. 12227 del 2013). Per la validità della
transazione è necessaria la sussistenza della res litigiosa, ma a tal fine non
occorre che le rispettive tesi delle parti abbiano assunto la determinatezza
propria della pretesa, essendo sufficiente l’esistenza di un dissenso
potenziale, anche se ancora da definire nei più precisi termini di una lite e
non esteriorizzata in una rigorosa formulazione (Cass. n. 1846 del 1983, n.
11142 del 2003, n. 8301 del 2006).

12. Immune da violazioni di legge è poi
l’affermazione del giudice di appello secondo cui la rinuncia da parte del
lavoratore aveva comunque ad oggetto diritti disponibili. Questa Corte ha
affermato che il lavoratore può liberamente disporre del diritto di impugnare
la risoluzione del rapporto di lavoro facendone oggetto di rinunce o
transazioni, che sono sottratte alla disciplina dell’art.
2113 cod. civ., che considera invalidi e perciò impugnabili i soli atti
abdicativi di diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni
inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi; e, infatti,
l’interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro rientra
nell’area della libera disponibilità (cfr. Cass. n. 13134 del 2000; nello
stesso senso, Cass. n. 5940 del 2004; Cass. n.
304 del 1998). L’ordinamento riconosce al lavoratore il diritto potestativo di
disporre negozialmente e definitivamente del posto di lavoro stesso, in base
all’art. 2118 cod. civ. (Cass. n. 4780 del
2003; v. pure Cass. n. 22105 del 2009, n. 6265 del 2014).

13. Il secondo motivo del ricorso principale
denuncia violazione dell’art. 437, secondo comma,
cod. proc. civ., in relazione all’art. 360,
primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per avere la Corte di appello ritenuto
tardiva la contestazione, formulata ai sensi dell’art. 1 d.lgs. n. 368 del 2001,
della legittimità del contratto a tempo determinato stipulato per la durata di
dodici mesi con decorrenza dal 22 marzo 2011. Sostiene il ricorrente che dal
tenore dell’atto introduttivo era possibile evincere che tale contestazione
venne formulata, per cui spettava alla parte datoriale dimostrare la
legittimità dell’apposizione del termine al nuovo contratto di lavoro.

14. Il motivo è infondato.

15. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la
rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata
al giudice di merito ed è sindacabile: a) ove ridondi in un vizio di nullità
processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal
paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di
legittimità ex art. 360, primo comma, n. 4 cod.
proc. civ.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico-decisorio,
eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda
determina un vizio attinente alla individuazione del petitum, potrà aversi una
violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà
essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.; c)
quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica”
dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un
“fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella
quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di errar
in judicando, in base all’art. 360, primo comma, n.
3 cod. proc. civ., o al vizio di error facti, nei limiti consentiti dall’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. (Cass.
n. 11103 del 2020).

16. Nel caso in esame, il motivo di ricorso, in
relazione alla denuncia formulata ai sensi dell’art.
360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., appare riferibile ad una erronea
qualificazione giuridica dei fatti allegati nell’atto introduttivo. Sebbene la
rubrica del motivo denunci la violazione dell’art.
437 cod. proc. civ., lo sviluppo argomentativo – all’evidenza e in tutti i
suoi passaggi – è teso a prospettare un vizio di interpretazione
dell’originario ricorso ex art. 414 cod. proc. civ.,
poiché assume il ricorrente che vi erano elementi testuali per ritenere inclusa
nella domanda anche la denuncia di nullità del termine apposto al contratto di
lavoro a tempo determinato.

17. Tuttavia, contrariamente a tale assunto, non si
rinviene nella esposizione del motivo del ricorso per cassazione alcun elemento
utile a supportare il denunciato errore di interpretazione e/o sussunzione ex art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.,
atteso che tutti i passaggi testuali riferiti alla domanda originaria si
riferiscono alla somministrazione irregolare ex art. 27 d.lgs. n. 276 del 2003 in
relazione agli artt. 20 e 21
dello stesso decreto, mentre nessun cenno è svolto con riguardo alla non
conformità del contratto a tempo determinato al modello legale di cui all’art. 1 d.lgs. 368 del 2001. Lo
stesso passaggio testuale in cui si allude alla “apposizione del termine
al contratto di lavoro”, soggiunge “così come ognuna delle proroghe
ad esso apportate”, confermando che la contestazione verteva sul contratto
di somministrazione a termine e sulle sue successive proroghe.

18. Il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 1421 cod. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.,
poiché il giudice di appello avrebbe dovuto rilevare d’ufficio la nullità del
termine apposto al contratto stipulato con decorrenza dal 22 marzo 2011.

19. Il motivo sembra evocare l’orientamento per cui
il giudice innanzi al quale sia proposta una domanda di nullità contrattuale
deve rilevare d’ufficio l’esistenza di una causa di nullità diversa da quella
prospettata, che sia desumibile dai fatti dedotti in giudizio ed abbia
carattere assorbente, con l’unico limite di dovere instaurare il
contraddittorio prima di statuire sul punto (v. tra le più recenti, Cass. n.
26495 del 2019; v. pure Cass. S.U. n. 26242 del 2014).

20. Il motivo è infondato.

21. La Corte di appello ha ritenuto improprio il
richiamo dell’art. 1421 cod. civ., osservando
che il rilievo d’ufficio della nullità va contemperato con il principio della
domanda, che in concreto era diretta a far valere esclusivamente l’invalidità
dell’accordo transattivo e la nullità della somministrazione. Tale soluzione è
giuridicamente corretta. Il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità
di un atto giuridico va coordinato con il principio della domanda, fissato
negli artt. 99 e 112
cod. proc. civ..

22. In disparte ogni altra considerazione circa
l’ambito e la portata applicativa dei principi evocati da parte ricorrente, nel
caso in esame è sufficiente osservare che, come già rilevato in precedenza, la
questione della nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato in
esecuzione dell’accordo transattivo non era stata in alcun modo formulata nel
ricorso introduttivo, per cui la sua tardiva formulazione in corso di giudizio
ha precluso in radice – come correttamente affermato dalla Corte di appello –
l’esame di qualsivoglia profilo di nullità.

23. Il ricorso principale va dunque rigettato.

24. Il ricorso incidentale proposto dalla società
verte su violazione dell’art. 32,
comma 2, ultimo periodo, legge n. 183 del 2010, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ..
Assume la società che la Corte di appello avrebbe esaminato l’eccezione di
decadenza sotto il profilo della tempestività del deposito del ricorso nel termine
di 270 giorni decorrente dal 1° gennaio 2012, per effetto del differimento
stabilito dell’art. 1 – bis dell’art. 32 legge n. 183 del 2010 (ndr comma 1 – bis dell’art. 32 legge n.
183 del 2010), ma non avrebbe esaminato e deciso l’altra eccezione di
decadenza, che pure era stata debitamente sollevata nelle precedenti fasi di
giudizio. Deduce che sia nella memoria di costituzione di primo grado, sia
nell’atto di costituzione in appello era stato eccepito che, ai sensi della
predetta norma, qualora la conciliazione o l’arbitrato siano rifiutati o non
sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al
giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto
o dal mancato accordo e che, nel caso di specie, il procedimento di
conciliazione, avviato dinanzi al competente ufficio del lavoro con istanza del
7 ottobre 2010, si era concluso con verbale di mancato accordo del 14 dicembre
2010, per cui il lavoratore avrebbe dovuto depositare il ricorso entro il 12
febbraio 2011, dovendosi pure considerare che il comma 1-bis dell’art. 32 è
entrato in vigore in vigore il 27 febbraio 2011, ossia dopo che si era già compiuto
l’anzidetto termine decadenziale di sessanta giorni.

25. La parte richiama il principio enunciato da
Cass. n. 5456 del 2009, secondo cui, anche alla luce del principio
costituzionale della ragionevole durata del processo, secondo cui fine primario
di questo è la realizzazione del diritto delle parti ad ottenere risposta nel
merito, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel
giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese
quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di
ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte,
e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito
o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di
decisione esplicita o implicita (ove quest’ultima sia possibile) da parte del
giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale
ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione, solo in presenza
dell’attualità dell’interesse, sussistente unicamente nell’ipotesi della
fondatezza del ricorso principale. Il principio è stato ribadito da Cass. S.U.
7381 del 2013, nonché da Cass. n. 4619 del 2015, n. 6138 del 2018.

26. La Corte di appello, affermando che parte
appellante non era decaduta dall’azione ex art. 32 legge n. 183 del 2010 e
che il dies a quo del termine decadenziale era fissato al 1° gennaio 2012, ha
implicitamente statuito su tutti i profili sottesi alla questione giuridica
della decadenza, ben avendo presente l’iter dell’impugnativa (anche
stragiudiziale).

Deve pertanto ritenersi che si versi in un’ipotesi
di decisione implicita sulla questione oggetto del ricorso incidentale, con la
conseguenza che lo stesso deve qualificarsi come condizionato e va considerato
assorbito nel rigetto del principale.

27. In conclusione, va rigettato il ricorso
principale, assorbito l’incidentale.

28. Il ricorrente principale va condannato al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura
indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese
forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la
prestazione, ai sensi dell’art. 2
del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

29. Va dato atto della sussistenza dei presupposti
processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del
ricorrente principale, ai sensi dell’art.
13, comma 1 – quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo
introdotto dall’art. 1, comma 17,
della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma
del comma 1 – bis dello stesso art.
13, se dovuto (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019 e n. 4315 del 2020).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale, assorbito
l’incidentale e condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese, che
liquida in euro 5.250,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15%
per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a
norma del comma 1-bis, dello stesso
articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 aprile 2021, n. 11106
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