Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 maggio 2021, n. 11645

Rapporto di lavoro, Contrattazione collettiva di comparto,
Violazione, Quantificazione dei trattamenti economici spettanti ai dirigenti
comunali a titolo di retribuzione di posizione e di risultato

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Milano, adita da G. U., ha
riformato solo in minima parte la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio che
aveva rigettato il ricorso, proposto dall’appellante e da altri litisconsorti,
volto ad ottenere, in via principale, l’accertamento del diritto a trattenere
le somme che il Comune di Busto Arsizio aveva liquidato a titolo di
retribuzione di posizione e di risultato negli anni compresi fra il 1996 ed il
2004, somme delle quali l’ente locale pretendeva la restituzione sull’assunto
che le stesse fossero state corrisposte in violazione di quanto previsto dalla
contrattazione collettiva di comparto;

1.1. in via subordinata i ricorrenti, oltre ad
eccepire la prescrizione dell’azione di recupero, avevano proposto domanda di
risarcimento del danno, addebitando all’amministrazione comunale di non avere
adempiuto gli obblighi previsti dai contratti collettivi, ed avevano
quantificato il pregiudizio subito in misura pari agli importi del trattamento
accessorio ricevuto nel periodo sopra indicato, chiedendo anche la
compensazione del risarcimento con le somme che, a detta del Comune, dovevano
essere restituite perché indebitamente percepite;

1.2. in ulteriore subordine era stato chiesto
l’indennizzo ex art. 2041 cod. civ., sul
rilievo che l’ente locale si era avvalso delle prestazioni rese dai dirigenti
pretendendo, poi, di non corrispondere la retribuzione di posizione e di
risultato;

2. la Corte territoriale, nel riassumere i termini
della controversia, ha evidenziato che, all’esito delle violazioni riscontrate
nel novembre 2004 dall’Ispettorato Generale di Finanza della Ragioneria dello
Stato, il Comune con la delibera n. 599/2008 aveva annullato le precedenti
determinazioni relative alla quantificazione dei trattamenti economici
spettanti ai dirigenti comunali a titolo di retribuzione di posizione e di
risultato, erogati in assenza della corretta costituzione del fondo, della
contrattazione integrativa decentrata, del principio di onnicomprensività e
della necessaria positiva valutazione da parte del Nucleo di valutazione;

3. il giudice d’appello, anche attraverso il
richiamo a precedenti decisioni rese in casi analoghi, ha evidenziato che le
violazioni della disciplina, legale e contrattuale, nelle quali il Comune era
incorso, non potevano essere ritenute, come sostenuto dall’appellante, solo
procedurali e non sostanziali, perché gli artt. 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001,
nella parte in cui individuano nella contrattazione collettiva decentrata
l’unica fonte legittimata a definire i trattamenti economici secondo le
procedure indicate dal contratto collettivo rispondono a fondamentali esigenze
di controllo della spesa, di tenuta finanziaria degli enti e di equità
retributiva fra lavoratori;

4. ha ribadito che il trattamento accessorio era
stato erogato in assenza delle condizioni richieste dalla contrattazione
collettiva nazionale in quanto l’ente locale non aveva istituito il Fondo né
aveva attivato le procedure di valutazione dei dirigenti;

5. all’U., inoltre, era stata attribuita una
retribuzione di posizione che superava il tetto massimo previsto dall’art. 27, comma 2, del CCNL del 1999
e che non poteva essere giustificata dall’asserita assegnazione ad una
struttura organizzativa complessa, composta da due distinti settori di grande
rilevanza perché, come accertato già in altro giudizio intercorso fra le stesse
parti, nell’organizzazione del Comune non poteva essere ravvisata alcuna
struttura del genere;

6. la Corte territoriale ha escluso anche la
fondatezza dell’azione risarcitoria perché l’appellante non poteva pretendere
la retribuzione di posizione e risultato facendo leva su delibere comunali
illegittime, succedutesi nel periodo 1996/2004, e, pertanto, non poteva essere
ravvisato un danno ingiusto, tanto più che l’inadempimento non riguardava il
rapporto di lavoro del dipendente, al quale era stato corrisposto più del
dovuto;

7. in via conclusiva la Corte ha limitato la riforma
al solo capo della sentenza relativo alla quantificazione delle somme da
restituire, in quanto la ripetizione poteva essere pretesa non per l’intero
importo bensì al netto degli oneri fiscali e previdenziali;

8. per la cassazione della sentenza G. U. ha
proposto ricorso affidato a sette motivi, illustrati da memoria, ai quali il
Comune di Busto Arsizio ha opposto difese con tempestivo controricorso;

9. il Pubblico Ministero con atto depositato il  27 novembre 2020 ha concluso per il rigetto
del ricorso.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 40 del d.lgs. n. 165/2001
nonché omesso esame di un fatto decisivo della controversia e sostiene che il
mancato rispetto della disciplina dettata dal contratto collettivo integra una
causa di nullità delle pattuizioni individuali solo nell’ipotesi in cui si
risolva nel contrasto con norma imperativa di legge, contrasto che, quanto ai
trattamenti retributivi del personale, è ravvisabile solo qualora gli stessi
non siano rispettosi dei parametri di quantificazione previsti dalla contrattazione
nazionale o comportino impegni di spesa complessivi non in linea con i vincoli
di bilancio e di finanziamento;

1.1. ne trae quale conseguenza che solo le
violazioni di carattere sostanziale rendono indebita l’erogazione, non quelle
formali e procedurali, sicché nella fattispecie nessuna rilevanza poteva essere
attribuita alla mancata costituzione del fondo per il trattamento accessorio,
la cui funzione è stata sostanzialmente assolta dalle delibere con le quali la
Giunta Comunale ha approvato le retribuzioni di posizione e di risultato dei
dirigenti, accertandone anche la capienza rispetto alle fonti di finanziamento
individuate dal C.C.N.L.;

1.2. sostiene che l’errore commesso dai giudici di
merito nell’interpretazione dell’art. 40 del d.lgs. n. 165/2001
ha determinato, quale conseguenza, l’omesso esame di un fatto decisivo ai fini
di causa, ravvisato nell’asserita compatibilità degli importi riconosciuti con
i vincoli di spesa fissati dal C.C.N.L. di comparto;

2. la seconda censura addebita alla sentenza gravata
la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418
e 1421 cod. civ. perché dal mancato rispetto
delle disposizioni di legge e di contratto poteva, al più, derivare una nullità
non assoluta bensì relativa, non opponibile da parte dell’unico soggetto tenuto
a rispettare i requisiti procedinnentali;

3. la terza critica denuncia la «violazione e falsa
applicazione degli artt. 1219 e 1453 c.c., degli artt. 38 e 39 del CCNL del 10
aprile 1996 e dell’art. 31
del CCNL del 23 dicembre 1999 della dirigenza del comparto regioni-enti
locali» e censura il capo della sentenza che ha rigettato la domanda volta ad
ottenere il risarcimento del danno cagionato al dirigente dal mancato rispetto,
addebitabile al Comune, degli obblighi procedinnentali imposti dalla
contrattazione collettiva;

3.1. il ricorrente sostiene, in sintesi, che
l’asserita nullità è dipesa da un inadempimento del quale si è reso
responsabile l’ente territoriale, unico soggetto legittimato a costituire il
fondo e ad attivare il nucleo di valutazione, sicché le somme attribuite
dovevano essere riconosciute quanto meno a titolo risarcitorio;

3.2. evidenzia che in virtù dell’art. 31 del CCNL del 1999 il Comune
era obbligato, quantomeno a partire dal 23 maggio 2000, ad erogare la
retribuzione di posizione e di risultato ed infatti il C.C.N.L. in parola non
conteneva più la clausola «sussidiaria» dettata dall’art. 39 del CCNL 1996, che
rinviava ai criteri di cui all’art.
38 del d.P.R. n. 333/1990;

3.3. precisa che il dirigente, che abbia operato con
l’aspettativa di vedersi attribuita la retribuzione accessoria in caso di
raggiungimento degli obiettivi assegnati, non può essere penalizzato
dall’inerzia del Comune che ometta di avviare la  contrattazione decentrata integrativa e di
istituire i servizi di controllo interno;

4. con il quarto motivo è denunciata la violazione e
falsa applicazione dell’art. 38
del CCNL 10 aprile 1996 per la dirigenza del comparto regioni ed enti
locali, dell’art. 5 del d.lgs. n. 286/1999, dell’art. 11 del r.d. n. 262/1942
nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia e si sostiene
che i servizi di controllo interno o i nuclei di valutazione, ai quali rinvia
il C.C.N.L. del 1996 non possono essere quelli
disciplinati dal d.lgs. n. 286/1999 e, pertanto, il requisito poteva essere
soddisfatto da un qualsivoglia sistema di controllo annuale della prestazione,
sistema realizzato attraverso l’attribuzione al Direttore generale del Comune
delle funzioni di organo di controllo interno disposta con  la deliberazione sindacale n. 412/1998;

4.1. il ricorrente aggiunge che successivamente la
valutazione è stata effettuata dal Nucleo che ha valutato la congruità degli
obiettivi e il raggiungimento degli stessi;

5. la violazione dell’art. 37 del CCNL 10 aprile 1996
per la dirigenza del comparto regionienti locali è denunciata con la quinta
censura, con la quale si sostiene che la costituzione del fondo non costituisce
una condizione imprescindibile per la corresponsione del trattamento
accessorio, che può essere erogato a condizione che non venga superato il tetto
di spesa previsto dalla contrattazione nazionale;

6. il sesto motivo denuncia la violazione e falsa
applicazione dell’art. 26 del
CCNL 23 dicembre 1999 per la dirigenza del comparto regioni e autonomie
locali, degli artt. 40 e 45
del d.lgs. n. 165/2001 e degli artt. 1418 e
1421 cod. civ.;

6.1. sostiene il ricorrente che la contrattazione
decentrata è richiesta nei casi in cui l’ente voglia incrementare le risorse
economiche da destinare al finanziamento della retribuzione di posizione di
risultato, non già qualora l’incremento venga attribuito al singolo dirigente
senza superare la copertura economica complessiva;

6.2. aggiunge: che il contratto decentrato è una
fonte di disciplina solo eventuale; che la contrattazione era stata svolta
direttamente dal Sindaco e dall’Assessore del personale  con tutti i dirigenti; che l’errata
composizione delle delegazioni non può dare luogo a nullità assoluta e
costituisce, semmai, una nullità relativa o un inadempimento contrattuale;

7. infine con il settimo motivo è denunciata la
violazione dell’art. 2909 cod. civ. e dell’art. 27 del CCNL 23 dicembre 1999
perché la Corte d’appello non poteva limitarsi a richiamare, quanto alla
legittimità della delibera n. 660/2003, la sentenza della stessa Corte n.
320/2010, non passata in giudicato;

7.1. la questione inerente la complessità della
struttura organizzativa affidata all’U. andava, pertanto, esaminata e risolta
in termini favorevoli per l’appellante al quale erano stati affidati due
settori di grande rilevanza nella gestione dei servizi del Comune;

8. il ricorso è inammissibile quanto alle censure
che si incentrano sul contenuto di atti deliberativi, rispetto ai quali non è
assolto l’onere di specifica indicazione, nei termini precisati da Cass. S.U.
n. 34469/2019;

8.1. parimenti sono inammissibili le denunce del
vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc.

civ. perché il giudizio di appello è stato
introdotto con ricorso depositato l’11 gennaio 2013 e, quindi, in ragione
dell’applicabilità alla fattispecie del divieto di cui all’art. 348 ter, comma 5, cod. proc. civ., il
ricorrente per evitare l’inammissibilità della censura avrebbe dovuto indicare
le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo
grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra
loro diverse ( cfr. fra le tante Cass. 20994/2019; Cass. n. 26774/2016; Cass.
n. 5528/2014);

9. per il resto, salve le ragioni di inammissibilità
del sesto e del settimo motivo di cui si dirà in prosieguo, i motivi sono
infondati; nell’impiego pubblico contrattualizzato, ove difettino specifiche
disposizioni derogatorie della regola generale, deve essere escluso in radice
il potere unilaterale del datore di lavoro di discostarsi, nella disciplina del
singolo rapporto di impiego, dall’assetto definito in sede di contrattazione
collettiva, perché il superamento dello statuto pubblicistico è stato
realizzato dal legislatore ordinario attraverso un «equilibrato dosaggio di
fonti regolatrici» (Corte Cost. n. 313/1996 e Corte Cost. n. 309/1997) che si
incentra sul ruolo centrale della contrattazione collettiva, a sua volta
oggetto di una specifica disciplina finalizzata a garantire l’attuazione dei
principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost.,
di modo che «l’osservanza, da parte delle amministrazioni, degli obblighi assunti
con i contratti collettivi rappresenta il conseguente e non irragionevole esito
dell’intera procedura di contrattazione, la quale prende le mosse dalla
determinazione dei comparti e si conclude con l’autorizzazione governativa alla
sottoscrizione delle ipotesi di accordo, che interessa a sua volta molteplici
profili, non solo di controllo ma anche di verifica della compatibilità
finanziaria» (Corte Cost. n. 309/1997);

9.1. il ruolo centrale della contrattazione
collettiva è stato da tempo valorizzato dalle Sezioni Unite di questa Corte, le
quali sullo stesso hanno fondato il principio secondo cui l’atto di deroga,
anche in melius, alle disposizioni del contratto collettivo è « affetto da
nullità, sia quale atto negoziale, per violazione di norma imperativa, sia
quale atto amministrativo, perché viziato da difetto assoluto di attribuzione
ai sensi della L. n. 241 del 1990,
art. 21-septies (l’ordinamento esclude che l’amministrazione possa
intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla contrattazione
collettiva) » (Cass. S. U. n. 21744/2009);

9.2. si è quindi consolidato nella giurisprudenza di
questa Corte l’orientamento secondo cui l’adozione da parte della P.A. di un
atto negoziale di diritto privato di gestione del rapporto, con il quale venga
attribuito al lavoratore un determinato trattamento economico, non è
sufficiente, di per sé, a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo
al lavoratore medesimo, giacché la misura economica deve trovare necessario
fondamento nella contrattazione collettiva, con la conseguenza che il diritto
si stabilizza in capo al dipendente solo qualora l’atto sia conforme alla
volontà delle parti collettive (cfr. fra le tante Cass. n. 17226/2020; Cass. n.
21166/2019; Cass. n. 15902/2018; Cass. n. 25018/2017; Cass. 16088/2016 e la
giurisprudenza ivi richiamata);

9.3. si è anche evidenziato che il datore di lavoro
pubblico, a differenza di quello privato, è tenuto a ripetere le somme
corrisposte sine titulo e che, per la particolare natura del rapporto
nell’impiego pubblico fra contratto collettivo ed individuale, la restituzione
non è subordinata alla previa dimostrazione di un errore riconoscibile non
imputabile al datore medesimo;

9.4. quest’ultimo, pur non potendo esercitare poteri
autoritativi, è tenuto ad assicurare il 
rispetto della legge, e quindi del contratto collettivo che dalla stessa
mutua la sua particolare efficacia generalizzata, sicché non può dare esecuzione
ad atti nulli e deve sottrarsi, anche unilateralmente, all’adempimento delle
obbligazioni che trovano titolo nell’atto illegittimo;

9.5. si tratta di principi che valgono anche per il
rapporto dirigenziale in quanto già l’art. 24 del d.lgs. n. 29/1993,
poi trasfuso nell’art. 24
del d.lgs. n. 165/2001, stabiliva che «la retribuzione del personale con
qualifica di dirigente è determinata dai contratti collettivi per le aree
dirigenziali, prevedendo che il trattamento economico accessorio sia correlato
alle funzioni attribuite e alle connesse responsabilità» ed escludeva,
pertanto, che il trattamento accessorio potesse essere liberamente quantificato
al momento della sottoscrizione del contratto individuale;

10. la sentenza impugnata non si è discostata dai
principi di diritto sopra riassunti e, correttamente, dopo avere accertato,
attraverso il richiamo alla motivazione della sentenza di primo grado, alla
relazione ispettiva ed alla deliberazione della Giunta Comunale, l’avvenuta
erogazione del trattamento accessorio in palese violazione della disciplina
dettata dal contratto collettivo (mancata costituzione del fondo; omessa
attivazione del Nucleo di Valutazione; violazione delle competenze attribuite
alla contrattazione integrativa, mai stipulata per l’assenza di rappresentanza
sindacale del personale con qualifica dirigenziale; superamento dei limiti
massimi previsti dal CCNL) ha ritenuto legittima l’azione di recupero avviata
dall’ente locale;

11. i primi due motivi di ricorso, con i quali si
censura il capo della sentenza impugnata che ha ravvisato la nullità degli atti
di gestione adottati in violazione della disciplina dettata dal CCNL, sono entrambi
infondati, perché del tutto priva di fondamento è la tesi secondo cui la
nullità potrebbe essere dichiarata solo in caso di indisponibilità delle
risorse, da escludere nella fattispecie in quanto le stesse erano state
previste in bilancio e stanziate nel rispetto dei limiti fissati dalla
contrattazione nazionale;

11.1. per respingere le censure formulate dal
ricorrente è sufficiente richiamare il principio affermato dalla Corte
Costituzionale secondo cui nell’impiego pubblico contrattualizzato, anche all’esito
del diverso equilibrio fra le fonti disegnato dal d.lgs.
n. 150/2009, che ha ristretto gli spazi di intervento della contrattazione
collettiva, quest’ultima « coinvolge una complessa trama di valori
costituzionali» e non è solo strumento per realizzare una razionale
distribuzione delle risorse, garantendo il contenimento della spesa pubblica,
giacché al contratto collettivo è assegnata la funzione di contemperare in
maniera efficace e trasparente gli interessi contrapposti delle parti e di
concorrere a dare concreta attuazione al principio di proporzionalità della
retribuzione,  «ponendosi, per un verso,
come strumento di garanzia della parità di trattamento dei lavoratori (art. 45, comma 2, del d.lgs.
n. 165 del 2001) e, per altro verso, come fattore propulsivo della
produttività e del merito (art.
45, comma 3, del d.lgs. 165 del 2001)» (Corte
Cost. n. 178/2015);

11.2. non è, pertanto, predicabile la tesi secondo
cui l’atto dispositivo sarebbe affetto da nullità solo se in contrasto con i
vincoli finanziari, perché, al contrario, la contrattazione collettiva è
strumento per il perseguimento di una pluralità di obiettivi, tutti di rilievo
costituzionale (efficienza, trasparenza, imparzialità degli enti,
proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione, parità di trattamento e
valorizzazione del merito), alla cui realizzazione concorre l’intera disciplina
dettata dalle disposizioni contrattuali, rispetto alle quali la violazione
rileva, ed è causa di nullità, sia se inerente i requisiti per così dire
sostanziali richiesti ai fini del riconoscimento del trattamento retributivo,
sia se riferibile  alle procedure
ritenute necessarie dalle parti collettive per l’accertamento dei requisiti in
questione;

11.3. dalle considerazioni sopra esposte deriva
altresì l’infondatezza del secondo motivo, giacché la nullità della quale qui
si discute discende dalla necessità di tutelare interessi di carattere generale
e di rilievo costituzionale, e, pertanto, la legittimazione a far valere il
vizio non può essere limitata ad una parte del rapporto contrattuale, tanto più
che non è nell’interesse del solo dipendente pubblico che la nullità stessa è
comminata;

12. parimenti infondati sono il terzo ed il quarto
motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in ragione della loro
connessione logico- giuridica; occorre premettere che il CCNL per il quadriennio 1994/1997, sottoscritto il
10.4.1996, dopo aver disciplinato, all’art. 37 le modalità di
costituzione del fondo della retribuzione di posizione e di risultato, all’art. 38, comma 3, prevedeva che
le risorse potessero essere incrementate dagli enti non dissestati e non
strutturalmente deficitari che avessero: attuato i principi di
razionalizzazione di cui al d.lgs. n. 29/1993;
ridefinito le strutture organizzative e le funzioni dirigenziali; rilevato i
carichi di lavoro e rideterminato le piante organiche; istituito e attivato i
servizi di controllo interno o i nuclei di valutazione;

12.1. il successivo art. 39 precisava, al comma 4,
che la disciplina inerente la graduazione delle funzioni, finalizzata ad
attribuire il trattamento accessorio in ragione della complessità della
struttura e delle responsabilità assunte, si applicava solo agli enti che
avessero realizzato le condizioni previste dal richiamato art. 38, comma 3, in difetto
delle quali la retribuzione di posizione sarebbe stata pari all’importo
dell’indennità di funzione di cui all’art. 38 del d.P.R. n. 333/1990,
incrementato del 3%;

12.2. l’art. 43 dello stesso contratto
stabiliva, poi, i criteri per l’attribuzione della retribuzione di risultato e
richiamava espressamente, quanto alla valutazione degli obiettivi e dei livelli
di prestazione, l’art. 23 del contratto secondo cui «le amministrazioni
definiscono sistemi e meccanismi di valutazione dei risultati gestiti
attraverso i nuclei di valutazione o organi di controllo interno da istituire
ai sensi dell’art. 20 del d.lgs.
n. 29/1993»;

12.3. a sua volta quest’ultima disposizione, nel
testo vigente alla data di sottoscrizione del CCNL, prevedeva l’attivazione di
servizi di controllo interno o nuclei di valutazione, da istituire con
regolamento nelle amministrazioni diverse dallo Stato ( comma 7), dotati di
autonomia e di proprio personale ( comma 3), ed a cui attribuire il compito di
«verificare, mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, la
realizzazione degli obiettivi, la corretta ed economica gestione delle risorse
pubbliche, l’imparzialità ed il buon andamento dell’azione amministrativa» (
comma 2), sulla base di parametri di riferimento del controllo da determinare
annualmente;

12.4. il CCNL
23.12.1999 per il quadriennio 1998/2001 ha modificato il richiamato art.
23, anche in ragione dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 286/1999, ed ha
stabilito che « Gli enti, con gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti
autonomamente assunti in relazione anche a quanto previsto dall’art.1, comma 2
e 3 del D.Lgs.n.286/1999, definiscono meccanismi e strumenti di monitoraggio e
valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dai
dirigenti, in relazione ai programmi e obiettivi da perseguire correlati alle
risorse umane, finanziarie e strumentali effettivamente rese disponibili.»;

12.5. a detta disposizione contrattuale si correla
l’art. 29, comma 2, che espressamente subordina l’erogazione della retribuzione
di risultato alla preventiva definizione degli obiettivi annuali nonché alla
«positiva verifica e certificazione dei risultati di gestione conseguiti in
coerenza con detti obiettivi, secondo le risultanze dei sistemi di valutazione
di cui all’art.23 del CCNL del
10.4.1996 come sostituito dall’art.14.»;

12.6. quanto alla retribuzione di posizione l’art.
31 ribadisce ai primi due commi, mediante il rinvio, all’art. 39, comma 5, del CCNL
10.4.1996 ed all’art. 4,
comma 5, del  CCNL 27.2.1997, che in
assenza delle condizioni richiamate al punto 12, l’importo spettante è solo
quello originariamente previsto dal d.P.R. n.
333/1990, ulteriormente incrementato in misura pari al 3,3% del relativo
valore;

13. alla luce di detto quadro contrattuale,
pertanto, non si può dubitare della fondatezza dell’azione di ripetizione
avviata dal Comune di Busto Arsizio perché, in difetto delle condizioni
previste dalla contrattazione collettiva per la graduazione delle funzioni
dirigenziali e per la valutazione dei risultati ottenuti dai dirigenti, a
questi ultimi non potevano essere riconosciute le relative voci del trattamento
accessorio, che andava limitato a quello previsto dall’art. 39, comma 5, del CCNL
10.4.1996, con gli incrementi stabiliti dai successivi CCNL 27.2.1997 e 23.12.1999;

13.1. il quarto motivo di ricorso è inammissibile
nella parte in cui fa leva su documenti non trascritti in ricorso per sostenere
che la valutazione dei dirigenti sarebbe stata validamente effettuata dal
Direttore Generale, ed è infondato quanto ai presupposti giuridici della censura
proposta, perché in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n.
286/1999, l’istituzione del nucleo di valutazione era già imposta dall’art. 20 del d.lgs. n. 29/1993,
al quale rinviava l’art. 23 del
CCNL 1994/1997;

13.2. parimenti infondata è la terza critica con la
quale si sostiene che la retribuzione di posizione doveva essere riconosciuta,
in misura pari a quella di fatto attribuita, quanto meno dal 23 maggio 2000,
perché le parti collettive avevano previsto detta data quale termine finale per
l’applicazione del regime transitorio;

13.3. si è già detto che i commi 1 e 2 dell’art. 31
del CCNL 23.12.1999 stabiliscono un ulteriore incremento dell’indennità di
funzione di cui all’art. 38 del
d.P.R. 333/1990, richiamata dall’art. 39, comma 5, del CCNL
1994/1997 e, quindi, conferiscono ultrattività al regime transitorio, non
smentita, bensì confermata, dal comma 3 dello stesso art. 31, secondo cui «Gli enti
di cui ai commi 1 e 2, si impegnano ad assumere, secondo i rispettivi
ordinamenti, tutte le iniziative necessarie perché le condizioni indicate nell’art. 38, comma 3, del CCNL del
10.4.1996 siano realizzate integralmente entro il termine di sei mesi dalla
data di stipulazione del presente CCNL»;

13.4. la disposizione in parola non fissa un termine
per il necessario passaggio dall’uno all’altro sistema di quantificazione della
retribuzione di posizione e pone a carico dell’ente, non l’obbligo di
assicurare senz’altro la realizzazione entro il 23 maggio 2000 delle condizioni
di cui all’art. 38, comma 3, del
CCNL 1994/1997 ( va rammentato che fra queste rientrava anche quella di
essere ente non dissestato e non strutturalmente deficitario), ma solo quello
di “assumere le iniziative necessarie”, sicché sullo spirare del
termine non si può fare leva per pretendere la conservazione della retribuzione
di posizione nella misura illegittimamente liquidata, tanto più che, come
accertato dai giudici di merito, nella fattispecie l’illegittimità discende non
dalla sola insussistenza dei presupposti richiesti dal richiamato art. 38, bensì da una pluralità
di violazioni della disciplina contrattuale, ignorata nella sua interezza;

13.5. non va dimenticato, infatti, che la Corte
territoriale, all’esito dell’accertamento di fatto non censurabile in questa
sede, ha evidenziato che l’ente, oltre a non avere istituito il Nucleo di
Valutazione, non aveva neppure costituito il Fondo per la retribuzione di
posizione e di risultato, che, come si desume già dall’incipit dell’art. 39 del CCNL 1994/1997,
nonché dall’analitica disciplina dettata dagli artt. 37 e 38 dello stesso CCNL,
è condizione imprescindibile per l’erogazione del trattamento accessorio del
personale dirigenziale;

14. il terzo motivo è infondato anche nella parte in
cui sostiene che doveva essere accolta la domanda risarcitoria e, poiché il
danno andava quantificato in misura pari alle somme erogate in difetto delle
condizioni richieste dalla contrattazione collettiva, non poteva il Comune
pretendere in restituzione alcunché;

14.1. la censura non può essere accolta, sia perché
si fonda su un presupposto assolutamente indimostrato, ossia che in caso di
rispetto delle procedure e delle condizioni richieste dai CCNL succedutisi nel
tempo la retribuzione di posizione e di risultato sarebbe stata corrisposta negli
importi illegittimamente attribuiti, sia perché nella specie si è in presenza
di accordi individuali stipulati con i dirigenti (pag. 40 del ricorso e pag. 27
del controricorso) sicché si applicano le disposizioni generali dettate per le
nullità negoziali dagli artt. 1338 e 1339 cod. civ. in forza delle quali, nei casi in
cui la disciplina del rapporto venga ricondotta a quella prevista da norme
inderogabili fissate dalla legge o dal contratto collettivo, una pretesa
risarcitoria può essere fatta valere solo dalla parte che, senza colpa, abbia
confidato sulla validità del negozio o della clausola;

14.2. l’art. 1338 cod.
civ., applicabile a tutte le ipotesi di invalidità, anche parziale, e di
inefficacia (Cass. n. 16149/2010), fissa i limiti entro i quali va tutelato il
legittimo affidamento del contraente che non abbia dato causa alla nullità
della pattuizione e questa Corte ha ritenuto, con orientamento ormai
consolidato, che nessuna pretesa risarcitoria può essere avanzata qualora
l’invalidità sia determinata dalla violazione di una norma imperativa o
proibitiva di legge che, per presunzione assoluta, debba essere conosciuta
dalla generalità dei cittadini (Cass. n. 10156/2016), a condizione che le
circostanze di fatto cui la legge ricollega l’invalidità fossero conosciute o
conoscibili dal soggetto «mediamente avveduto» ( Cass. n. 9636/2015);

14.3. nella specie, pertanto, è sufficiente il
richiamo a detto principio di diritto per escludere che la determinazione del
trattamento accessorio in palese violazione delle disposizioni di legge e di
contratto possa avere ingenerato un affidamento incolpevole del dirigente nella
validità dell’accordo individualmente concluso;

15. il quinto motivo è parimenti infondato per le
ragioni indicate al punto 13.5. sicché, 
una volta rigettate le prime cinque censure, diviene inammissibile il
sesto motivo inerente gli spazi di intervento della contrattazione decentrata,
posto che i profili di illegittimità sin qui evidenziati sono sufficienti per
escludere la fondatezza delle originarie 
domande proposte dal ricorrente e rigettate dai giudici di merito;

15.1. ciò in forza del principio secondo cui,
qualora la sentenza impugnata si fondi su una pluralità di argomenti, ciascuno
sufficiente a sorreggere la pronuncia di rigetto o di accoglimento della
domanda, la ritenuta infondatezza delle censure mosse anche solo ad una delle
ragioni impugnate fa venir meno l’interesse alla pronuncia sugli ulteriori
motivi, la cui eventuale fondatezza non potrebbe in nessun caso determinare la
cassazione della sentenza impugnata ( cfr. fra le tante Cass. n. 15399/2018; Cass. n. 11493/2018);

16. infine inammissibile è il settimo motivo,
formulato avverso il capo della decisione con il quale è stato escluso che il
superamento del tetto massimo previsto dall’art. 27 del CCNL 23.12.1999
potesse essere giustificato dalla direzione di una struttura organizzativa
complessa, composta da due settori di grande rilevanza;

16.1. la censura non coglie la ratio decidendi
perché il giudice d’appello, nel richiamare altro precedente della stessa Corte
pronunciato fra le medesime parti, non ha affermato che si era formato
giudicato esterno sulla natura dell’incarico attribuito all’appellante, sicché
il richiamo va inteso come mero rinvio per relationem alla motivazione del
precedente, consentito ex art. 118 disp. att. cod.
proc. civ. (Cass. n. 17640/2016 e Cass. n. 2861/2019);

16.2. si aggiunga che questa Corte con ordinanza n.
24359/2017 ha rigettato il ricorso proposto avverso la sentenza citata nella
decisione qui impugnata ed ha ritenuto infondato anche il motivo con il quale
era stata prospettata la violazione dell’art. 27 del CCNL 23.12.1999 in
ragione della complessità della struttura diretta;

16.3. l’esistenza del giudicato esterno è rilevabile
d’ufficio in ogni stato e grado del processo anche nell’ipotesi in cui il
giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza
impugnata, trattandosi di un elemento che può essere assimilato agli elementi
normativi astratti, in quanto destinato a fissare la regola del caso concreto;
il suo accertamento, pertanto, non costituisce patrimonio esclusivo delle
parti,  ma, mirando ad evitare la
formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del ne bis in
idem, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione
primaria del processo e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle
situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione ( Cass. n. 16847/2018);

16.4. è stato, inoltre, precisato che qualora il
giudicato si formi in pendenza del giudizio di legittimità ed in conseguenza
della pronuncia della sentenza della stessa Corte di cassazione « la cognizione
del giudice di legittimità può avvenire anche mediante quell’attività di
ricerca (relazioni, massime ufficiali e consultazione del CED) che costituisce
corredo del collegio giudicante nell’adempimento della funzione nomofilattica
di cui all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario e del dovere di prevenire contrasti
tra giudicati» ( Cass. n. 24740/2015 e negli stessi termini Cass. n.
18634/2017);

17. in via conclusiva il ricorso deve essere
rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo;

18. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n.
228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U.
n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla
legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in € 200,00 per
esborsi ed € 8.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese
generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 maggio 2021, n. 11645
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