Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 maggio 2021, n. 12644

Rapporto di lavoro, Personale ATA, Riconoscimento
dell’intera anzianità di servizio maturata presso l’ente locale di provenienza
– Riduzione sostanziale del trattamento retributivo, Accertamento

Rilevato che

1. la Corte d’Appello di Bologna, giudice del rinvio
a seguito della sentenza di questa Corte n. 12031/2012, ha riformato la
sentenza n. 584/2005 con la quale il Tribunale di Rovigo aveva accolto il
ricorso proposto da N.F., appartenente al personale amministrativo, tecnico ed
ausiliario della scuola (ATA), ed aveva dichiarato il diritto del ricorrente ex
art. 8, comma 2, della legge n.
124/1999 al riconoscimento a fini giuridici ed economici dell’intera
anzianità di servizio maturata presso l’ente locale di provenienza,
condannando, di conseguenza, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e
della Ricerca al pagamento delle differenze retributive con decorrenza dal
gennaio 2000;

2. la Corte territoriale, riassunti i fatti di
causa, ha premesso che la sentenza rescindente, con la quale era stata cassata
la sentenza n. 759/2007 della Corte d’Appello di Venezia che aveva rigettato la
domanda, aveva demandato al giudice del rinvio di accertare se al momento del
passaggio dall’ente locale allo Stato si fosse verificata una riduzione
sostanziale del trattamento retributivo ed aveva precisato che il confronto
doveva essere globale, cioè non limitato ad uno specifico istituto, e che non
potevano assumere rilievo eventuali disparità di trattamento con i lavoratori
già in servizio presso il cessionario;

3. la Corte bolognese ha rilevato che con
l’originario ricorso introduttivo la causa petendi dell’azione era stata
individuata nel mancato riconoscimento integrale dell’anzianità di servizio e
nessuna censura era stata mossa alla quantificazione dell’assegno ad personam,
effettuata sulla base di quanto previsto dall’art. 3 dell’Accordo ARAN del
20.7.2000;

4. solo nell’atto di riassunzione il ricorrente
aveva dedotto di avere subito un peggioramento sostanziale perché
l’amministrazione non aveva tenuto conto di istituti contrattuali previsti per
il personale del comparto enti locali e non aveva incluso nella  base di calcolo dell’assegno le somme
corrisposte ai dipendenti a titolo di premio incentivante, indennità di
rischio, LED e buoni pasto;

5. il giudice del rinvio ha ritenuto tardive dette
allegazioni ed ha precisato che la direttiva
77/187/CEE non poteva essere invocata per ottenere il miglioramento
retributivo derivante dalla combinazione della pregressa anzianità raggiunta da
presso l’ente di provenienza ed il diverso sistema contrattuale in tema di
progressione retributiva applicato dall’ente di destinazione;

6. ha aggiunto che era stato prospettato un nuovo
tema di indagine in quanto l’atto di riassunzione implicava l’ampliamento del
thema decidendum, ossia l’esame della disciplina contrattuale del comparto di
provenienza finalizzato ad accertare la natura ed il carattere non occasionale
delle indennità non confluite nell’assegno;

7. per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso N. F. sulla base di quattordici motivi, illustrati da memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ., ai quali il MIUR
ha opposto difese con controricorso, mentre è rimasto intimato l’Ufficio
scolastico Regionale per il Veneto.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione degli
artt. 384 e 437
cod. proc. civ., ed addebita alla Corte territoriale di essersi sottratta
al «duplice dictum» della sentenza rescindente, con la quale era stato
demandato al giudice del rinvio di accertare se la legge
n. 266/2005 fosse stata applicata in modo da salvaguardare il trattamento
economico complessivo maturato nel 1999 ed era stato precisato anche che, in
caso di violazione del divieto di reformatio in peius, la Corte d’appello
avrebbe dovuto applicare, ai fini dell’inquadramento, l’art. 8 della legge n. 124/1999;

il ricorrente evidenzia che la sentenza della Corte di
Giustizia era intervenuta quando già la causa era pendente e, pertanto, il
giudice avrebbe dovuto anche d’ufficio accertare se ci fosse stato un non
consentito peggioramento retributivo;

2. la violazione dell’art.
437 cod. proc. civ. è denunciata, sotto altro profilo, con la seconda
censura con la quale si sostiene che, contrariamente a quanto asserito dalla
Corte territoriale, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado era
stato allegato l’abbassamento del trattamento retributivo rispetto a quello
goduto nell’anno 1999 ed era stata domandata anche la conservazione di tutti i
diritti economici e giuridici maturati; 
il ricorrente ribadisce, inoltre, che il divieto di nova in appello non
può operare in presenza di uno ius superveniens incidente sulla posizione delle
parti e sulle loro pretese;

3. la terza critica addebita al giudice del rinvio
«error in procedendo nella interpretazione delle domande promosse nei ricorsi 414 c.p.c, violazione degli artt. 1362 e 1363 del
c.c.» perché il peggioramento retributivo era stato dedotto già
nell’originario atto introduttivo del giudizio;

4. il quarto motivo, formulato ai sensi dei nn. 3 e
5 dell’art. 360 cod. proc. civ., denuncia la
mancanza assoluta di motivazione nonché la violazione degli artt. 8 della legge n. 124/1999,
132 cod. proc. civ., 111
Cost.; il ricorrente deduce che la Corte territoriale non ha spiegato le
ragioni per le quali ha respinto la domanda di inquadramento formulata con il
ricorso in riassunzione e ribadisce che, una volta effettuata la comparazione
tenendo conto anche del premio incentivante e dell’indennità di rischio, in
caso di accertato peggioramento andava applicato il criterio dell’anzianità;

5. la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 218, della legge n.
266/05, della direttiva 77/187, dell’art. 8 della legge n. 124/1999,
dell’art. 34 del d.lgs. n. 29/1993 è denunciata, unitamente all’omesso esame di
fatto decisivo per il giudizio, con il quinto motivo con il quale si sostiene
che la mancata considerazione del premio incentivante, ha determinato la
violazione delle norme richiamate in rubrica ed ha impedito la conservazione
del trattamento economico complessivo goduto in precedenza;

6. considerazioni analoghe a quelle sopra riassunte
il ricorrente svolge nel sesto motivo «sulla ulteriore violazione dell’art. 1 della legge n. 266/2005»
con il quale insiste nel sostenere che la Corte d’Appello avrebbe dovuto
accertare la classe stipendiale di inquadramento tenendo conto di tutte le voci
retributive dell’anno 1999;

7. la settima censura torna a denunciare la
violazione dell’art. 1 della legge
n. 266/2005 unitamente alla violazione dell’art. 437 cod. proc. civ., del
principio di non contestazione, dell’art. 115 cod. proc. civ. perché il
Ministero non aveva mai specificamente contestato i conteggi che evidenziavano
il peggioramento retributivo derivato dall’omessa valutazione, in sede di
inquadramento, del compenso incentivante e dell’indennità di rischio;

al riguardo, infatti, il resistente si era limitato
a sostenere che al momento del passaggio erano state considerate tutte le voci
contrattuali previste dall’accordo ARAN dell’anno 2000;

8. con l’ottavo motivo si denuncia, ai sensi
dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., omessa pronuncia e violazione dell’art. 112
cod. proc. civ. in relazione ai motivi 3, 4 e 5 dell’atto di riassunzione, con
i quali era stata domandata la disapplicazione della legge
n. 266/2005 per violazione degli artt. 47 e 52 della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea;

9. la nona censura addebita alla sentenza impugnata
la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (
CEDU) e dell’art. 1 del protocollo 1 alla stessa allegato nonché degli artt. 47
e 52, n. 3, della Carta di Nizza del 7.12.2000 perché la Corte territoriale
avrebbe dovuto disapplicare la norma di interpretazione autentica, alla luce
delle plurime pronunce rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, da
ultimo con la sentenza del 9 settembre 2014 Caligiuri ed altri contro Italia;

10. considerazioni analoghe vengono svolte con il
decimo motivo che denuncia la violazione dell’art. 6, n. 2, del Trattato
sull’Unione Europea nonché dei principi della certezza del diritto, della
tutela del legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, del
diritto ad un Tribunale indipendente, recepiti come principi generali del
diritto dell’Unione;

11. con l’undicesimo motivo, intitolato «violazione
dei principi di tutela giurisdizionale effettiva e di equivalenza, dell’art.
19, commal, del T.U.E., dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali,
dell’art. 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, del principio di
collaborazione», il ricorrente assume che il giudice del rinvio, nel rigettare
la domanda per la novità delle allegazioni, gli aveva impedito di far valere
diritti garantiti dalla normativa comunitaria, normativa che andava applicata,
a prescindere dalle deduzioni dell’atto introduttivo della lite, perché alla
data di deposito del ricorso non era prevedibile lo ius superveniens;

12. in via subordinata, con il dodicesimo motivo,
formula istanza di rinnessione alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 234
CE sulle questioni prospettate nei motivi 8, 10 e 11;

13. la tredicesima critica assume che la sentenza
gravata avrebbe violato l’art. 117 Cost., l’art. 1 del protocollo 1 allegato
alla CEDU e l’art. 46 CEDU e sollecita il Collegio e rimettere nuovamente alla
Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 218, della legge n.
266/2005;

14. infine il quattordicesimo motivo denuncia la
violazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 116 cod. proc. civ. perché
l’onere di provare il rispetto del divieto di reformatio in peius grava sul
Ministero che non l’aveva assolto, non avendo dimostrato di avere garantito al
dipendente la conservazione del trattamento economico acquisito;

15. preliminarmente rileva il Collegio che non può
essere accolta l’istanza, formulata nell’intestazione della memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ., di discussione
orale e di fissazione dell’udienza pubblica;

15.1. il procedimento per la decisione in camera di
consiglio dinanzi alla sezione semplice, disciplinato (all’esito delle
modifiche apportate al codice di rito dal d.l. n.
168/2016, convertito nella legge n. 197/2016) dagli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1 cod. proc. civ., non va confuso con
quello previsto dagli artt. 376, 375, comma 1, e 380
bis, per i casi di inammissibilità o di manifesta fondatezza o infondatezza
del ricorso, perché il legislatore ha affiancato alla procedura camerale,
finalizzata ad accertare la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 375, comma 1, nn. 1 e 5, la pronuncia con
ordinanza in camera di consiglio, alla quale la sezione semplice può fare ricorso
«in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa
opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale
deve pronunciare, ovvero che il ricorso sia stato rimesso dall’apposita sezione
di cui all’articolo 376 in esito alla camera di
consiglio che non ha definito il giudizio» ( art.
375, ultimo comma, cod. proc. civ.);

15.2. nessuna delle condizioni ostative ricorre
nella fattispecie nella quale si prospettano questioni già esaminate dal
Collegio e che possono essere decise sulla base di principi ormai consolidati
nella giurisprudenza di questa Corte;

16. il ricorso deve essere rigettato, con correzione
della motivazione della sentenza impugnata ex art.
384, comma 4, cod. proc. civ., per le medesime ragioni evidenziate con le
recenti ordinanze nn. 14892, 22996 e 23382 del 2020, pronunciate in fattispecie
analoghe a quella oggetto di causa, ed alla cui motivazione si rinvia ex art. 118 disp. att. cod. proc. civ.;

17. occorre premettere che, in caso di ricorso
proposto avverso la sentenza emessa in sede di rinvio, ove sia in discussione
la portata del decisum della pronuncia rescindente, la Corte di cassazione, nel
verificare se il giudice di rinvio si sia uniformato al principio di diritto da
essa enunciato, deve interpretare la propria sentenza in relazione alla
questione decisa ed al contenuto della domanda proposta in giudizio dalla parte
(Cass. n. 3955/2018);

18. nel caso di specie questa Corte, con la sentenza
n. 12031/2012, non ha affatto demandato al giudice del rinvio di verificare se
l’inquadramento disposto dal MIUR in base all’accordo sindacale del 20 luglio
2000 fosse o meno conforme alla sopravvenuta legge n. 266/2005, art. 1, comma 218,
né ha affermato che, in caso di accertata reformatio in peius, doveva essere
integralmente riconosciuta l’anzianità posseduta, perché ha chiesto solo al
giudice del merito di «verificare la sussistenza o meno di un peggioramento
retributivo sostanziale all’atto del trasferimento» ed i criteri fissati ai
fini della comparazione sono solo quelli indicati al punto 12 della pronuncia,
ove si precisa che il confronto deve essere globale, riferito al momento del
passaggio, e che non rilevano eventuali disparità di trattamento con i
dipendenti già in servizio presso il cessionario;

18.1. la sentenza rescindente non ha posto alcun
altro limite all’esame demandato al giudice del rinvio e, in particolare, non
ha indicato quali fossero le componenti del trattamento economico fondamentale
e accessorio da apprezzare ai fini della comparazione «globale», giacché al
punto 20 della decisione si è limitata a sottolineare, «per completezza» e per
escludere che l’accoglimento della domanda fosse conseguenza obbligata di
quanto statuito dalla Corte EDU con la pronuncia Agrati, che alla Corte la
questione non era stata compiutamente rappresentata, in quanto i ricorrenti
avevano sostenuto di avere perso «tutti gli elementi accessori della
retribuzione» mentre, al contrario, ove il trattamento accessorio era venuto
specificamente in rilievo, la domanda finalizzata ad ottenerne la conservazione
era stata accolta;

18.2. su detto passaggio motivazionale il ricorrente
non può fare leva per sostenere che al giudice del rinvio sarebbe stato imposto
di considerare ai fini della comparazione le voci che vengono specificamente in
rilievo in questa sede, perché l’indagine demandata era solo quella indicata
nei punti 12 e 21, che non aggiungono altre precisazioni quanto al concetto di
«condizioni meno favorevoli»;

19. ciò detto osserva il Collegio che la Corte
territoriale ha indubbiamente errato nel ritenere la novità delle allegazioni
del ricorso in riassunzione, perché il principio del carattere chiuso del
giudizio di rinvio non può operare nei casi in cui le nuove attività assertive
e probatorie siano rese necessarie dalla sopravvenienza, in corso di causa, di
una nuova disciplina di legge applicabile anche ai giudizi in corso, di una
pronuncia di illegittimità costituzionale, ed in genere di ius superveniens,
del quale la sentenza rescindente abbia fatto applicazione ( Cass. n.
14892/2020 che richiama Cass. n. 34209/2019,
Cass. n. 10845/2017, Cass. n. 13458/2016, Cass. n. 422/2014);

20. tuttavia l’errore commesso dalla Corte
territoriale non giustifica la cassazione della pronuncia ed un nuovo giudizio
di rinvio, perché le allegazioni sulle quali il ricorrente fa leva per
sostenere la tesi del peggioramento retributivo sostanziale, non sono idonee
allo scopo, e ciò a prescindere dalla loro verifica in fatto;

20.1. un peggioramento «sostanziale», impedito dalla
tutela che la direttiva eurounitaria riconosce ai lavoratori coinvolti nel
trasferimento d’impresa, è ravvisabile solo qualora, all’esito della
comparazione globale, emerga una diminuzione «certa» del compenso che sarebbe
stato corrisposto qualora il rapporto fosse proseguito con il cedente nelle
medesime condizioni lavorative, sicché non possono essere apprezzati gli
importi, che se pure occasionalmente versati prima del passaggio, non
costituivano il «normale» corrispettivo della prestazione, perché, in quanto
legati a variabili inerenti alle modalità qualitative e quantitative di
quest’ultima, non erano entrati nel patrimonio del lavoratore, che sugli stessi
non avrebbe potuto fare sicuro affidamento neppure qualora la vicenda
modificativa non fosse stata realizzata;

20.2. il principio di irriducibilità della
retribuzione, che questa Corte ha precisato nei termini sopra indicati (cfr.
fra le tante Cass. n. 29247/2017; Cass. n. 4317/2012;
Cass. n. 20310/2008), non si atteggia diversamente nei casi di modificazione
soggettiva del rapporto perché, se la direttiva
77/187 «non può essere validamente invocata per ottenere un miglioramento
delle condizioni retributive o di altre condizioni lavorative in occasione di
un trasferimento di impresa» (punto 77 sentenza Scattolon), non possono essere
opposti al cessionario limiti ulteriori rispetto a quelli che valevano, prima
della cessione, per il datore di lavoro cedente;

20.3. ciò detto rileva il Collegio che nel ricorso e
nella memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ.
il ricorrente, per sostenere la tesi di un peggioramento sostanziale,
verificatosi nonostante il riconoscimento dell’assegno personale, fa leva su
voci del trattamento accessorio e su istituti contrattuali che, a prescindere
dall’accertamento in fatto e dalla rilevanza nella fattispecie (non vi è
corrispondenza fra le argomentazioni sviluppate nel ricorso ed il prospetto
riportato a pagina 17 nel quale si evidenziano le componenti non valutate
dall’amministrazione), non possono essere apprezzati, o perché si prospetta
un’interpretazione erronea della contrattazione collettiva per il personale del
comparto degli enti locali, o in quanto si tratta di voci prive dei requisiti
di fissità e di continuità, che devono ricorrere ai fini del rispetto del
divieto di reformatio in peius;

20.4. deve essere qui ribadito il principio di
diritto già affermato da Cass. nn. 3663, 6345, 7470 del 2019 secondo cui i
premi ed i compensi incentivanti previsti dagli artt. 17 e 18 del CCNL 1°
aprile 1999 per il personale del comparto regioni ed enti locali non possono
avere rilevanza ai fini del cd. maturato economico, perché si tratta di voci
del trattamento accessorio correlate ad effettivi incrementi di produttività e
di miglioramento dei servizi, ossia di emolumenti non certi nell’an e nel
quantum;

20.5. quanto all’indennità di rischio, occorre
evidenziare che la tabella b allegata al d.P.R. n. 347/1983, richiamato
dall’art. 31 del CCNL 6.7.1995 e superato solo dall’art. 37 del CCNL 14.9.2000,
individua specificamente le attività comportanti l’attribuzione dell’indennità
in ragione dell’esposizione a fattori nocivi, attività fra le quali non
rientrano le mansioni espletate dal personale ATA all’interno degli istituti
scolastici, come desumibili dalla declaratoria dei relativi profili
professionali;

20.6. parimenti nessun rilievo può essere attribuito
all’asserita mancata considerazione del LED – Livello Economico Differenziato –
perché anche in tal caso il ricorrente fa leva su un’interpretazione non
corretta della contrattazione collettiva per il personale del comparto enti
locali che, a partire dall’adozione del nuovo sistema di classificazione del
personale avvenuta con il CCNL 31.3.1999 ( quindi in epoca antecedente il
passaggio nei ruoli dello Sato), ha previsto ( art. 7, comma 2, del CCNL 1999)
l’assorbimento nel trattamento economico fondamentale delle «voci retributive
stipendio tabellare e livello economico differenziato di cui all’art. 28, comma
1, del CCNL del 6.7.1995» che, quindi, hanno perso autonomia e sono state
ricomprese a tutti gli effetti nel trattamento valutato dall’amministrazione al
momento del passaggio;

20.7. infine va rammentato che nell’impiego pubblico
contrattualizzato l’attribuzione del buono pasto ha carattere assistenziale, è
legata ad una particolare articolazione dell’orario di lavoro e non riguarda né
la durata né la retribuzione del lavoro ( cfr. Cass.
n. 31137/2019);

20.8. ne discende che i motivi dal primo al settimo,
tutti incentrati sull’errore commesso dal giudice del rinvio e sul mancato
apprezzamento di un peggioramento sostanziale, che si assume provato attraverso
la produzione documentale, non possono trovare accoglimento ex art. 384, comma 4, cod. proc. civ., in quanto il
dispositivo di rigetto della domanda è comunque conforme a diritto e può la
Corte limitarsi a correggere la motivazione erronea della pronuncia;

21. quanto agli ulteriori motivi, le ragioni di
rigetto o di inammissibilità delle censure vanno tratte dalla motivazione della
citata Cass. n. 14892/2020, già richiamata ex art.
118 disp. att. cod. proc. civ., che ha respinto analoghi ricorsi e con la
quale, in sintesi, si è evidenziato che:

a) la verifica della conformità di una norma di
legge alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea non costituisce oggetto di domanda ex art.
112 cod. proc. civ., sicché rispetto alla stessa non è configurabile il
vizio di omessa pronuncia;

b) l’art.
6, paragrafo 3, TUE non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto
tra una norma di diritto nazionale e la CEDU, di applicare direttamente le
disposizioni di quest’ultima, perché un problema di rispetto dei principi
generali dell’Unione europea si può porre solo nell’interpretazione e nell’applicazione
del diritto dell’Unione stessa, con la conseguenza che, una volta applicata la direttiva 1977/187/CEE nei termini indicati
dalla  sentenza CGUE 6.9.2011, Scattolon,
ogni contrasto risulta superato;

c) l’obbligo per il giudice nazionale di ultima
istanza di rimettere la causa alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267, comma 3, del TFUE,
viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale
sulla normativa europea, perché sulla questione stessa la Corte si è già
pronunciata o anche in ragione dell’evidenza dell’interpretazione (punto 38
della cit. Cass. n. 14892/2020 e la giurisprudenza ivi richiamata);

d) le sentenze della Corte EDU successive a quella
del 7 giugno 2011, Agrati, non hanno innovato il quadro della vicenda già
apprezzato da questa Corte, che ha costantemente ritenuto (cfr. fra le tante
Cass. n. 7859/2019, Cass. n. 4437/2019, Cass. n. 3016/2018) non fondata la
questione di legittimità costituzionale della normativa di interpretazione
autentica, rilevando che il giudice delle leggi, affermata la propria
competenza a compiere la valutazione, ha già ritenuto sussistenti imperativi
motivi di interesse generale che, secondo la stessa Corte di Strasburgo,
permettono al legislatore di intervenire sul processo in corso;

e) una volta corretta la motivazione della sentenza
gravata, non è ravvisabile la denunciata violazione dei principi richiamati
nell’undicesimo motivo;

f) è inammissibile la censura di violazione dell’art. 2697 cod. civ. perché la Corte territoriale
non ha deciso la controversia sulla base di un’erronea attribuzione dell’onere
della prova ed il rigetto della domanda, una volta corretta la motivazione,
discende dall’applicazione di principi di diritto, che portano ad escludere il
lamentato peggioramento retributivo sostanziale;

22. la memoria depositata ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ., con la quale il
ricorrente, nel contestare l’iter argomentativo sopra sintetizzato insiste nel
sollecitare in primis l’esercizio del potere di disapplicazione e, in via
subordinata, una nuova rinnessione degli atti alla Corte Costituzionale, svolge
considerazioni che, seppure maggiormente sviluppate rispetto all’atto
introduttivo del giudizio di legittimità, non inseriscono elementi di novità né
giustificano un ripensamento degli orientamenti già espressi da questa Corte;

22.1. quanto alla necessità di disapplicare la legge
di interpretazione autentica, in ragione della violazione degli artt. 47 e 52 della CDFUE, i ricorrenti
muovono da una lettura non corretta del punto 84 della sentenza 6.9.2011 in causa c-108/10, perché la
questione dell’ipotizzata violazione dell’art. 47 è stata ritenuta
assorbita in ragione del principio, affermato esplicitamente in altre pronunce
della Corte di Giustizia, secondo cui ai sensi dell’art. 51 della Carta, il
collegamento con il diritto dell’Unione dell’atto di diritto interno contestato
richiede, non solo che la misura nazionale ricada in un settore nel quale
l’Unione è competente, ma anche che la stessa incida direttamente sulla
normativa eurounitaria e si ponga in contrasto con gli obiettivi che questa
persegue;

22.2. è stato, pertanto, evidenziato che i diritti
fondamentali dell’Unione non possono essere applicati ad una normativa
nazionale qualora, in relazione alla situazione oggetto  del procedimento principale, le disposizioni
dell’Unione non pongono alcun obbligo specifico agli Stati membri (Corte di
Giustizia 16.7.2020 in causa C – 686/18 punti da 52 a 54 e la giurisprudenza
ivi richiamata; negli stessi termini Corte di Giustizia 4.6.2020 in causa C –
32/20 punti da 25 a 27);

22.3. con la sentenza Scattolon la Corte ha chiarito
che la direttiva 77/187 ha il solo scopo di evitare che i lavoratori siano
collocati per effetto del trasferimento in una posizione sfavorevole rispetto a
quella di cui godevano precedentemente e non può essere invocata per ottenere
un miglioramento delle condizioni retributive, sicché il collegamento con il
diritto dell’Unione, da intendere nei termini precisati nei punti che
precedono, opera solo a fronte di disposizioni che si pongano in contrasto con
l’obiettivo della direttiva e, quanto alle condizioni di lavoro ed al trattamento
retributivo, non è più predicabile qualora, come è stato verificato nella
fattispecie, l’irriducibilità sia garantita e l’operatività dei principi della
Carta venga invocata per ottenere un effetto finale che esula dalle tutele
assicurate dal diritto dell’Unione;

23. analogamente il Collegio, nel ribadire
l’orientamento consolidato già espresso, non ritiene che le pronunce della
Corte EDU costituiscano una sopravvenienza idonea a giustificare l’attivazione
del procedimento incidentale di legittimità costituzionale in relazione ad una
norma di legge la cui legittimità è stata scrutinata dalla Corte Costituzionale
in più pronunce ( Corte Cost. nn. 234 e 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009);

23.1. in altra vicenda che, quanto ai rapporti fra
le Corti superiori, presenta profili di affinità a quella oggetto di causa, il
Giudice delle leggi ha ribadito che il vincolo derivante dalle sentenze della
Corte EDU attiene all’interpretazione della norma convenzionale, ma non si
estende alla valutazione espressa sulla sussistenza di motivi imperativi di
interesse generale, che solo la Corte Costituzionale può compiere perché essa,
a differenza della Corte di Strasburgo «opera una valutazione sistemica e non
isolata dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è
quindi tenuta al bilanciamento, solo ad essa spettante » ( Corte Cost. n. 264/2012; va segnalato che la
stessa Corte, nuovamente adita a seguito della sopravvenienza di ulteriore
pronuncia della Corte EDU, con la sentenza n.
166/2017 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità
costituzionale della legge di interpretazione autentica dettata dall’art. 1, comma 777, della legge n.
296/2006, prospettata questa volta in relazione alla violazione non dell’articolo 6 della CEDU, bensì
dell’art. 1 del Protocollo addizionale, in una fattispecie nella quale la norma
interpretativa aveva inciso, riducendola, sull’entità della pensione già
corrisposta agli aventi diritto);

23.2. va, poi, ricordato che la Corte Costituzionale
con la sentenza n. 311/2009, oltre a valutare la conformità della legge di
interpretazione autentica in relazione al parametro invocato ( art. 117 Cost. in relazione all’art. 6 della CEDU)
ha anche ribadito principi già affermati con la sentenza
n. 234/2007, che aveva, da un lato, evidenziato la valenza generale del
criterio del maturato economico, introdotto già dalla legge n. 312/1980,
dall’altro la necessità di un’interpretazione dell’art. 8 della legge n. 124/1999
che, senza determinare una reformatio in malam partem di una situazione
patrimoniale in precedenza acquisita, tenesse anche conto della disciplina
dettata per l’impiego pubblico e dell’invarianza della spesa, imposta dalla
stessa legge n. 124/1999 ai fini del rispetto
dell’art. 81 Cost., invarianza della quale le
parti collettive si erano poi fatte carico;

23.3. la Corte, quindi, nelle pronunce citate, sia
pure in relazione ad altri parametri invocati dai giudici rimettenti, ha
espresso considerazioni anche in relazione al legittimo affidamento, dalle
quali può desumersi la manifesta infondatezza della questione riproposta in
questa sede dal ricorrente;

24. d’altro canto non risponde neppure al vero che
al personale ATA interessato dal trasferimento di attività sarebbe stato
assicurato un trattamento deteriore rispetto a quello riconosciuto alla
generalità dei dipendenti pubblici dall’art. 31 del d.lgs. n. 165/2001
e dall’art. 2112 cod. civ. perché, al
contrario, anche in relazione ad altri trasferimenti questa Corte ha affermato
che le disposizioni normative e contrattuali finalizzate a garantire il
mantenimento del trattamento economico e normativo acquisito, non implicano la
totale parificazione del lavoratore trasferito ai dipendenti già in servizio
presso il datore di lavoro di destinazione, in quanto la prosecuzione giuridica
del rapporto se, da un lato, rende operante il divieto di reformatio in peius,
dall’altro non fa venir meno la diversità fra le due fasi di svolgimento del
rapporto medesimo, diversità che può essere valorizzata dal nuovo datore di
lavoro, sempre che il trattamento differenziato non implichi la mortificazione
di un diritto già acquisito dal lavoratore;

24.1. muovendo da detta premessa si è evidenziato
che l’anzianità di servizio, che di per sé non costituisce un diritto che il
lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere
salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino
benefici economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità
comporterebbe un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto
dal lavoratore trasferito (Cass. n. 18220/2015; Cass. n. 25021/2014; Cass. n.
22745/2011; Cass. n. 10933/2011; Cass. S.U. n. 22800/2010; Cass. n.
17081/2007);

24.2. l’anzianità pregressa, invece, non può essere
fatta valere da quest’ultimo per rivendicare ricostruzioni di carriera sulla
base della diversa disciplina applicabile al cessionario (Cass. S.U. n.
22800/2010 e Cass. n. 25021/2014), né può essere opposta al nuovo datore per
ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perché
l’ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti già entrati nel
patrimonio del lavoratore alla data della cessione del contratto, non delle
mere aspettative ( cfr. fra le più recenti Cass. n. 4389/2020 e quanto agli
scatti di anzianità Cass. n. 32070/2019);

24.3. corollario di detto principio è quello,
egualmente consolidato da tempo nella giurisprudenza di questa Corte, secondo
cui in caso di passaggio di personale conseguente al trasferimento di attività
concorrono a formare la base di calcolo ai fini della quantificazione
dell’assegno personale le voci retributive corrisposte in misura fissa e
continuativa, non già gli emolumenti variabili o provvisori sui quali, per il
loro carattere di precarietà e di accidentalità il dipendente non può riporre
affidamento, o perché connessi a particolari situazioni di lavoro o in quanto
derivanti dal raggiungimento di specifici obiettivi e condizionati,
nell’ammontare, da stanziamenti per i quali è richiesto il previo giudizio di
compatibilità con le esigenze finanziarie dell’amministrazione ( cfr. fra le
tante Cass. n. 31148/2018; Cass. n. 18196/2017; Cass. n. 3865/2012);

25. il ricorso, in via conclusiva, deve essere
rigettato ed alla soccombenza segue la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

26. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti
indicati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni
processuali richieste dall’art. 13,
comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 3.500,00
oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 maggio 2021, n. 12644
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