Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 maggio 2021, n. 13536

Demansionamento, Pregiudizi alla salute patiti in seguito al
mutamento di mansioni, Onere probatorio del lavoratore

 

Rilevato

 

che, con sentenza resa ¡1 15.12.2010, il Tribunale
di Napoli, accogliendo il ricorso proposto da C.R., nei confronti di T.I.
S.p.A., ha riconosciuto il diritto del dipendente all’inquadramento nel IV
livello CCNL SIP con decorrenza dall’1.11.1993, ed al livello F, qualifica di
specialista, ai sensi del CCNL Aziende di Telecomunicazioni, dall’1.10.1996, e,
per l’effetto, ha condannato la società datrice al pagamento delle relative
differenze retributive, nonché al risarcimento dei danni, in favore del R., per
il demansionamento dallo stesso subito, nella misura del 50% della
retribuzione;

che, con sentenza pubblicata in data 19.1.2016, la
Corte di Appello di Napoli, in parziale accoglimento del gravame interposto da
T.I. S.p.A., avverso la predetta pronunzia, ha dichiarato il diritto del R. ad
essere inquadrato nel livello 5 del CCNL SIP del 30.6.1992 con decorrenza dal
6.11.1993 e, successivamente, nel livello E del CCNL Aziende del Settore
Telecomunicazioni del 9.9.1996, ed ha condannato la società al pagamento delle
differenze retributive relative al superiore inquadramento con decorrenza dal
6.11.1998, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulle somme
annualmente rivalutate;

che è stato, invece, respinto, l’appello incidentale
interposto dal dipendente – inerente alla liquidazione dell’importo del 50% riconosciuto
a titolo di risarcimento danni sulla somma di Euro 980,00, anziché sulla somma
di Euro 1.400,00 -, <<in considerazione della riforma della sentenza di
primo grado in merito al risarcimento danni, con rigetto della relativa domanda
presentata dal R.>;

che la Corte di merito, per quanto ancora di
interesse in questa sede, ha sottolineato che <<l’esistenza e l’entità
del danno non sono stati adeguatamente allegati e provati incombendo, comunque,
sul lavoratore il relativo onere probatorio anche attraverso il ricorso alle
presunzioni (Sez. Unite 24/3/2006, n. 6572). Il
lavoratore appellato, infatti, nel ricorso introduttivo del giudizio, si è
limitato a sottolineare l’entità dell’avvenuto demansionamento evidenziando che
ciò costituiva “di per sé un danno che va valutato in via equitativa,
avendo anche riguardo agli influssi negativi che possono compromettere la
capacità psico-fisica” o la possibilità di trovare un nuovo impiego presso
altre aziende.

Tali allegazioni sono, a giudizio del Collegio,
generiche ed insufficienti (cfr. Cass. n.
29832/2008; Cass. n. 6572/2006)>>; ed
altresì che <<non risultano dedotti e dimostrati dal lavoratore né
particolari pregiudizi alla salute patiti in seguito al mutamento di mansioni,
né danni all’immagine professionale nell’ambiente lavorativo, né ripercussioni
in ambito familiare o extralavorativo, né infine determinati e specifici danni
economici correlati al mancato avanzamento professionale non tutelabili
attraverso la disposta ricostruzione della carriera e la condanna della società
al pagamento delle differenze retributive spettante >;

che per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso C.R. articolando due motivi;

che la S.p.A. T.I. ha resistito con controricorso ed
ha comunicato memorie;

che il P.G. non ha formulato richieste

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione e falsa applicazione degli artt. 2103
e 2697 c.c., e si specifica che il motivo
<<riguarda la sola domanda di risarcimento del danno professionale
respinta dal Collegio partenopeo sul presupposto di una carente allegazione in
fatto che potesse fornire elementi di prova, anche presuntiva, del danno
conseguente all’accertata dequalificazione subita dal R.>; a parere di
quest’ultimo, la Corte distrettuale sarebbe <<incorsa in errore, atteso
che il ricorrente ha puntualmente argomentato in ordine alla prova, anche
presuntiva, del danno professionale sofferto in conseguenza dell’accertata
dequalificazione>> ed al riguardo <<ha dedotto che la prova
risiedesse: nella durata della condotta;

nell’evoluzione del settore delle telecomunicazioni
che rende ancor più evidente l’obsolescenza della professionalità in caso di
dequalificazione; nell’anzianità di servizio certo parametro per valutarne la
professionalità acquisita; nella perdita del potere di coordinamento di altro
personale; nella gravità>>; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione
e falsa applicazione degli artt. 2103 c.c.; 2697 c.c., in relazione all’appello incidentale
proposto dal dipendente nel giudizio dinanzi alla Corte di Appello di Napoli, e
si osserva che, nel caso in cui la sentenza impugnata fosse cassata, con rinvio
o con decisione nel merito, verrà coinvolta anche una parte dell’appello
incidentale proposto dal R. e respinto in conseguenza del rigetto della domanda
risarcitoria; pertanto, <<l’accoglimento del ricorso de quo sul diritto
del lavoratore a vedersi risarcito il danno professionale coinvolgerà,
riformandola, anche la parte della sentenza che ha respinto la domanda avanzata
con appello incidentale sulla corretta determinazione della base di calcolo
della retribuzione mensile per il calcolo del risarcimento>>; che il
primo motivo non è fondato; ed invero, per quanto attiene al pregiudizio alla
professionalità derivato al lavoratore a seguito del demansionamento subito, i
giudici di seconda istanza sono pervenuti alla decisione, uniformandosi ai
consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali,
in tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il
riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno
professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale
e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle
caratteristiche del pregiudizio lamentato (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 4264/2017; 5237/2011).

Pacificamente, infatti, va distinto il momento della
violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del
danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non
è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi
generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c., è necessario individuare, quindi, un
effetto della violazione incidente su di un determinato bene perché possa
configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente
anche in via equitativa) del danno stesso. Al riguardo, il Giudice delle leggi
ha chiarito, già da epoca non recente (v. sent. n. 372/1994), che neppure il
danno biologico è presunto, perché se la prova della lesione costituisce anche
la prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore
dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha
prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o
privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento
deve essere commisurato. Nello stesso senso, questa Corte ha sottolineato che
le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda
risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta
datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore,
ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non
patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la
controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo
comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento
di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass. nn. 5590/2016;
691/2012). Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare l’esistenza del
danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonché
il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro (cfr., tra
le altre, Cass. nn. 2886/2014; 11527/2013;
14158/2011; 29832/2008);

che, facendo corretta applicazione dei principi
enunciati, i giudici di appello hanno motivatamente respinto le pretese del
lavoratore, ritenendo correttamente che quest’ultimo, al fine della
liquidazione del danno professionale, si fosse limitato a fornire la prova
della dequalificazione, ma non avesse fornito adeguati elementi delibatori a
sostegno del lamentato pregiudizio professionale che, da quella
dequalificazione, era causalmente derivato (v., in particolare, le pagg. 13 e
14 della sentenza impugnata, in cui si osserva che le allegazioni del R. sono
generiche ed insufficienti, poiché <<il lavoratore, nel ricorso
introduttivo del giudizio si è limitato a sottolineare l’entità dell’avvenuto
demansionamento evidenziando che ciò costituiva “di per sé un danno che va
valutato in via equitativa, avendo anche riguardo agli influssi negativi che
possono compromettere la capacità psico-fisica”>>);

che il secondo motivo va, conseguentemente,
disatteso, in quanto direttamente collegato all’accoglimento del primo mezzo di
impugnazione (ed al rigetto dell’appello incidentale interposto dal R. alla
sentenza del primo giudice, in ordine all’importo della liquidazione del
danno); è ovvio, quindi, che, una volta respinte le censure circa il mancato
riconoscimento del danno professionale, non possono prendersi in considerazione
le doglianze relative alla determinazione del quantum dello stesso; che per
tutte le considerazioni svolte in precedenza, il ricorso va rigettato;

che le spese del giudizio di legittimità, liquidate
come da dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui
all’art. 13, comma 1 -quater, del
d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis dello stesso articolo 13,
ove dovuto.

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