Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 maggio 2021, n. 14632

Licenziamento per giusta causa, Vendita di capi di
abbigliamento sul luogo di lavoro, Svolgimento di attività extralavorativa
durante l’orario di lavoro, Prova

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 1613
pubblicata il 16.4.2019, giudicando in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione
(sentenza n. 13199/2017) ha respinto la domanda di M.M.G., di impugnativa del
licenziamento per giusta causa intimatogli da F. spa in data 19.12.2008;

2. la sentenza rescindente (Cass. n. 13199/17) ha dato atto che al G.,
impiegato di VII livello con mansioni di Area Manager, erano stati contestati,
oltre a un calo di produttività, fatti di rilievo disciplinare consistiti:
nell’avere portato sul luogo di lavoro per commercializzarli capi di biancheria
intima; nell’essersi recato in due occasioni durante l’orario di lavoro presso
l’esercizio commerciale gestito dalla s.r.l. M., della quale era socio; nell’avere
timbrato in entrata il cartellino marcatempo oltre le ore 9.30 in 13 giorni,
compresi tra l’11 e il 28 novembre 2008;

3. la sentenza di legittimità ha rilevato che la
Corte territoriale (sentenza n. 7444/2014), escluso che fosse stato provato l’addebito
relativo alla vendita di capi di abbigliamento sul luogo di lavoro, aveva
tuttavia “accertato che il G., socio della s.r.l. M., società che gestiva
un esercizio commerciale di vendita al minuto di biancheria intima, durante
l’orario di lavoro, utilizzando l’autovettura aziendale, aveva raggiunto per
due volte detto esercizio commerciale, dove si era trattenuto per circa 40
minuti”; i giudici di appello avevano quindi “ritenuto provato lo
svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario di lavoro, come tale
integrante illecito disciplinare, ma (avevano) escluso che la condotta fosse di
gravità tale da giustificare il recesso perché occorreva tener conto della
«ridotta portata temporale della violazione accertata, da rapportarsi
all’orario flessibile e alle mansioni mobili di impiegato direttivo», che
richiedevano la «regolare presenza presso agenzie e sedi della società
dislocate sul territorio, con conseguente frequente e necessitata mobilità»;

4. la S.C., con la sentenza
13199/17, ha ritenuto integrato il vizio di violazione di legge, sub specie
di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta,
osservando che la Corte territoriale aveva errato nel sostenere che «un
comportamento illecito ridotto temporalmente», dal quale non era derivato un
pregiudizio concreto per il datore di lavoro, fosse per ciò solo inidoneo a
ledere il vincolo fiduciario, potendo tale effetto ricondursi a qualsiasi
condotta capace di porre in dubbio il corretto futuro adempimento della
prestazione, dovendo ulteriormente esigersi il rispetto dei canoni di
correttezza e buona fede da parte di chi, in ragione della qualifica posseduta,
svolge la prestazione al di fuori della diretta sfera di controllo di parte
datoriale; la S.C. ha poi puntualizzato che l’obbligo di fedeltà impone al
dipendente di astenersi anche da qualsiasi condotta astrattamente idonea a
ledere gli interessi del datore di lavoro e che “lo svolgimento di
attività extralavorativa durante l’orario di lavoro, seppure in un settore non
interferente con quello curato dal datore, è astrattamente idoneo a ledere gli
interessi di quest’ultimo, se non altro perché le energie lavorative del
prestatore vengono distolte ad altri fini e, quindi, finisce per essere non giustificata
la corresponsione della retribuzione che, in relazione alla parte commisurata
alla attività non resa, costituisce per il datore un danno economico e per il
lavoratore un profitto ingiusto”;

5. la Corte d’appello in sede di rinvio,
uniformandosi ai principi di diritto riaffermati dalla sentenza rescindente e
sulla base delle circostanze di fatto pacificamente accertate, ha ritenuto che
“l’avere svolto attività extra lavorativa durante l’orario di lavoro,
seppure in un settore estraneo a quello del datore di lavoro, avuto riguardo al
ruolo posseduto e all’affidamento richiesto per l’espletamento di tale ruolo,
costituisce comportamento grave, idoneo a ledere gli interessi del
datore”. Ha tenuto conto anche del danno economico cagionato al datore dalla
corresponsione della retribuzione pure per il periodo in cui il dipendente
aveva svolto attività lavorativa per conto proprio ed ha concluso che tutti gli
elementi considerati fossero idonei a ledere irreparabilmente il vincolo
fiduciario ed a sorreggere la giusta causa di recesso;

6. avverso tale sentenza M.M.G. ha proposto ricorso
per cassazione affidato a tre motivi. F. spa ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria;

7. la proposta del relatore è stata comunicata alle
parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi
dell’art. 380 bis c.p.c..

 

Considerato che

 

8. col primo motivo di ricorso è dedotta violazione
dei limiti del giudizio di rinvio, del principio di intangibilità del giudicato
e dei limiti del devoluto; si sostiene che la sentenza impugnata non avrebbe
dovuto tenere conto delle contestazioni relative alla mancata timbratura del
cartellino entro un dato orario e della presunta commercializzazione di biancheria
intima nei locali aziendali, in quanto dedotti dalla società col primo motivo
di ricorso per cassazione dichiarato inammissibile;

9. il motivo non può trovare accoglimento atteso che
la Corte di merito si è rigorosamente attenuta ai limiti del giudizio di
rinvio;

10. al riguardo si è precisato che “In ipotesi
di annullamento con rinvio per violazione di norme di diritto, la pronuncia
della Corte di cassazione vincola al principio affermato ed ai relativi
presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla
“regola” giuridica enunciata, ma anche alle premesse
logico-giuridiche della decisione, attenendosi agli accertamenti già compresi
nell’ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria indagine a
questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono
il presupposto stesso della pronuncia, formando oggetto di giudicato implicito
interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel
nulla o a limitare gli effetti della sentenza, in contrasto col principio di
intangibilità” (Cass. n. 20981 del 2015;
n. 17353 del 2010);

11. nel caso di specie, la sentenza emessa in sede
di rinvio ha fondato la decisione sul presupposto di un accertamento in fatto
relativo all’essersi il G., durante l’orario di lavoro ed utilizzando
l’autovettura aziendale, recato presso l’esercizio commerciale di vendita al
minuto di biancheria intima, gestito da una società di cui il medesimo era
socio, e di essere ivi rimasto ogni volta per circa quaranta minuti; gli
elementi presi in esame ai fini della valutazione della giusta causa di recesso
non includono gli altri fatti contestati e ritenuti non dimostrati, quali la
presunta vendita di biancheria intima presso i locali aziendali di parte
datoriale e la timbratura del cartellino ripetutamente effettuata oltre le
9.30;

12. col secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., omessa,
apparente o contraddittoria motivazione circa l’applicazione del principio di
diritto alla fattispecie concreta; si assume come manchi nella motivazione
della sentenza l’esplicitazione del nesso causale tra la condotta, cioè
l’esercizio di attività in proprio con utilizzo della macchina aziendale, ed il
venir meno del rapporto fiduciario tra le parti nonché il nocumento economico
per l’azienda datrice di lavoro;

13. il motivo non può trovare accoglimento in
ragione dell’applicabilità del nuovo testo dell’art.
360, comma 1, n. 5 c.p.c., che limita il sindacato di legittimità sulla
motivazione al minimo costituzionale, con la conseguenza che l’anomalia
motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta
in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza
della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo
dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di
qualsiasi rilievo del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra
affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile” (Cass., S.U., n. 8053/14);

14. nel caso di specie non si è in presenza di un
vizio “cosi radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto
dall’art. 132, n. 4, c.p.c. la nullità della
sentenza per mancanza di motivazione, dal momento che la motivazione non solo è
formalmente esistente come parte del documento, ma le argomentazioni sono
svolte in modo assolutamente coerente, sì da consentire di individuare con
chiarezza la «giustificazione del decisum»;

15. sulla falsariga dei principi enunciati dal
giudice di legittimità, la Corte d’appello ha valorizzato, da un lato, il
maggior onere di correttezza e buona fede connesso al ruolo manageriale svolto
dal G. e quindi l’affidamento riposto dal datore attraverso l’ampio margine di
autonomia al medesimo concesso nello svolgimento della prestazione; dall’altro,
il tradimento di tale fiducia attraverso la condotta tenuta dal dipendente di
uso dell’auto aziendale e del tempo di lavoro per soddisfare interessi privati,
legati alla gestione del negozio di biancheria intima tramite società di cui il
predetto era socio; da tali elementi ha logicamente tratto la conseguenza della
lesione del rapporto fiduciario;

16. col terzo motivo è dedotta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.,
violazione e falsa applicazione dell’art. 363 cod.
proc. civ. e degli artt. 2015, 2016, 1376, 1176 (rectius, 2105, 2106, 1375, 1175) cod. civ.;

17. si sostiene che il vizio di motivazione comporti
la violazione delle disposizioni normative sottese ai principi di diritto enunciati
dalla Corte di Cassazione; si denuncia come illegittima l’attività
investigativa svolta dall’investigatore A. incaricato dalla società, e come
inattendibile la testimonianza dal medesimo resa e relativa alla presenza
dell’attuale ricorrente presso il negozio L.L.; si assume che la sentenza
impugnata non ha analizzato la condotta addebitata al dipendente secondo i
criteri indicati nella sentenza rescindente; si afferma che la posizione
contrattuale non imponeva al predetto orari predeterminati e che era
autorizzato l’uso personale del veicolo aziendale; inoltre che il rapporto
fiduciario non può ritenersi condizionato solo dalla circostanza che il
dipendente, in due giorni, abbia sostato presso un’attività commerciale per
pochissimo tempo e che la società non ha neppure dimostrato alcun pregiudizio
economico a ciò connesso, risultando pertanto non valutato e motivato il
giudizio di proporzionalità tra condotta e sanzione irrogata;

18. il motivo è inammissibile nella parte in cui fa
riferimento alla valutazione delle prove raccolte nel giudizio di merito
(testimonianza di A.) oppure solleva questioni (illegittimità delle indagini
investigative) che risultano del tutto nuove e di cui non vi è cenno nella
sentenza impugnata e in quella rescindente; il ricorrente omette di indicare
se, in che termini e in quali atti processuali del giudizio di merito, che
avrebbe dovuto trascrivere, tali questioni erano state poste;

19. nella restante parte, le critiche mosse sono
dirette a proporre un diverso apprezzamento dei dati fattuali, e come tali
rimangono confinate nell’ambito del merito, non suscettibile di revisione in
questa sede di legittimità, se non nel perimetro segnato dal nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.;

20. per le ragioni esposte il ricorso deve essere
respinto;

21. le spese del giudizio di legittimità seguono la
soccombenza e si liquidano come in dispositivo;

22. si dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali di cui all’art. 13,
comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24
dicembre 2012 n. 228.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi
professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella
misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

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