Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 giugno 2021, n. 21550

Violazione della disciplina antinfortunistica, Responsabile
del reato di omicidio colposo, Condotta esorbitante e/o abnorme posta in
essere dalla vittima, Nesso di causalità tra condotta del lavoratore ed
evento-morte

 

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte di appello di Bologna il 7 maggio 2019,
in parziale riforma della sentenza, appellata dall’imputato, con la quale il
Tribunale di Forlì il 10 giugno 2013, all’esito del dibattimento, ha riconosciuto
E. N. responsabile del reato di omicidio colposo, con violazione della
disciplina antinfortunistica, fatto commesso il 24 settembre 2008, e, in
conseguenza, con le circostanze attenuanti generiche, lo ha condannato alla
pena stimata di giustizia, condizionalmente sospesa, oltre al risarcimento dei
danni a favore della parte civile, ha rideterminato, riducendola, la pena; con
conferma quanto al resto.

2. I fatti, in estrema sintesi, come accertati dai
giudici di merito.

Il 24 settembre 2008 M. B., socio della società
cooperativa T. Trasporti, mentre stava operando, come manovratore di una gru
per portare pannelli fotovoltaici sul tetto di un capannone, è salito sul tetto
dello stesso al fine di vedere dove si era verificato un danno alla copertura a
causa della movimentazione di un bancale contenente i pannelli, essendo stata
realizzata dalla s.r.l. E. una piattaforma di sbarco, ove poggiare i pannelli,
in una parte del tetto che era retta solo da “copponi” di eternit;
purtroppo la lastra di copertura, come si è detto, lesionata e comunque non in
grado di reggere in sicurezza il peso di un uomo, ha ceduto per il peso di
M.B., che è precipitato a terra dall’altezza di otto metri, perdendo la vita
sul colpo.

La posizione di garanzia di E. N. individuata dai
giudici di merito è quella di legale rappresentante della ditta E. s.r.I.,
esecutrice dei lavori commissionati dalla ditta “T.” s.r.l. per la
realizzazione ed il montaggio presso i suoi stabilimenti di un impianto
fotovoltaico di produzione di energia elettrica; la s.r.l. E. di E. N. ha fatto
ricorso al noleggio di attrezzatura con operatore per il sollevamento del
materiale sino al tetto, ricorrendo a tal fine alla T. trasporti soc.
cooperativa.

Il profilo di colpa ritenuto sussistente a carico di
N. è quello di avere omesso di installare opere provvisionali per i rischi di
caduta dall’alto nella zona in cui si è verificato l’infortunio, quali un
sottopalco ovvero altri sistemi di protezione, in violazione – si è ritenuto –
del disposto di cui agli artt.
122 e 148 del d. Igs. 9
aprile 2008, n. 81, e di avere, “a monte”, fatto realizzare la
piattaforma di sbarco su di una superficie di copertura insicura, sorretta
soltanto da fragili copponi di eternit.

3. Ricorre per la cassazione della sentenza
l’imputato, tramite difensore di fiducia, affidandosi a tre motivi con i quali
lamenta violazione di legge (tutti e tre motivi) e vizio di motivazione (il primo
motivo).

3.1. Con il primo motivo denuncia mancanza,
insufficienza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione quanto ai
seguenti temi: omessa valutazione di controprove dichiarative che si stimano
decisive assunte nel corso dell’istruttoria dibattimentale (mancanza parziale
della motivazione); parziale travisamento del fatto (contraddittorietà della
motivazione); incongruenze logiche ed incoerenza delle conclusioni rispetto ai
dati probatori raccolti a dibattimento (illogicità della  motivazione); ed inoltre violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., non essendo state
vagliate tutte le prove assunte nel dibattimento.

Rammenta il ricorrente che la stessa Corte di
appello riconosce: che il tetto era pedonabile in sicurezza, purché integro;
che il danneggiamento della copertura era determinato da una condotta della
vittima; che M. B., pur non essendo addetto a nessuna mansione che comportasse
di dover salire sul tetto, ha deciso ugualmente di salirvi per verificare il danno
alla copertura causato dalla propria condotta; che lo stesso ha camminato sopra
la parte del tetto dallo stesso lesionata ed è caduto a terra. L’affermazione
di responsabilità, fondata sul non avere N. installato opera provvisionali,
sarebbe illogica e contraddittoria. Al momento del fatto non era ancora in
vigore alcuna norma che imponesse l’adozione di sistemi di protezione
collettiva; l’imputato aveva correttamente dotato tutti i propri dipendenti di
dispositivi di protezione individuale; terzi estranei, quali M. B., non
dovevano in nessun caso essere presenti sul tetto e, anzi, lo stesso, dopo
avere causato la rottura della superficie, 
inopinatamente, senza esservi tenuto e non essendo stato autorizzato, è
salito proprio sulla lastra danneggiata.

Che B. sia salito spontaneamente e non indotto da
nessuno è stato affermato dai testi T. e F.; L. ha affermato che probabilmente
B. intendeva verificare di persona il danno e quanto era accaduto.

Si tratterebbe, pertanto, di una condotta della
vittima vistosamente esorbitante ed abnorme, in contrasto con il principio di
auto-responsabilità del lavoratore.

La reale causa dell’infortuno sarebbe da addebitarsi
esclusivamente all’agire  del deceduto.

Le testimonianze assunte dimostrerebbero che,
diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di merito (p. 8), non è vero che M.
B. fu invitato a salire e non è vero che sul tetto vi fosse il rischio di
caduta: si richiamano al riguardo, quanto al primo aspetto (salita della p.o.),
dichiarazioni del teste T. contrastanti con quelle del consulente tecnico ing.
G., che – si sottolinea – non era presente ai fatti; quanto al secondo aspetto
(rischio del tetto), la circostanza è affermata esclusivamente dal coimputato,
assolto in primo grado, F.S., non comprendendosi donde tragga tale
informazione.

Viceversa, più testi avrebbero confermato che il
tetto in fibrocemento, ove integro, poteva reggere il peso di un uomo,
ribadendosi che il danno alla copertura era stato causato proprio dalla
condotta di M. B. e che, pur in presenza del danno, ove avesse camminato sul
tetto un dipendente della E. si sarebbe sicuramente salvato, poiché munito di
dispositivi individuali di protezione.

La Corte di appello, insomma, ad avviso del
ricorrente, non ha tratto le logiche conseguenze (che si auspicano liberatorie
per l’imputato) di tre circostanze fattuali indiscusse: 1) B. ha rotto con la
gru il pannello; 2) B., che doveva e poteva operare solo da terra, ha,
liberamente ed inopinatamente, deciso di salire sul tetto; 3) B. ha camminato
proprio sul pezzo di tetto rotto, precipitando al suolo.

Non sussisterebbe la violazione dei contestati artt. 128 e 148 del d. Igs. n. 81 del 2008,
in quanto N. aveva regolarmente fornito tutti i propri dipendenti di
dispositivi di protezione individuali sicuramente idonei ad impedire l’evento
e, sino all’intervento della stessa vittima, il tetto era integro.

3.2. Con il secondo motivo il ricorrente censura violazione
della legge penale (artt. 40 e 41, comma 2, cod. pen.), sotto il profilo del
mancato riconoscimento della insussistenza degli elementi, soggettivo ed
oggettivo, del reato di cooperazione in omicidio colposo, alla luce della
ritenuta interruzione del nesso di causalità tra condotta dell’imputato ed
evento-morte in ragione della presenza di una condotta esorbitante e/o abnorme
posta in essere dalla vittima. Ad avviso della difesa, E. N., alla stregua
delle considerazioni svolte al punto che precede, aveva adottato tutte le
precauzioni necessarie di sicurezza e l’affermazione di penale responsabilità
deriverebbe illegittimamente ed erroneamente da un addebito meramente oggettivo.

Non sarebbe stata in alcun modo prevedibile la
abnorme salita sul tetto della vittima, che doveva esclusivamente agire da
terra, come concordato tra la E. e la T. e come esplicitato anche nel P.O.S.

Nel P.O.S. di T. non vi era alcuna previsione quanto
al lavoro in quota, poiché altra era l’attività da eseguire, di spostamento dei
pannelli mediante la gru, da terra, senza salire sul tetto.

Prosegue il ricorso: «In questo contesto, non appare
possibile contestare al N. alcuna condotta omissiva, considerando che Io stesso
aveva organizzato correttamente il lavoro da effettuare senza che fosse
prevista la necessitò di salire sul tetto da parte di alcuno, ad esclusione dei
propri operai, costoro invece qualificati ad operare in altezza ed
adeguatamente protetti con i dispositivi di protezione individuale previsti
dalla normativa […] in dibattimento mai è emerso che nell’attività richiesta
dal N. a T. si fosse anche solo accennato alla necessità di salire sul tetto,
ed è con tutta evidenza  dimostrato dallo
stesso POS della società datrice di lavoro del B.. Nessun rimprovero pare
potersi muovere dunque al N., in quanto lo stesso si è legittimamente affidato
alla professionalità del soggetto presentatosi per conto di T. per eseguire il
lavoro da compiersi, senza potersi ipotizzare che lo  stesso avrebbe tenuto una condotta abnorme
LA» (così alle pp. 15-16 del ricorso).

Si ribadisce, con richiamo di più precedenti di
legittimità che si stimano pertinenti, anche a Sezioni unite, che nel caso di
specie erano state adottate  tutte le
cautele possibili da assumersi ex ante e che il comportamento di B. non poteva
rientrava in alcun margine di prevedibilità.

Alla stregua delle consolidate nozioni di
“abnormità” e di “esorbitanza” ed alla luce del principio
di auto-responsabilità del lavoratore, avendo ormai il modello c.d.
“collaborativo” sostituito quello “iperprotettivo”, si
evidenzia essere stati nella vicenda in esame sia i lavoratori della E. sia
quello della T. muniti degli strumenti idonei ad effettuare il proprio lavoro
in totale sicurezza: «Ne deriva l’evidente assenza di violazione della norma
cautelare che, oltre che idonea ad influire sotto il profilo della tipicità
oggettiva del reato, lo è certamente anche sotto il profilo soggettivo
dell’assenza di colpa» (così alla p. 21 del ricorso).

3.3. Mediante l’ultimo motivo il ricorrente si duole
della violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., per essere stata pronunziata
sentenza di condanna in relazione ad un profilo di colpa specifica non
contestato nel capo di imputazione.

Sottolineato che l’unico profilo di colpa contenuto
nell’editto è quello di non avere predisposto sistemi di protezione anticaduta
collettivi (quali, ad esempio, sottopalchi), si rammenta avere con l’appello
censurato la condanna, che è intervenuta – si ritiene da parte della difesa –
per non avere adottato sistemi di protezione individuale per un operaio non in
organico della E. e che non doveva lavorare in quota.

La Corte di appello ha escluso la sussistenza di
violazione di legge, sottolineando (alla p. 15) Che l’istruttoria si è
ampiamente svolta e che la difesa si è esercitata anche sul tema dei
dispositivi di protezione individuale. Tuttavia, ad avviso del ricorrente, «La
giurisprudenza citata dalla Corte d’appello […] si fonda sul presupposto che
i diversi profili di colpa specifica si riferiscano al medesimo fatto materiale
enunciato nel capo d’imputazione, che per legge deve contenere la compiuta
descrizione degli elementi costitutivi del fatto. Nel caso di specie il
giudicante non si è limitato ad aggiungere nuovi profili di colpa specifica ed
ha invece preso in considerazione una nuova condotta di natura omissiva
impropria, quella della mancata predisposizione dei dispositivi di protezione
individuale, che neanche indirettamente è stata contemplata in imputazione ed
avrebbe inoltre determinato l’evento attraverso un percorso causale totalmente
nuovo. L’immutazione del fatto così come operato dal Giudice di prime cure e,
successivamente, confermato dalla Corte d’appello, configura ipotesi di nullità
della pronunzia per difetto di correlazione tra imputazione e sentenza, in
aperta violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p.» (così alle pp. 22-23 del ricorso).

Il ricorrente chiede, dunque, l’annullamento della
sentenza impugnata.

4. Il P.G. della Corte di cassazione il 15 febbraio
2021 nelle conclusioni scritte rassegnate ex art. 23, comma 8, del d.l. 28
ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, nella I. 18 dicembre 2020, n. 176, ha chiesto il
rigetto del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. Premesso che il reato non è prescritto (fatto del
24 settembre 2008 + quindici anni = 24 settembre 2023), il ricorso è infondato
e deve essere rigettato, per le seguenti ragioni.

In linea generale, si osserva che l’impianto
motivazionale della sentenza della Corte territoriale, che ha confermato la
responsabilità dell’imputato, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente,
appare immune da censure.

Le argomentazioni poste a sostegno del decisum
risultano essere puntuali, coerenti, prive di discrasie logiche e del tutto idonee
a rendere intelligibile l’iter logico-giuridico attraverso il quale il giudice
di appello, in uno con il giudice di primo grado, è pervenuto alla decisione
adottata. Non può non rilevarsi come le doglianze difensive proposte in questa
sede siano già state, in larga parte, esaminate dai giudici di merito, i quali
hanno fornito, in proposito, risposte congrue sotto il profilo logico e
aderenti ai principi consolidati espressi dalla Corte regolatrice in materia.

Ed occorre subito evidenziare come non sia
conferente la censura riguardante il profilo, più volte ribadito nell’atto di
impugnazione, in ordine alla inapplicabilità al caso di specie della disciplina
che impone l’adozione di sistemi di protezione collettiva (art. 148, comma 1, del d. Igs. n.
81 del 2008, come sostituito dall’art. 85, comma 1, del d. Igs 3
agosto 2009, n. 106).

Invero, come hanno correttamente evidenziato i
giudici di merito, la formulazione originaria dell’art. 148 richiamato, vigente
all’epoca dei fatti prevedeva comunque, al comma 2, nel caso di dubbia
resistenza di tetti, lucernari e coperture l’adozione di tutti i necessari
apprestamenti atti a garantire la incolumità delle persone addette, sicché ben
può parlarsi di continuità normativa sullo specifico punto.

2. Quanto, in particolare, al primo motivo
(incentrato su: mancanza parziale della motivazione, travisamento parziale del
fatto, inconguenze logiche ed incoerenza nelle conclusioni), si tratta, a ben
vedere, della riproposizione del primo motivo di appello (v. pp. 2-7
dell’impugnazione di merito), cui la Corte territoriale ha fornito adeguata e
logica risposta, rispetto alla quale il primo motivo di censura si pone, a ben
vedere, in termini di soggettivo dissenso, prospettando un’alternativa
ricostruzione dei fatti, richiamando nel ricorso talune dichiarazioni
testimoniali e ribadendo che la decisione del lavoratore di salire sul tetto
sarebbe dipesa unicamente dalla sua volontà.

Ebbene, in sede di legittimità, come è ampiamente
noto, non è consentito procedere ad una rilettura degli atti processuali.
Invero, l’articolo 606, comma 1, lettera e), cod.
proc. pen. non consente alla Corte di cassazione – che non è un Tribunale
di terza istanza – una diversa interpretazione dei dati processuali o delle
prove perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla
correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali.

 Ed è
principio non controverso che, nel momento del controllo sulla motivazione, la
Corte di cassazione non è tenuta a stabilire se la decisione di merito proponga
la migliore ricostruzione dei fatti, né a condividerne la giustificazione, ma
deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il
senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. La
ricostruzione proposta dai giudici di merito, fondata su un’analisi coerente
delle emergenze processuali richiamate nelle due sentenze conformi, riconduce
all’imputato la scelta imprudente e negligente, accertata mediante la
escussione dei testimoni e del consulente tecnico, di realizzare una
piattaforma di sbarco dei bancali contenenti i pannelli, in violazione delle
previsioni del POS, piattaforma sopra la parte vecchia del capannone la cui
copertura non era stata rinforzata come nella parte nuova (si veda in proposito
sentenza di primo grado che richiama la testimonianza del teste ispettore C.).

Ciò aveva permesso al lavoratore, salito sui tetto,
di percorrere una zona non sicura, determinandone la caduta dall’alto per
sfondamento della lastra di eternit che non aveva retto il peso.

La difesa rimarca nel ricorso che tale ricostruzione
non sarebbe conforme alle risultanze in atti pretendendo una rivisitazione del
contenuto delle dichiarazioni testimoniali raccolte, rivisitazione che – si
ribadisce – è inibita alla Corte di cassazione. Nella sentenza di primo grado
sono riportati, con coerenza e precisione, passaggi significativi del contenuto
delle testimonianze assunte, in grado di dare conto in modo coerente delle
ragioni fondanti il convincimento assunto. Particolare rilievo è attribuito
alla deposizione del teste C., il quale ha rimarcato come dopo l’infortunio non
si è fatto più uso della piattaforma di sbarco.

La difesa, a ben vedere, non si confronta con tali
argomentazioni assumendo erroneamente nel ricorso che la ricostruzione dei
fatti è stata desunta unicamente dalle dichiarazioni del coimputato e del
consulente tecnico.

La debolezza del tetto e la sua incapacità di
reggere il peso è stata, in realtà, ampiamente argomentata nella sentenza di
primo grado (cfr. p. 5 della stessa, ove è richiamata la testimonianza del dipendente
D. Z., cui era stato detto di non andare con tutto il peso sulle lastre di
eternit).

I giudici di merito hanno, quindi, correttamente
riconosciuto la responsabilità dell’imputato, il quale non aveva predisposto
alcuna misura per prevenire i rischi di caduta dall’alto per tutti gli addetti
alle lavorazioni. Tale obbligo doveva intendersi esteso a tutti i lavoratori e
non solo ai dipendenti della E., come puntualizzato, tra le altre, da Sez. 4,
n. 11360 del 10/11/2005, dep. 2006, P.M. in proc. Sartori ed altro, Rv.
233662-01, secondo cui «In tema di lesioni e di omicidio colposi, perché possa
ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a
prevenire gli infortuni sul lavoro, è sufficiente che sussista tra siffatta
violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale non può ritenersi
escluso solo perché il soggetto colpito da tale evento non sia un lavoratore
dipendente (o soggetto equiparato) dell’impresa obbligata al rispetto di dette
norme, ma ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla
inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli articoli 40 e 41 cod.
pen. Ne consegue che deve ravvisarsi l’aggravante di cui agli articoli 589, comma secondo, e 590, comma terzo, cod. pen., nonché il requisito
della perseguibilità d’ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex articolo 590, ultimo comma, cod. pen., anche nel
caso di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro,
purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell’infortunio non
abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere
interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante e
purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in
effetti verificatosi. (Nella specie, la Corte ha ritenuto sussistente
l’aggravante di cui al comma terzo dell’articolo 590 cod. pen., con conseguente
procedibilità d’ufficio del reato ai sensi dell’ultimo comma dello stesso
articolo, in relazione ad un infortunio che aveva riguardato uno studente
presente in una palestra scolastica per partecipare ad una lezione di
educazione motoria)». Deve, infatti, ritenersi che nel caso di specie la
presenza della vittima sul luogo di lavoro non sia anormale né atipica né
eccezionale.

Peraltro, si è espressamente precisato nella
sentenza impugnata (p. 9) che mancava un piano di coordinamento rispetto alla
T. e che la concreta realizzazione del piano di appoggio era imprudente.

3. In relazione all’ulteriore motivo di ricorso
(pretesa abnormità della condotta del lavoratore), si ripropone – a ben vedere
– una tesi già sostenuta con il secondo motivo di appello (pp. 7-15) e già
esclusa, con motivazione non incongrua, dai giudici di merito. Infatti, già
nella sentenza di primo grado si precisa (alle pp. 3 e 5) che la decisione di
salire sul tetto fu presa insieme da B. e da T., che B., comunque, non era a
conoscenza delle condizioni del tetto e che a B., come a qualunque altro
estraneo, andava impedito di salire; e nella sentenza impugnata si ribadisce
che i dipendenti di N. hanno richiesto a B. di salire su tetto o, quantomeno,
non lo hanno impedito e che N., che non aveva delegato nessuno per la
osservanza degli obblighi in tema di sicurezza, ha, comunque, omesso di
vigilare sui propri dipendenti.

Le argomentazioni contenute nelle sentenze di
merito, in base alle quali non è sostenibile che la condotta del lavoratore
potesse essere, da sola, idonea ad interrompere il nesso causale con l’evento
verificatosi, sono conformi ai principi più volte affermati dalla Corte di
legittimità in proposito.

E’ orientamento costante di questa Corte, in materia
di infortuni sul lavoro, quello in base al quale la condotta colposa del
lavoratore infortunato non possa assurgere a causa sopravvenuta, da sola
sufficiente a produrre l’evento, quando sia comunque riconducibile all’area di
rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso il datore di lavoro è
esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore
presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e dell’esorbitanza,
rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive di organizzazione
ricevute (così, ex plurimis, Sez. 4, n. 21587 del 23/03/2007, Peluso, Rv.
236721-01).

Deve, inoltre, rammentarsi che «In tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro, ove in un unico cantiere operino più
imprese le cui attività siano interferenti, il rischio che il lavoratore si
trovi nell’area in cui opera una diversa impresa e collabori, anche
indebitamente, alle lavorazioni affidate a un dipendente di altro datore di
lavoro, non può considerarsi eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio
governata dall’imprenditore a tutela dei suoi diretti dipendenti. (Fattispecie
in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva riconosciuto
la responsabilità del procuratore speciale dell’impresa appaltatrice per
l’infortunio occorso a un dipendente dell’impresa committente, escludendo
l’abnormità del comportamento di quest’ultimo che si era ingerito nelle
lavorazioni di spettanza dell’impresa appaltatrice)» (Sez. 4, n. 57930 del
03/07/2018, Forgiarini, Rv. 274773-01).

A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o
negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di
sicurezza approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna
efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di
sicurezza. Ciò in quanto, tali disposizioni, secondo orientamento conforme
della giurisprudenza di questa Corte, sono dirette a tutelare il lavoratore
anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore
di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di
eventuali pericoli, (così, tra le numerose, Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017,
Meda, Rv. 269255-01; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015, Palazzolo, Rv. 263497-01;
Sez. 4, n. 38877 del 29/09/2005, P.C. in proc. Fani, Rv. 232421-01).

4. Quanto, poi, all’ultimo motivo di impugnazione
(sarebbe stata pronunziata sentenza di condanna per un profilo di colpa
specifica non contestato nell’imputazione), si è ulteriormente in presenza di
un tema già posto con il terzo motivo di appello (pp. 16-20), che è stato,
però, già adeguatamente disatteso con la sentenza impugnata, non essendo
intervenuta alcuna immutazione del fatto. Per altro verso, la giurisprudenza di
legittimità ha più volte ribadito il seguente principio: «Nei procedimenti per
reati colposi, la sostituzione o l’aggiunta di un particolare profilo di colpa,
sia pure specifica, al profilo di colpa originariamente contestato, non vale a
realizzare diversità o immutazione del fatto ai fini dell’obbligo di
contestazione suppletiva di cui all’art. 516 cod.
proc. pen. e dell’eventuale ravvisabilità, in carenza di valida
contestazione, del difetto di correlazione tra imputazione e sentenza ai sensi
dell’art. 521 stesso codice. (Fattispecie in
tema di infortuni sul lavoro: la Corte ha escluso la dedotta violazione di
legge nell’ipotesi di condanna per mancato rispetto di norme cautelari, laddove
la contestazione riguardava plurimi profili di negligenza e di colpa)» (Sez. 4,
Sentenza n. 2393 del 17/11/2005, dep. 2006, Tucci e altro, Rv. 232973-01).

5. Consegue, in definitiva, il rigetto del ricorso e
la condanna del ricorrente, per legge, al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 giugno 2021, n. 21550
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